«C’è oligarchia quando sovrani sono coloro che detengono la ricchezza. Democrazia, al contrario, quando sovrani sono coloro che non possiedono molte ricchezze ma sono gente di modeste condizioni».
Aristotele, la Politica

Numerose sono state, con l’avvento dell’ultima fase del capitalismo — quella che va sotto il nome di “globalizzazione neoliberista” — le trasformazioni sistemiche in seno alle società occidentali, quella italiana inclusa.

Dei cambiamenti relativi alla sfera economica (in particolare il processo di iper-finanziarizzazione o capitalismo-casinò), come pure di quella sociale (nuova configurazione delle classi sociali), ci siamo occupati in più occasioni.

Viene subito una prima domanda:
aveva ragione Marx nel sostenere che a mutamenti profondi della struttura economica e sociale corrispondono necessariamente modificazioni nella sovrastruttura politica e istituzionale, quindi dei sistemi politici?    
Sì, indubbiamente aveva ragione.

Se è così sorge una seconda domanda: che tipo di metamorfosi hanno subito i sistemi politici occidentali?

Risposta: alla smisurata concentrazione di ricchezza nelle mani di una ristretta minoranza neo-capitalista (quella che abbiamo chiamato “nuova aristocrazia finanziaria”) ha corrisposto una altrettanto radicale verticalizzazione della sfera politica, l’occupazione dei luoghi politici di comando da parte di ristrettissime élite politiche vassalle dell’aristocrazia di cui sopra — il neologismo inglese governance sta per questa modalità per cui i luoghi di decisione politica non sono più le assemblee elettive bensì cenacoli composti da clientes tenuti ad un patto di sudditanza rispetto ai loro patroni. Un processo, quest’ultimo, reso possibile dall’occupazione dispiegata da parte dei grandi paperoni di tutti i grandi mezzi di comunicazione di massa.

Anche in Europa ha finito per prevalere, in parallelo al consolidamento dell’Unione europea, il modello politico nord-americano. Da sistemi democratici, per quanto capitalistici, siamo piombati, vista la concentrazione a livello continentale dei poteri esecutivi, in regimi oligarchici, anzi, ultra-oligarchici.

Vogliamo essere più precisi: siccome il processo unionista è venuto imponendosi seguendo la falsariga del paradigma ordoliberista, e con la moneta unica come chiave di volta, esso ha addirittura radicalizzato l’oligarchismo d’oltre oceano, e questo sotto due aspetti.

Il primo è consistito nel trasferimento di sostanziali poteri esecutivi propri degli Stati-nazione ad organismi tecnici sovranazionali che operano senza legittimità democratica e ubbidiscono in prima istanza agli interessi della aristocrazia finanziaria continentale e globale.

Il secondo: a questa perdita di sovranità degli Stati-nazione (nel caso greco possiamo parlare di vero e proprio protettorato coloniale), ha corrisposto la trasformazione delle élite politiche nazionali in appendici e protesi degli organismi burocratici. Il regime politico in cui siamo intrappolati non è quindi solo oligarchico, è anche tecnocratico.

Non si è trattato soltanto di una “alterazione” dei sistemi di democrazia costituzionale, ovvero di modificazioni solo formali, ma di una vera e propria metamorfosi contro-democratica — quindi non meramente post-democratica.
[In Italia questa degenerazione oligarchica è venuta consolidandosi col passaggio dalla “prima” alla “seconda” Repubblica — di cui le “riforme” renziane sono il momentaneo punto di approdo].

E’ quindi cambiato profondamente il campo da gioco
dove si svolge la lotta politica, e con esso sono mutate modalità e regole stesse di questa lotta. Per sommi capi:

(1) il crollo del “socialismo reale” non ha portato soltanto un colpo letale al movimento comunista e operaio, non solo all’idea stessa della rivoluzione, ma pure alla politica fondata su visioni del mondo. Col “pensiero unico” si è affermata l’idea della politica come tecnicità, come amministrazione ottimale dell’esistente.

(2) E’ giunta a consunzione la tendenza storica che ha caratterizzato la storia recente: quella alla partecipazione diretta e di massa alla battaglia politica. Non più i luoghi di lavoro, di studio e di vita sono i teatri della battaglia politica. Tv prima e (anti)social network dopo sono diventati i soli luoghi in cui le masse fanno esperienza politica — de facto luoghi di disattivizzazione.

(3) Alla polverizzazione sociale (“società liquida”) ha corrisposto una verticalizzazione della sfera politica, segnata dal distacco tra rappresentati e rappresentanti, dallo scollamento senza precedenti tra elettori ed eletti, tra base e vertici dei partiti. Se prima, al netto dei processi di burocratizzazione, i partiti si legittimavano per dare forma a spinte sociali che provenivano dal basso, dai copri sociali, oggi la dialettica è capovolta: è dall’alto verso il basso che scende la politica.

(4) Venuta meno, nella sfera politica, la dimensione ideale, simbolica e filosofica, con la vittoria del “pensiero unico”, ha finito per diventare senso comune che non esistano più né destra né sinistra. Ciò che è una delle varienti della sindrome T.I.N.A. (There Is Not Alternative)

Del “populismo”

Il nuovo campo da gioco e le sue nuove regole non potevano non avere decisive ripercussioni sulle dinamiche che sottostanno alla costruzione del consenso e della rappresentanza politica. Gli stessi nuovi partiti/movimenti sorti negli ultimi vent’anni, per poter entrare nel campo da gioco, per ottenere consenso di massa, hanno dovuto adattarsi all’ambiente, mimetizzarsi, imitare le modalità élitarie.

I partiti politici non sorgono mai come astratto riflesso di dati interessi materiali, in diretta corrispondenza a questa o quella classe. Non solo la visione del mondo di chi li fonda ha la sua decisiva importanza. Essi sono anche il risultato dei condizionamenti dell’habitat in cui sorgono, del campo da gioco in cui si calano, e quindi delle regole del gioco stesso.

Tuttavia questi nuovi partiti/movimenti, proprio per strappare consensi ed imporsi come protagonisti del campo da gioco, non potevano che nascere in opposizione all’ordinamento oligarchico.

Le forme di resistenze alla deriva oligarchica e tecnocratica
hanno assunto forme peculiari a seconda dei differenti contesti nazionali e sociali. Una divaricazione salta agli occhi: mentre nell’Europa centrale vanno assumendo i panni di un sovranismo reazionario, in quelli meridionali (dalla Grecia al Portogallo, passando per Italia e Spagna), questo sovranismo, per quanto spurio e inconseguente, ha connotati democratici, erede di almeno tre tradizioni ideologiche: quella liberale, quella socialista e quella della nuova sinistra sorta col ’68.

La reazione della setta tecno-oligarchica e ordoliberista contro tutte le forze sociali e politiche oppositive è stata ed è dura, frontale. Essa si declina in modi differenti — la sorte toccata a SYRIZA non è la medesima di quella che tocca al governo ungherese di Viktor Orban o a quello polacco di Beata Szydlo (e non è un caso) — ma l’accusa, usata come anatema, è unica: “POPULISMO”.

Populista in Spagna è Podemos, in Portogallo lo sono le sinistre radicali che respingono l’austerità. In Francia il Front National. In Gran Bretagna populisti sono bollati l’UKIP di Farage ed i conservatori anti-Ue. In Germania lo è l’AfD che contesta la moneta unica. Come populisti sono condannati tutti i partiti, dall’Olanda alla Svezia, i cui segni distintivi sono le xenofobia e l’islamofobia. In Italia sono bollati come populisti la Lega Nord di Salvini ed il Movimento 5 Stelle.

Si tratta di una vera e propria crociata contro chiunque, a torto o a ragione, da destra come da sinistra e dal centro, contesti i dogmi ordoliberisti e, soprattutto, l’Europa tecno-oligarchica, la mondializzazione e la confisca delle sovranità nazionali e popolari.

L’uso descrittivo dell’aggettivo “populista” che compie il gregge degli intellettuali, dei giornalisti e dei politologi prezzolati è solo la foglia di fico dell’uso prescrittivo. Chiunque si opponga all’ordine di cose esistente e alla “governance ordoliberale” è sputtanato come “populista”, additato al pubblico ludibrio come un demagogo che fa leva sulla “pancia e gli istinti delle masse”; bollato quindi come avventuriero irrazionale, come nemico della modernità. Demonizzato come il nuovo “male assoluto”, addirittura hitlerizzato, ciò che è funzionale al suo annientamento, oggi con il fuoco di sbarramento della diffamazione, domani con quello ben meno immateriale della forza.

Questa crociata esprime come meglio non si potrebbe non solo il disprezzo delle masse popolari da parte delle élite dominanti. Essa esprime una vera e propria paura delle masse le quali, nei populismi, hanno trovato, date le circostanze, i canali per manifestare indignazione e protesta contro le crescenti diseguaglianze sociali e le oligarchie dominanti, ovvero trovato la via della loro ripoliticizzazione.

In effetti, di contro all’apatia indotta e voluta da chi comanda, i populismi sono stati il veicolo di un generale risveglio, per quanto ancora solo passivo e delegato, dei popoli e, entro essi, anzitutto dei ceti e delle classi sociali che, dopo essere stati colpiti da decenni di globalizzazione, sono stati maciullati dalla grande crisi — proletari a vario titolo, gioventù precarizzata, ceti medi pauperizzati, capitalisti espulsi dal mercato, ecc.

Come ha scritto Carlo Formenti:
«Il populismo non è un fenomeno degenerativo dei sistemi democratici, è la forma politica che la lotta di classe assume nell’era dell’economia finanziarizzata e globalizzata e della conversione liberista di tutte le élite tradizionali».

In conclusione

(1) Le stesse forze genuinamente democratiche e rivoluzionarie, quelle mosse dai più nobili fini etici e che non considerano i cittadini clientes, non hanno scampo, saranno bollate dalle sette neoliberaliste come “populiste”, condannate all’ostracismo.

(2) Ma di necessità esse possono e debbono fare virtù. Il disprezzo delle élite è in verità non solo il prezzo da pagare, esso è di buon auspicio nella prospettiva di una “andata al popolo”.

Queste forze genuinamente democratiche e rivoluzionarie sono costrette ad agire come “populiste”. Non parliamo tanto di questa o quella modalità, ma del fatto stesso che sono obbligate ad agire dall’alto per andare verso il basso. Il primo loro compito è quindi quello, compresa la fase politica e stabilita una strategia, di costruire un centro forte, propulsore, di irradiazione di poche idee forti. Un centro, una direzione politica che stabilito l’orizzonte strategico, non solo educhi i propri militanti, ma sappia costruire, sperimentandole, pratiche e modalità di una nuova attivizzazione delle masse. Con ciò questo centro politico starà fattivamente modellando, a partire dalle sue prime linee, il popolo stesso.

Ciò di cui abbiamo bisogno, oggi, nel nostro Paese, è quello che abbiamo chiamato “bolivarismo all’italiana”, un partito/movimento che riesca a portare a fusione, ad includere nel suo seno, le diverse correnti di pensiero che fanno della giustizia sociale — quindi di un’eguaglianza non solo di quella formale — la loro stella polare, il principio a cui incardinano la loro visione del mondo. Parliamo ad esempio del filone comunista e socialista, di quello del cattolicesimo di base, del liberalismo democratico-repubblicano. Quelle correnti di pensiero le cui idee solo in parte sono confluite nella Costituzione.

Si tratta di correnti che hanno radici storiche profonde, che non sono riusciti a sradicare. Su queste radici si può avviare un nuovo inizio. A condizione, come detto, che venga presto alla luce un gruppo pensante che con coraggio sappia fungere da elemento catalizzatore.

da Programma 101