Banche: perché non finirà a tarallucci e vino

C’è o non c’è un attacco tedesco all’Italia? Certo non ci sono i carri armati al Brennero, ma c’è o non c’è una guerra economica neppure tanto nascosta? Chi rispondesse con sicumera di no avrebbe di diritto l’iscrizione garantita al concorso a premi per l’ipocrita dell’anno. La cosa è così palese che persino i grandi imbonitori del politically correct (uno per tutti: Paolo Mieli) preferiscono assumere una diversa postura: non negano l’attacco, ma pensano che all’Italia convenga far finta di non vederlo.

Che nella classe dirigente non manchino i vigliacchi è cosa nota. Costoro non fanno mai seri bilanci storici. La loro narrazione del «sogno europeo» sta andando a pezzi? Non importa, conta solo continuare ad esser servi, a dire signorsì ai padroni di turno che gli staccano l’assegno mentre loro scrivono articoli sempre più timorati del Dio Euro(pa).

Ci sono poi i quadratori del cerchio. Costoro vedono già meglio il problema, ma pensano di poterlo risolvere con qualche brillante trovata lessicale. E’ il caso del think tank della Luiss sceso in campo in questi giorni (leggi qui) per dirci che: a) sì, è vero, la politica tedesca è un bel problema per il nostro paese, ma… b) l’Italia deve ricominciare ad occuparsi del debito pubblico perché… c) a quel punto l’UE (leggasi Germania) potrebbe accettare di tornare a forme di «coordinamento accentrato» tali da determinare un qualche tipo di solidarietà europea.

Ora, a parte che non si vede proprio come un nuovo impulso alla politica dei sacrifici possa mettere l’Italia in condizioni migliori delle attuali, quando mai in passato l’euro-Germania ha accettato politiche davvero solidali? Il no alla mutualizzazione del debito pubblico non è mai venuto meno, alla faccia di chi predicava gli eurobond, mentre il no alla condivisione del rischio bancario è cosa di questi giorni, ripetuta a caratteri cubitali, e visibile in chiaro anche da Marte.

La novità semmai è un’altra. Ed è che il rifiuto teutonico di ogni forma di solidarietà sul fronte bancario è motivata proprio dalla messa in evidenza dei rischi del debito sovrano. Detto in maniera semplice: noi tedeschi non possiamo  prenderci rischi per le vostre banche, anche perché sono piene di titoli del debito pubblico, contenenti un rischio default (che va dunque prezzato) e soggetti (questo lo aggiungo io) ad una tendenziale svalutazione non appena la Bce porrà fine al quantitative easing.

Queste cose la Germania le ha messe in chiaro. Ma prima di vederlo più da vicino c’è da affrontare quella che vorrebbe essere un’altra obiezione. Quella secondo cui «i tedeschi hanno le loro buone ragioni». Obiezione che accogliamo da subito, purché se ne traggano le dovute conseguenze. Le loro buone ragioni si chiamano più esattamente interessi. Ma se la difesa degli interessi nazionali della Germania è considerata legittima, perché non dovrebbe essere egualmente legittima la difesa degli interessi italiani?

Si dirà che così l’Unione Europea è pronta a passare a miglior vita. Vero, è così e non ci dispiace affatto. Ma non perché ci piacciono i più triviali istinti nazionalistici, ma perché – mentre siamo convinti che possa esistere un nazionalismo democratico – c’è qualcosa di assai peggiore della rinascita dei nazionalismi, ed è il dominio di un nazionalismo (quello tedesco) sulle altre nazioni, sugli altri popoli. Questa è l’Europa reale di oggi, questo è il problema col quale misurarsi.

Le tavole della legge della Bundesbank

A fine anno ci siamo già occupati dell’arroganza chimicamente pura del sig. Lars Feld, che non è esattamente un signor nessuno, bensì il più importante consigliere economico della signora Merkel. Così sghignazzava costui dalle colonne del solito Corriere della Sera il 19 dicembre scorso:
«Prevedo un pieno bail-in. I tagli alle obbligazioni e ai conti correnti sopra i 100 mila euro dovranno aiutare a ristrutturare le banche, perché la Commissione Ue impedirà salvataggi delle banche da parte del governo o sussidi nascosti agli istituti. Non saranno permessi».

Un bel siluro non solo alle banche, ma all’intera economia italiana. Bella la solidarietà in salsa tedesca! Ovviamente il prepotente Lars non parlava solo per se stesso. Dietro di lui il governo di Berlino, la Bundesbank, la maggioranza parlamentare CDU-CSU/SPD, i media del paese.

Ora, tutto si può dire, ma non che i tedeschi non lavorino con metodo. Così, giusto per togliere ogni incertezza, per diradare ogni italica illusione, è arrivato un banchiere dal nome ignoto al grande pubblico, ma che di mestiere fa il vice a Draghi alla Bce in quota Bundesbank.

Il suo nome è Andreas Dombret, il suo messaggio è chiaro: le banche, va da se quelle italiane in primo luogo, dovranno alleggerire il proprio «rischio sovrano». Dovranno cioè detenere un quantitativo limitato di titoli del debito pubblico di ogni singolo stato, e dovranno prezzare il rischio default sui titoli che gli resteranno in portafoglio.

Insomma, la solidale Germania continua a temere di doversi fare carico, anche in piccola parte, dei debiti altrui. Dunque, siccome per alcuni stati (Italia in primis) il rischio default è reale (prego prendere nota), i titoli del debito di questi stati vanno opportunamente svalutati nei bilanci delle banche che li detengono. Per capirci, se una qualsiasi banca detiene titoli per un miliardo di Bund tedeschi ed un altro miliardo di Btp italiani, ai primi andrà dato un valore di 1 miliardo (100%), mentre i secondi potrebbero valere magari 950 milioni, forse 900 (90%) e giù a scendere a seconda delle situazioni.

Non so se a tutti sono chiare le catastrofiche conseguenze per un paese come l’Italia, ma anche per gli altri stati della periferia sud dell’eurozona, del meccanismo proposto (ormai è ufficiale) dalla Bundesbank e dal governo di Berlino. In ogni caso non sarà male elencarle.

In primo luogo, le banche italiane si troverebbero costrette a vendere grosse quantità di titoli, mettendosi nelle mani del «mercato», cioè della speculazione, per stabilire il prezzo della (s)vendita.

In secondo luogo, i tassi di interesse del debito italiano
– che stanno in relazione inversa con il prezzo – crescerebbero in misura consistente, cancellando di brutto gli stessi vantaggi del quantitative easing.

In terzo luogo, i bilanci delle banche nazionali,
che detengono più o meno tutte grosse quantità di Btp, subirebbero perdite enormi, da compensare o con pesanti ricapitalizzazioni o più probabilmente ricorrendo al simpatico bail in che tanto piace a Berlino. A pagare sarebbe ciò la gran massa dei risparmiatori.

In quarto luogo, il peggioramento dei conti pubblici
che ne deriverebbe, spingerebbe a nuove misure di austerità, dunque ad una nuova recessione, quindi ad un ulteriore aumento delle sofferenze bancarie.

E meno male che tutto è stato concepito – parole dell’ineffabile sig. Dombret – dalla necessità di «spezzare il circolo vizioso tra Stati e banche». In realtà, qualora la pazzesca proposta della Germania dovesse passare, assisteremmo esattamente ad un fenomeno diametralmente opposto di quello enunciato da Dombret. Altro che rottura del circolo vizioso tra rischio bancario e rischio sovrano! Avremmo, al contrario, un cortocircuito tra questi due poli in cui si condensa il lascito finanziario della crisi economica degli ultimi 8 anni. Con conseguenze devastanti.

Ora, siccome capire queste cose dovrebbe essere più o meno alla portata di tutti, come si fa a sostenere che quella scatenata dalla Germania non è – in senso economico – una guerra contro i paesi più deboli dell’eurozona, e contro l’Italia in primo luogo?

Ma, diranno gli increduli, cosa avrà mai da guadagnarci, la Germania, da una simile guerra? Tralasciando qui gli aspetti politici e quelli riguardanti la questione dei flussi migratori, che nel nord Europa pensano sempre più di scaricare sui paesi del sud (essenzialmente Grecia ed Italia), ci sono almeno quattro ragioni che spingono Berlino a mettere in ginocchio il nostro paese: 1) se i Btp si svalutano, i Bund si rivalutano: in questo modo (grazie alla moneta unica) sarà l’Italia a pagare il debito pubblico tedesco, 2) se le banche italiane continuano ad indebolirsi è inevitabile che finiscano in pasto ad istituti bancari di paesi più forti, ovviamente a prezzo stracciato, 3) banche messe così sotto pressione faranno sempre meno credito, con immaginabili ripercussioni sugli investimenti nel settore manifatturiero, il che alla Germania non potrà certo dispiacere.


Il governo italiano in un vicolo cieco

Se questa è la situazione, appare evidente il vicolo cieco in cui si è irresponsabilmente cacciato il governo Renzi. Sia chiaro, le colpe dei nostrani euristi vengono da lontano – come dimenticare, ad esempio, l’entusiastica adesione della maggioranza che sosteneva il governo Monti al fiscal compact ed alla follia del pareggio di bilancio in Costituzione? – e tuttavia l’aver accettato il meccanismo del bail in non è certo una responsabilità minore.

Fin qui Renzi ha risposto in maniera minimalista, aprendo diversi fronti polemici (banche, gasdotti con la Russia, migranti, flessibilità di bilancio), ma senza una chiara strategia. E pensare che, in materia di banche, il no tedesco al fondo di garanzia sarebbe stata l’occasione da cogliere per rimettere in discussione l’intera Unione bancaria a partire dal bail in.

Ma così non è stato perché manca il coraggio di andare alla radice del problema. E l’attuale governo si regge su un blocco sociale assai eterogeneo, la cui direzione è comunque tracciata da alcuni centri di potere che non potranno andare allo scontro con l’UE senza prima frantumarsi al loro interno.

Renzi ha certamente capito che la questione bancaria non finirà a tarallucci e vino. E sa che su di essa si giocherà buona parte del suo consenso. Tutto ciò rende sostanzialmente inevitabile lo scontro con l’euro-Germania, ma come vorrà condurlo? E con quali forze?

La politichetta del «battere i pugni» per qualche decimale di flessibilità ormai non ha più senso. Non solo non funziona per far partire una vera crescita, ma la Commissione europea sembra comunque decisa a chiudere il rubinetto degli zerovirgola.

Renzi dovrà dunque scegliere: o prova ad ingaggiare una battaglia politica vera, mettendo nel conto la possibilità di una rottura dell’eurozona, oppure dovrà acconciarsi al ruolo del solito politicante che sbraita a fini elettorali interni, ma senza la capacità di uscire davvero dalla gabbia in cui lui, i suoi predecessori, il suo partito insieme a buona parte dell’intero sistema politico, hanno condotto il paese.

Ovvio che questa seconda ipotesi equivarrebbe alla fine politica del fiorentino. Fine che diversi commentatori, ma non il sottoscritto, danno ormai per certa. Ma su questo converrà tornare con un altro articolo.


Andare alla radice del problema

Abbiamo detto che la classe dirigente nazionale non ha il coraggio di andare alla radice del problema. Cosa significa in concreto? Significa che – come ho cercato di mostrare – ogni problema affrontato nell’ambito della gabbia dell’euro diventa irrisolvibile. Significa che ogni questione viene piegata a vantaggio di chi quella gabbia controlla. Significa che i paesi resi più deboli dalla moneta unica devono sempre pagare il conto. E non solo in materia economica, ma anche sulla gestione dei flussi migratori e sulle scelte energetiche.

Andare alla radice significa dunque mettere in discussione l’euro, preparandosi al ritorno alla sovranità monetaria.

Volete un esempio? Abbiamo visto come – rimanendo nella moneta unica – la crisi bancaria sia irrisolvibile, idem l’intreccio tra di essa e la questione del debito pubblico. Entrambi i problemi sarebbero invece affrontabili con una moneta nazionale. Solo grazie ad essa lo Stato potrebbe ricapitalizzare, nazionalizzandole, le banche. Solo così potrebbe ripartire il credito. Solo così si aprirebbe la strada per affrontare il dramma della disoccupazione, della precarietà e dei salari da fame.

E sul debito pubblico, perché non rispondere alla minaccia di usare i «mercati» per far ripartire il solito spread, con l’ipotesi di un bel default selettivo nei confronti dei titoli detenuti dalle banche estere qualora queste cominciassero a giocare al ribasso? Minaccia per minaccia, ho la vaga impressione che funzionerebbe.

Ovviamente, il governo che potrebbe davvero ingaggiare una simile lotta è di là da venire. Ma i tempi stringono e potremmo essere alle porte di cambiamenti epocali.

PS – Ciliegina sulla torta: ieri la Commissione Europea ha presentato un rapporto in cui il debito pubblico italiano viene considerato ad «alto rischio» nel medio periodo, esattamente dal 2017. Una tempistica niente male, dato che per la presentazione di uno studio triennale si è scelta proprio la vigilia dell’odierno incontro tra Padoan e la commissaria Vestager sull’ipotesi di bad bank. Ma non pensate male, non c’è nessuna guerra in corso, a Bruxelles e Berlino sono buoni. E se mostrano sempre più spesso i denti lo fanno solo per il nostro bene…