Guerra dell’energia (4)
Il 3 febbraio scorso dicevamo la nostra sul crollo del prezzo del petrolio, che in poche settimane, a causa dell’aumento dei livelli di estrazione dei paesi dell’OPEC, era crollato da 110 a 50 dollari il barile.
Sostenevamo che la causa principale fosse la determinazione dei paesi OPEC (sauditi in testa) a mettere fuori gioco gli USA che nel frattempo avevano investito ingenti capitali nella costosa tecnica dell’estrazione di gas estratto tramite perforazione delle rocce nel sottosuolo (shale gas fracking). Ponevamo insomma l’accento sull’elemento della accanita competizione tra paesi capitalistici. Ci si rispose che sbagliavamo, che in realtà si trattava di un complotto, che “il crollo dei prezzi del petrolio era dovuto alla ripresa della guerra economica che gli Stati Uniti portano alla Russia tramite il proxy saudita”.
A mesi di distanza è possibile verificare chi avesse visto giusto. Parlano i fatti….
Petrolio: l’OPEC mette fuori gioco gli USA
di Raffaele Ricciardi*
«Dopo una battaglia lunga un anno, l’Opec – il cartello dei principali Paesi produttori di petrolio che si riunisce oggi a Vienna – ha centrato il suo obiettivo: mettere fuori gioco gli Usa. Come sottolinea un’analisi di Bloomberg, infatti, la strategia del cartello di non tagliare la produzione, nonostante la picchiata dei prezzi, è sull’orlo di soffocare l’estrazione a stelle e strisce: come mostra chiaramente il grafico della produzione Usa, si è tornati ai livelli dello scorso novembre, quando l’Opec decise di cambiare strategia e di difendere la sua quota di mercato, a danno degli americani, piuttosto che tagliare la produzione di barili per difendere il prezzo.
La produzione di petrolio negli USA è salita e poi ridiscesa, ed ora è vicina al livello previsto dall’Opec
Certo, anche per i Paesi Opec c’è un conto da pagare: molti stati, basti pensare al Venezuela, hanno i conti pubblici legati a doppio filo con i proventi dell’oro nero. Proprio il Paese centramericano chiede ora che vengano re-introdotti i tagli automatici alla produzione, in modo da tenere il barile a 70 dollari (dagli attuali 46 circa).
Un anno di profitti buttato al vento in questa guerra di posizione, unito a monete sempre più deboli sullo scenario internazionale, ha gravemente intaccato il fragile equilibrio della finanza pubblica non solo di Caracas, ma anche di Algeria, Iraq, Libia e Nigeria, tutti Paesi in difficoltà. Il calcolo su una selezione di greggio proveniente dai Paesi Opec è di un livello inferiore del 46% rispetto al 2014, con una perdita dall’export di circa 370 miliardi di dollari. Per la sola Arabia Saudita – architetto principale della strategia Opec – la stima del Fondo monetario internazionale è per un deficit di bilancio al 20% del Pil, quest’anno. Per di più, se si considera che il boom di produzione Usa è andato avanti per altri sei mesi, la strategia dell’Opec costata così tanto ad alcuni membri è stata buona – in fin dei conti – solo per tornare dopo altri sei mesi ai livelli di partenza.
D’altra parte, il piano sembra funzionare. Il petrolio è di un terzo sotto il valore dello scorso novembre e la produzione Usa è scesa di circa mezzo milione di barili al giorno, poco sopra i 9 milioni, dal picco trentennale raggiunto in giugno. Secondo l’Agenzia dell’Energia, i tagli andranno avanti il prossimo anno per stazionare su una media annua di 8,86 milioni di barili. Di contro, gli affari dell’Opec si gonfieranno con la previsione di una crescita della domanda da quei Paesi a 31,1 milioni di barili, contro i 29,3 milioni dell’anno scorso. “La loro strategia sta funzionando, per loro”, ha detto l’analista di Barclays Miswin Mahesh. “Significa un po’ di sofferenza ora, ma nel medio-lungo periodo coglieranno il frutto di un mercato più bilanciato, con forniture di shale sotto controllo, domanda in crescita e pure i prezzi”».
* Fonte: Economia e Finanza