A proposito della “costituente comunista”

Pubblichiamo la lettera di dimissioni inviata da Vladimiro Giacchè a Manuela Palermi, presidente del Comitato centrale del Partito Comunista d’Italia (ex Pdci)

Cara Manuela,
ti scrivo per comunicarti la mia decisione di rassegnare le dimissioni, irrevocabili e con effetto immediato, da tutte le cariche ricoperte nel Partito, nonché quella di lasciare il Partito.

Si tratta di una decisione sofferta, che ritengo però necessaria per diverse ragioni.

Le due principali le conosci già, l’una perché ha a che fare con i contenuti del mio intervento alla penultima riunione del coordinamento, l’altra perché ne abbiamo parlato per telefono qualche giorno fa. Ma desidero ciò nonostante chiarirle, a beneficio anche dei compagni della Segreteria ai quali ti prego di far pervenire questa mia.

Cominciamo dalla seconda. La “componente PCdI” del coordinamento ha deciso, sulla base di determinazioni della segreteria, che in rappresentanza del PCdI i compagni della commissione ristretta incaricata di redigere le tesi sarebbero stati i compagni Alboresi, De Angelis e Giannini. Tra loro non vi è Fausto Sorini, il compagno che tra noi più di chiunque altro e sin dall’inizio si è speso per avviare il processo della costituente comunista (anche quando una parte del Partito era a dir poco scettica sull’argomento). Ma soprattutto un compagno le cui capacità personali e le cui responsabilità nel dipartimento esteri del Partito (unico ambito in cui il Partito sia riuscito a conquistarsi una buona visibilità in Italia, e un meritato rispetto all’estero) sono tali da rendere insostituibile il suo contributo alle tesi. Siccome quest’ultimo aspetto è chiaro a tutti, si tratta, in tutta evidenza, di un’esclusione politicamente motivata, sulla quale peraltro nessuno ha ritenuto necessario fornire spiegazioni ai compagni del coordinamento. In ogni caso, si tratta esattamente di quanto giorni fa, dicendoti che noi dovevamo portare tutto il Partito a questo appuntamento. E aggiungendo che, se non si riteneva che di questo processo Sorini dovesse essere parte a pieno titolo e con il ruolo che gli spettava, non ci sarei stato neppure io. Non credo di dover aggiungere altro sul punto.

Vengo quindi alla prima ragione, che richiederà qualche parola di più. Come ricorderai, nel mio intervento alla riunione del coordinamento che abbiamo tenuto a dicembre (all’ultima come sai non ho potuto partecipare per motivi personali), ho affermato che, se era irrealistico pensare che il processo che avviavamo decretasse d’incanto la fine della diaspora comunista, per il successo in termini strategici dell’operazione era essenziale guardarsi da due opposti errori: da una parte quello di operare una pura e semplice liquidazione di ciò che oggi esiste (ossia delle strutture organizzate esistenti), dall’altra quello di dar vita a qualcosa che fosse “un partito” (il nostro) “più qualche altro pezzo”. Dovevamo aver invece l’ambizione di dar vita a una cosa nuova e più grande, capace di ricollegarsi al meglio della tradizione comunista italiana e internazionale. E a questo fine dicevo che avremmo dovuto tra l’altro essere capaci della massima apertura, e quindi avremmo dovuto lavorare a un tesseramento individuale per l’associazione e su questa base andare all’assemblea costituente. Per non lasciare spazio a equivoci sul punto, avevo aggiunto che ero contrario a qualsiasi sistema di “quote su qualunque base” per gli organismi che sarebbero usciti dal congresso, e che l’unica base avrebbe dovuto essere il tesseramento.

Mi è parso allora che queste argomentazioni riscuotessero un consenso diffuso da parte dei compagni presenti. In ogni caso, nessuno dei compagni intervenuti successivamente le ha contestate.

Nei giorni scorsi ho invece appreso che la proposta con la quale il PCdI si confronta con gli altri compagni coinvolti nel processo della costituente comunista è un sistema di quote, per di più così articolato: 75% ex PCdI, 20% ex PRC, 5% aderenti senza partito. Per parte mia sono contrario – come detto – al sistema delle quote in sé. Ma trovo in particolare inaccettabile il criterio di attribuire una maggioranza schiacciante ai compagni facenti parte di realtà organizzate, riservando appena un 5% ai compagni che aderiscono alla realtà che si vuole costruire senza provenire da alcun partito.

Questo modo di procedere è inconseguente rispetto al punto di partenza del processo costituente (che a dire il vero era anche un assunto chiave degli nostri ultimi 2 congressi), e cioè l’insufficienza di ciascuna delle realtà organizzate che oggi pretendono di rappresentare i comunisti. Esso è inoltre in plateale contraddizione con l’obiettivo che ci eravamo posti aderendo all’associazione, e cioè quello di costruire una casa in cui potessero finalmente ritrovarsi le decine di migliaia di compagni che oggi non riescono a riconoscersi in alcuna delle realtà organizzate esistenti. Con il sistema di quote così configurato non soltanto tutto questo viene meno, ma questo modo di procedere priva in ultima analisi di ogni significato lo stesso tesseramento all’associazione, creando tesserati di prima, seconda e terza categoria.

Ritengo che in questo modo si sciupi colpevolmente l’ultima possibilità per dare un futuro a un’organizzazione da tempo non soltanto “insufficiente”, ma in grave difficoltà come il PCdI, e soprattutto la possibilità di restituire una speranza a tanti comunisti oggi privi di un punto di riferimento politico.

Non posso far nulla per impedire che si dia corso a queste scelte che ritengo profondamente sbagliate, e del resto non pretendo che il mio punto di vista sia condiviso da chi ha deciso in questo modo. Sono però libero di giudicare queste decisioni, e di giudicarle negativamente, come dettate da uno spirito di (auto)conservazione incredibilmente miope, e sbagliate al limite dell’autolesionismo. E soprattutto ho il diritto di non partecipare a un processo la cui impostazione non condivido.

So che questo dispiacerà a diversi compagni che nutrono stima sincera nei miei confronti, e forse – per motivi diversi – a chi ritiene esteticamente appropriata la presenza di “intellettuali” da usare come fiore all’occhiello – salvo guardarsi bene, in una fase cruciale, dal seguire quello che propongono e anche soltanto dall’interloquire con quanto propongono. Mi scuso con i primi e rassicuro i secondi: la mia perdita da questo punto di vista è assolutamente trascurabile. Infatti io non sono un intellettuale né per professione, né per rango. Sono, più semplicemente, un comunista. Che ha una sola faccia e una sola parola, e tiene a entrambe. E che da oggi torna, con dispiacere, a essere quello che è stato per molti anni: un comunista senza partito.

Siccome la speranza è l’ultima a morire, spero che i timori che ho espresso in questa lettera finiscano per rivelarsi infondati e che quindi si possa tornare un domani a lavorare insieme – per contribuire a una ripresa del nostro movimento e non per gestire la sua lenta eutanasia. In ogni caso, ti prego di considerare quanto sopra come critiche politiche e non personali, che non è mio costume fare.

Un abbraccio
Vladimiro Giacchè

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