Qui di seguito uno dei contributi presentato in occasione della riunione nazionale del Consiglio Nazionale di ORA-costituente.

IL POPULISMO, VEICOLO E CONTENUTO

«Cercasi: un nuovo populismo di sinistra che vada incontro al sentimento nazionale che può essere espresso in due sole parole: Siamo Stufi!»
Owen Jones, The Guardian

Nei giorni del referendum del NO in Grecia
«ho appena visto un servizio in televisione, c’era una vecchina in piazza Symtagma che da come era vestita apparteneva certamente a un ceto popolare che brandiva l’icona di San Giorgio che uccide il drago e gridava “no euro, no euro”. Lasciatemelo dire: ma quanto cazzo è bello il populismo!»
Manuel de Palma

Negli stessi giorni del referendum in Grecia mi è capitato di leggere una opinione di una tipica elettrice e tesserata del PD: ceto medio alto, circa 60 anni, con ogni probabilità figli sistemati grazie a capitale di relazione (agganci, conoscenze).

Insomma una di quelle persone che la crisi non la soffrono perché la fanno pagare agli altri.
Scriveva la signora:
«la destra e la sinistra non esistono più, c’è chi cavalca il populismo e chi no». Naturalmente la piddina rivendicava orgogliosamente di sostenere chi si oppone ai populisti; purtroppo essa non vede di essere invece parte costitutiva del peso morto della storia in quanto parte degli indefettibili sostenitori ed elettrici dei peggiori demagoghi. Non c’è modo più ipocrita ma nello stesso tempo più netto per mettersi a tutela di interessi di ceti alti e di interessi dominanti.

La lettura della realtà di queste persone con una ormai remota ascendenza di sinistra (la stessa inclinazione appartiene anche a Sel ed in buona parte anche a Rifondazione) è centrata sul concetto secondo il quale, per questione di civiltà, si debba stare contro il popolo, non in mezzo, in parte rappresentandolo in parte indirizzandolo.

Da questo discende, per quanto riguarda il PD, la natura di un partito a misura di privilegiati economici che si reputa antropologicamente così superiore ai “poveracci” da non volercisi mescolare. Per quanto riguarda invece gli esponenti della sinistra radicale il distinguo si pone su un piano di presunta ed autoproclamata superiorità culturale, ne discende il rifiuto dei ragionamenti definiti di pancia che si esaurisce nel rifiuto di riconoscerne le cause di certe pulsioni che spesso dovrebbero essere addirittura costitutive per la sinistra, il culto di un astratto valore di solidarietà prescindendo dall’analisi del chi e perchè questa solidarietà possa permettersela.

Tutto il resto ne consegue: i ceti popolari sono rimasti ormai da decenni completamente privi di rappresentanza perché alla sinistra il popolo fa fondamentalmente schifo. Da questo discendono i discorsi consolatori e autoassolutori, sentiti milioni di volte, a proposito di una presunta natura di destra del popolo italiano come giustiificazione rispetto all’aver preso pochi voti. “noi saremmo una splendida opzione politica, ma gli italioti si meritano la democrazia cristiana/Berlusconi/Salvini/Grillo”.

Mai una sola domanda sul fatto che se anche i ceti popolari non ti votano vuol dire che come sinistra hai fallito per incapacità politica nei tuoi obiettivi, mai una riflessione sul fatto che il voto non è un atto dovuto ma un premio da conquistarsi e meritarsi, mai una riflessione rispetto al fatto che è normale non ricevere il voto da parte di un popolo per il quale si dimostra sempre e solo disprezzo ed alterità.

La tesi che sostengo, in pratica, è che i politici della sinistra nella propria estrema esterofilia o in ogni caso nel proprio atteggiamento profondamente antinazionale, abbiano la medesima colpa che Gramsci imputava ad intellettuali e letterati dell’800 e del primo 900: non avevano concorso ad instaurare un dialogo col proprio popolo che lo facesse crescere e gli facesse raggiungere un superiore livello di coscienza.

Questo approccio al reale della sinistra italiana è mille miglia lontano dall’approccio espresso nei confronti dei cosidetti “Chavs” dal nuovo corso del Labour di Corbyn. Un esempio di questa profonda differenza di approccio è rappresentata da una dichiarazione di Owen Jones nel corso della campagna elettorale di Corbyn:  “Non possiamo lasciare soli quelli che hanno votato Ukip”.

Naturalmente non si tratta di prospettare alleanze di natura spuria ma, piuttosto, di recuperare ad una causa di emancipazione classi sociali che sono state completamente abbandonate a sé stesse dal percorso delle sinistre social-liberiste ed europeiste, non avendo pregiudiziali nel dialogo anche nei confronti di pulsioni ed istanze che nel corso di questi anni sono state cavalcate da destra per cercare di convogliarle verso un progetto di cambiamento della società solidaristico e non dettato dalla paura e dall’odio come invece immancabilmente fanno le destre scioviniste e xenofobe (es: la paura di rimanere senza lavoro che richiede controllo e regolamentazione dell’immigrazione, che non raccolta da sinistra è stata lasciata derivare alla forma di xenofobia quando non peggio. Storicamente si tratta dello stesso problema che si pose anche Radek a proposito dei “viandanti del nulla”).

Secondo l’analisi che trovo molto avanzata di Owen Jones, le linee della lotta di classe negli anni della “meritocrazia” come narrazione dominante, che tratteggia un’idea di società che non sia per tutti ma solo per chi per meriti particolari vi si sia ritagliato uno spazio e quindi idea elitaria ed antisociale avallata dalla stessa sinistra che ha perso la bussola del socialismo, si sono orientate nella direzione dell’odio nei confronti della classe lavoratrice. Volendo adottare una definizione più ampia ed adatta alla ricomposizione di classe di questi tempi potremmo genericamente parlare di quelli che campano con fatica per sbarcare il lunario, e che sono rimasti ai margini dell’ideale del “successo”. I “Chavs” appunto, traducibili come “coatti”. La realtà è che semplicemente si tratta di poveri. Che senso ha una sinistra che non parla ai poveri? All’interno della cornice più ampia del cosiddetto crollo delle ideologie, che andrebbe definito più propriamente come crollo della contrapposizione tra ideologie, movimenti mimetici ed interclassisti si sono spesso impossessati dell’argomento dell’auroscetticismo declinandolo in una chiave poujadista. Una chiave di lettura priva di analisi di classe, gonfia di una retorica fondata sull’idea dell’onestà, della competenza tecnica, di una pulsione non popolare ma qualunquista che elude completamente il dovere di elaborare un qualsiasi progetto su un altro modello sociale e che quindi parli della redistribuzione della ricchezza,  della contrapposizione di interessi che non può non innervare qualsiasi progetto di questo tipo. Come riqualificare questa necessità di parlare con semplicità ad un popolo deidelogizzato in termini semplici e facilmente comprensibili; un’idea appunto “populista” la cui immediatezza possa essere comunicabile a chiunque?

La proposta che avanzo consiste nel cercare di far leva sugli elementi di identità ancora esistenti nel popolo cercando di utilizzarli come veicolo per alimentare il senso di una contrapposizione politica che non si orienti verso falsi obiettivi. Da questo punto di vista il richiamo culturale al quale potremmo fare riferimento ha radici lontane nel populismo del giacobinismo francese, nel quale concretamente non dimentichiamoci che Marat non scriveva un appello alla classe proletaria ma alla patria ed al popolo francese. (1)

La contrapposizione in quel caso esisteva tra un popolo sfruttato, composto per il 99% da poveri che costituivano “la Patria” cui Marat faceva appello, contrapposta ad un primo stato ed un secondo stato che erano classi cosmopolite. La chiesa universalista, la nobiltà che mandava i contadini a combattere non tanto nel nome della nazione ma in nome degli interessi della corona e della dinastia regnante, argomento rispetto al quale bisogna ricordare come le famiglie reali fossero tutte imparentate tra loro e poliglotte pur non essendo – spesso – colte.

Nella contrapposizione tra cosmopoliti sfruttatori e popolo di poveri sfruttati legati ad una dimensione culturale e territoriale precisa, Marat trovava il concetto di nazione non come entità fissa nel tempo ma come corpo sociale in evoluzione, innervato al suo interno anche di conflitti e contrapposizione mutevoli nel tempo. Oggi il livello di integrazione internazionale dei mercati ci ripropone il senso di una contrapposizione molto simile nella cui immagine l’idea della nazione, per lo più composta da persone e soggetti sfruttati dal capitale o con alto livello di dipendenza dal credito, dovrebbe da un lato conciliare il senso di una comunità di cui non sono parte gli attori del grande capitalismo, cosmopoliti come i nobili di un tempo, con dall’altro lato l’aspirazione ad ideali universalistici come già vennero espressi dalla Rivoluzione Francese, nata dai giacobini, nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

In generale la necessità di recuperare i sentimenti comuni che ancora possano essere visti come elementi leganti della società, e di identità del popolo, una sinistra che declini il proprio internazionalismo in una chiave culturale “antinazionale” risulta essere totalmente inadeguata ai tempi; non solo inutile ma addirittura dannosa. Per compiere questa operazione culturale e comunicativa populista possono venirci in aiuto i concetti tanto di cultura nazional-popolare quanto quello di intelligenza collettiva che ereditiamo da Gramsci. Il problema col quale dobbiamo fare i conti è che il populismo fino a oggi non è solo stato degradato ma è stato proprio denigrato e condannato moralmente. Questo ha significato in sostanza screditare le masse, considerando patologica in sé o almeno deviante la psicologia della folla: irrazionale, antisociale, malata.

L’intelligenza del singolo nella massa sparisce, se già i romani affermavano: “I senatori sono uomini perbene, ma il senato è una cattiva bestia”. La domanda da porsi è quindi come sia possibile creare un’intelligenza del popolo? E se sia possibile costruire un “popolo” che non annichilisca le domande individuali ma le trasfiguri in rivendicazione di senso più ampio senza annullare ed  opprimere l’individuo? Come avviene questo processo? Per meglio comprendere il senso di queste domande e trovare risposte non dobbiamo perdere di vista che il concetto tanto denigrato di populismo è in realtà centrale nel nostro agone politico.

Renzi, Grillo, Salvini: tutti e tre populisti, ma in quale senso? Renzi è il populismo rappresentante della società per bene e ripulita pur essendo un rozzo ignorante, un guitto che però riesce a far appello ad una medio alta borghesia che prova, come descritto da Owens, un sommo disprezzo per la popolana rozzezza dei “Chavs” cioè del comune lavoratore o lavoratrice, di chi non cita Marcuse, di chi deve faticare per sbarcare il lunario e spesso oggi è disoccupato, di chi in generale non ha avuto quel successo il cui stereotipo rampantista come paradigma esistenziale si è traslato in blocco dal craxismo prima, al berlusconismo poi ed al renzismo oggi.

Grillo: un populismo “gentista” essenzialmente ancora senza un vero scopo, arenato nella palude della rivendicazione di onestà e competenza che però non è uno sbocco politico in un progetto di reinclusione sociale dei soggetti oggi esclusi.

Salvini: una falsa soluzione con nulla di nuovo nella storia, la cui retorica si risolve tutta nella ricerca di un qualche elemento spurio esterno alla comunità da colpevolizzare che avrebbe determinato un peggioramento della condizioni di vita del popolo; vuoi una moneta straniera senza seriamente indagarne i meccanismi di funzionamento, vuoi gli immigrati indicati direttamente come nemici e non come vittime strumentalizzate dagli interessi del nemico.

Gli elementi che accomunano questi 3 populismi sono la centralità del leader ed il rapporto diretto leader-massa, tanto nel Grillo che si sa fare unico interprete della volontà del popolo, quanto nel Salvini che gira tutta l’Italia per dare un capro espiatorio in pasto a chi avendo paura del futuro per ragionevoli motivi è spinto dal desiderio di cercare un capro espiatorio  cui poter dare la colpa, ed infine il Renzi che, come ai tempi del ventennio, cerca di farsi attraverso i media rappresentante e tribuno del popolo attraverso la rappresentazione della sua “ira” (per ogni disservizio immediatamente titoli giornalistici su Renzi “irato”, nonostante spesso i disservizi dipendano dallo stesso tipo di politiche che lui promuove. Ricorda molto il refrain de “il duce sarà informato di questo” quando qualcosa non andava bene sotto il fascismo; logica che permetteva di scaricare la colpa di ogni male sociale su qualche non solerte funzionario rispetto ad un fascismo fondamentalmente giusto, il cui capo integerrimo avrebbe riaggiustato tutto, una volta informato el problema e punito individualmente il colpevole).

Per questi motivi dobbiamo saper conciliare la necessità di coltivare una estrema facilità di linguaggio, il ripudio del gergalismo tradizionale della sinistra, per veicolare invece un ripristino dei suoi concetti di fondo, anche i più radicali, solo espressi in una forma all’altezza dei tempi e che non faccia scappare la gente ricordando per similitudine tanto i D’Alema quanto i Vendola. Questa operazione però deve rifuggire da quegli elementi del populismo – cioè la personalizzazione della politica e la palingenesi attraverso il rapporto diretto e plebiscitario col capo – tanto ipocritamente demonizzati quanto diffusi nella nostra politica, che hanno in realtà soltanto prodotto la deriva dal populismo alla demagogia.

Essere “popolari”, cioè essere sinistra senza doversi dire sinistra, e cercare di costruire una narrazione di popolo nella quale i sogni collettivi, le aspirazioni al futuro, al benessere, a non essere vittime di una società fondata su una competizione crudele, siano elemento trainante e non una singola persona portatrice di virtù salvifiche e taumaturgiche. Il progetto politico fondato sullo strumento del populismo come strumento comunicativo e contenuto è caratterizzato da una capacità semplificativa nel creare la dimensione comunicativa del “noi” e “dell’altro da noi”. Ciascuno degli attori in campo compie questa operazione, così come storicamente l’idea del populismo giacobino poneva la separazione tra un “noi il popolo, noi la patria, noi il terzo stato” e gli altri, re nobili ed ecclesiastici.

Per la Lega c’è il noi e gli invasori. Per Grillo c’è il noi e la casta dei burocrati, dei politicanti corrotti e incompetenti. Per Renzi c’è il noi e gli “antimoderni”, contestatori tanto di destra quanto di sinistra legati ad un modello passatista ed antimoderno (riqualificheremo in altra sede quanto in realtà antimoderno sia proprio Renzi). Il noi ed il loro che dovremmo invece qualificare noi? Da una parte ci sono i precari, il ceto medio impoverito, le persone che chiedono diritti ed immerse nello shock da globalizzazione invocano aiuto da parte dello Stato, i cittadini di un meridione socialmente depresso e di un settentrione che da trainante è divenuto stagnante, gli  studenti che non vogliono essere costretti a divenire parte di  un’emigrazione che non è più fuga solo di cervelli ma di manodopera a basso costo, giovani  che non possono e non potranno accedere a un mutuo, l’artigiano ed il piccolo imprenditore che devono chiudere l’attività perché non riescono ad accedere al credito necessario, i neet (giovani che non studiano e non lavorano), gli arresi che determinano la diminuzione del tasso di disoccupazione che il governo sbandiera come successo ma che in realtà sono usciti dalle statistiche perché hanno rinunciato a cercare un lavoro, gli evasori fiscali per necessità. Parliamo di una massa diffusa  di persone che potremmo definire come neopoveri, o di quasi poveri, che provengono da contesti sociali e familiari e persino nazionali differenti, ma che reclamano necessità comuni:  reddito e accesso alle risorse di un welfare degno di questo nome.

Gli “altri da noi”  sono quelli che non vogliono condividere risorse, che dispongono di un welfare privato e ristretto, che cercano di garantirsi una condizione sociale di privilegio  legata anche al “capitale di relazione”. Impoveriti contro arricchiti. Chavs contro posh. Poveri che faticano per campare contro fighetti, in estrema sintesi.

Questo populismo fondamentalmente classista ancora da costruire ci dice che non stiamo tutti sulla stessa barca e che è ora di riprendersi il maltolto. Questo populismo ci può permettere di motivare e coinvolgere ampi strati sociali che non militano più oppure non votano, e spingerli a ritrovare finalmente il senso di una comunità politica e sociale nella quale riconoscersi, la cui differenza rispetto agli altri modelli sulla piazza siano la solidarietà e l’aspirazione all’eguaglianza di opportunità.

(1): Il giornale che fondò, chiamato l’Ami du People, il discorso pronunciato contro le catene della schiavitù, ed infine l’opera Offrande à la patrie, ou Discours au Tiers-État de France testimoniano dell’approccio di Marat certamente di classe, in senso popolare, alla definizione della questione nazionale; questione che ad ogni modo veniva esposta nella chiave del patriottismo.

* Enea Boria è membro del Consiglio Nazionale di ORA-costituente