Il conflitto siriano sembra giunto ad un tornante decisivo. Con l’intervento russo avremo due sole possibilità: o la guerra fratricida degenera in un vero e proprio conflitto regionale oppure la spunta Putin obbligando tutti a fare fronte per schiacciare il “nuovo nazismo” islamico — e solo dopo sbarazzarsi dell’ingombrante Assad.

La Casa Bianca e Israele pendono per la seconda ipotesi, così come pezzi da novanta dell’establishment italiano, ma Obama dovrà convincere turchi e sauditi ad obbedire.


Spesso le dichiarazioni di anonimi membri
dell’amministrazione statunitense, rilasciate con scientifico tempismo ai media, valgono più dei proclami ufficiali del presidente.

Interrogato dal New York Times sull’intervento russo in Siria,
pochi giorni fa un funzionario della Casa Bianca è ricorso al gergo pugilistico per comunicare il proprio sentimento. «Knock yourselves out», ha esclamato. Traslato in italiano: «Impiccatevi».

Al di là della propaganda, Washington ritiene funzionale ai propri interessi il coinvolgimento di Mosca, che nel migliore dei casi immagina risucchiata dalle sabbie mobili, oppure a lungo impegnata a puntellare il fronte alauita. Per Obama i danni collaterali riguarderanno unicamente le nazioni indigene. Mentre la superpotenza, che in Medio Oriente persegue il disimpegno, deve preoccuparsi solo di evitare incidenti con l’aviazione russa e presentare come oltraggiosa la manovra di Putin.

Da anni l’attuale Casa Bianca considera il Medio Oriente di importanza secondaria.
Gli Stati Uniti cercano semplicemente di evitare che tra le potenze locali emerga un egemone e di far sì che la loro fuoriuscita dalla regione produca vuoti in cui attrarre antagonisti e partner.

Il conflitto siriano ha rappresentato un dossier rilevante solo fino alla primavera 2013.
Ovvero quando i vertici dell’Iran hanno acconsentito a negoziare il futuro del loro programma nucleare e Washington ha diminuito l’impegno profuso, addestrando assieme a Turchia e monarchie del Golfo i “ribelli” sunniti, per rovesciare il regime di Bashar al-Asad e minare la mezza luna di influenza iraniana.

Da allora, la mattanza siriana è diventata tanto marginale quanto irrisolvibile,
complice l’ascesa dello Stato Islamico. Impossibilitato a intervenire con efficacia, Obama ha di fatto abbandonato la Siria al suo destino. Come dimostrato dalla pressoché simbolica campagna aerea condotta contro il sedicente califfato e dal fallimento del progetto di addestramento dei ribelli “moderati”, più inclini a schierarsi con i jihadisti che ad affidarsi alle cure della Cia. Peraltro negli ultimi mesi Barack ha accettato, per bocca di John Kerry, che il clan alauita rimanga al potere per scongiurare la definitiva conquista del paese da parte dei miliziani di al-Baghdadi.

Per la Russia invece la Siria riveste notevole importanza. Non solo perché qui Mosca possiede la sua unica base navale sul Mediterraneo. Partecipando attivamente alla guerra e difendendo Damasco, Putin intende rendersi indispensabile in occasione di un prossimo negoziato e ottenere concessioni dagli Stati Uniti sull’Ucraina, in assoluto la questione più rilevante.

Convinto che il mero arrivo in Siria del suo contingente avrebbe convinto la Casa Bianca a trattare,
lunedì scorso il capo del Cremlino ha chiesto e ottenuto un incontro con il suo omologo statunitense. Il summit, il primo tra i due leader dal 2013, ha però dimostrato l’indifferenza obamiana e come i tempi non siano maturi per un accordo. Dopo circa 60 minuti trascorsi a discutere del futuro della Siria, senza stabilire chi dovrebbe succedere ad al-Asad e chi debba spendersi per sconfiggere lo Stato Islamico, la conversazione si è definitivamente arenata sull’intransigenza del presidente statunitense.

D’altronde, sul teatro siriano devono verificarsi alcuni eventi prima di raggiungere un compromesso, almeno in Medio Oriente. Anzitutto, la posizione di al-Asad dovrà apparire rafforzata, trasformando in automatica la sua presenza nella fase di transizione. Allo stesso tempo, l’offensiva russa dovrà costringere a miti propositi i vari gruppi di ribelli impegnati sul terreno, anche quelli vicini agli americani e discretamente indipendenti dalla loro volontà. Infine, l’attuale mobilitazione di truppe iraniane e di milizie sciite non è sufficiente: più che difendere il dittatore alauita, devono assemblare una forza di terra che combatta il califfato. Giacché la Casa Bianca lo ritiene un mostro di esclusiva pertinenza altrui.

In attesa degli eventi, Obama osserva con soddisfazione le mosse di Putin. Vista da Washington, la Russia non riuscirà a incidere in maniera decisiva su una guerra tanto complessa. Anzi, rischia di impantanarsi nel Grande Medio Oriente, come accaduto in Afghanistan all’inizio degli anni Ottanta.

Inoltre, la campagna aerea del Cremlino impedisce alla Turchia, partner che al momento intrattiene rapporti alquanto difficili con la superpotenza, di realizzare una no-fly zone e di estendere la propria influenza sul futuro governo di Damasco. Così come l’attuale attrito tra Mosca e Ankara rende assai complicata la riesumazione di Turkish Stream, l’oleodotto sostitutivo del defunto South Stream che Obama prova da tempo a sabotare.

Barack è dunque esclusivamente impegnato a dipingere come pericolosa l’azione di Putin e a risparmiarsi fortuite frizioni con il contingente russo, in una contingenza invece percepita come favorevole. Al massimo, nei prossimi giorni il presidente ordinerà una cosmetica intensificazione degli attacchi contro le postazioni dello Stato Islamico. Non a caso il portavoce della Casa Bianca, Josh Earnest, ha indicato che non è in corso alcuna revisione della strategia americana applicata alla Siria. Né Washington ha proposto nuove sanzioni per censurare il Cremlino.

Piuttosto, dopo aver definito Putin come «destinato a fallire», il segretario alla Difesa, Ashton Carter, si sta industriando per il deconflicting. Specie dopo che nella giornata di mercoledì il metodo scelto dai russi per comunicare l’inizio dei raid ha letteralmente scioccato le autorità statunitensi. Circa un’ora prima dell’inizio dei bombardamenti sulla Siria, un generale russo con tre stelle sulla divisa si è personalmente recato presso l’ambasciata americana di Baghdad chiedendo di essere ricevuto dall’attaché militare, al quale ha annunciato cosa stava per accadere.

Tanta improvvisazione induce gli americani a pretendere un coordinamento più efficiente, ma non a modificare la loro interpretazione della crisi. Perché per Obama l’iniziativa russa rappresenta una svolta positiva. Indipendentemente dal massiccio spin applicato alla vicenda.

* Fonte: Limes