I russi si ritirano dalla Siria? E’ presto per dirlo. Qualche commentatore si è già spinto a sottolineare il “tempismo” di Putin, ma ancora oggi gli aerei russi partecipano al bombardamento della città di Palmira tuttora in mano all’Isis. Che si sia di fronte ad un uno di quei ritiri annunciati, che in realtà durano anni, come quelli delle truppe americane dall’Iraq e dall’Afghanistan? Lo capiremo meglio nelle prossime settimane. Certo, la contemporaneità dell’annuncio con l’inizio del negoziato di Ginevra, fa pensare ad una mossa concordata tra Mosca e Washington.

Sulla complessa situazione siriana, così come si presenta all’inizio del negoziato, potete leggere di seguito un articolo di Chiara Cruciati.


Comincia Ginevra. Putin: «Via la maggior parte delle truppe»

di Chiara Cruciati

La prima mossa è arrivata da Mosca: il presidente russo Vladimir Putin ha ordinato – da oggi – il ritiro della maggior parte delle forze militari dispiegate in Siria per fornire «un segnale positivo» per tutte le parti coinvolte nel conflitto e per aumentare il livello di fiducia di tutti i partecipanti al processo di pace. Il presidente russo avrebbe inoltre annunciato di aver già parlato con il presidente siriano Bashar al Assad. Il leader russo avrebbe informato Assad circa la decisione, pur confermando l’operatività della base aerea di Hemeimeem, nella provincia di Latakia, e di quella navale nel porto di Tartous.

E dire che il Mig-21 dell’esercito governativo siriano abbattuto sabato nella provincia di Hama dal gruppo salafita Ahrar al-Sham avrebbe potuto far precipitare anche il dialogo. Ma i due missili lanciati dai miliziani del gruppo (legato ad al-Nusra ma considerato legittima opposizione) si sono trasformati nelle parole del governo di Damasco in «difficoltà tecniche». Salvo il pilota, salvo il negoziato.

Ieri a Ginevra l’inviato Onu de Mistura ha annunciato il via ai lavori, aperti da un incontro tra Nazioni Unite e delegazione governativa. Un meeting che il capo negoziatore siriano, l’ambasciatore al Palazzo di Vetro Bashar al-Jaafari, ha definito «positivo e costruttivo»: in quella sede Damasco ha consegnato a de Mistura un piano di transizione politica di cui ancora non si conoscono i dettagli. «Abbiamo presentato idee e opinioni, [un rapporto] intitolato ‘Elementi essenziali per la risoluzione politica’, che arricchiranno gli sforzi diplomatici di de Mistura quando incontrerà le altre delegazioni», ha commentato al-Jaafari sottolineando la buona volontà del governo che ha deciso di non insistere sulla precondizione del precedente round di negoziati, la lista dei nomi dei partecipanti. Il secondo meeting con l’inviato Onu, ha fatto sapere il capo negoziatore, si terrà mercoledì.

Un giorno con il governo, uno con le opposizioni. Per ora si procede a vista, con l’inviato Onu che ricorda a tutti che questo dialogo è stato voluto dalla comunità internazionale, sottintendendo che un suo fallimento sarà imputabile solo alle parti. E, probabilmente fiaccato da rinvii e boicottaggi continui, ha precisato che «l’unico piano B a disposizione è il ritorno alla guerra, una guerra peggiore di quella vista finora».

Come un fantasma nelle stanze svizzere aleggia il destino del presidente Assad. Le opposizioni – a cui de Mistura ha fatto visita, informalmente, domenica sera – lo vogliono fuori dal futuro della Siria; il governo lo considera un argomento di cui nemmeno discutere. A sfavore di entrambi c’è una guerra civile entrata nel suo sesto anno e che ha logorato le forze di tutti. Su questo puntano le due super potenze sponsor del negoziato, Stati Uniti e Russia, che relegano in un angolo la questione Assad sperando di imporre la soluzione ai rispettivi alleati.

Lo spiega Joshua Landis, direttore del centro studi sul Medio Oriente all’Università dell’Oklahoma: «Questa tregua è stata negoziata da Mosca e Washington e non dai vari attori siriani. Il suo successo dimostra quanto le parti siano esauste». Nonostante le violazioni della tregua entrata in vigore il 27 febbraio, compiute sia dal governo che dalle opposizioni, nessuno ha minacciato di non presentarsi a Ginevra. Vero è che il segretario di Stato Usa Kerry nel fine settimana ha accusato il governo siriano di «cercare di interrompere il processo di pace» attraverso prese di posizioni unilaterali sul futuro di Bashar al-Assad. Ma queste restano dichiarazioni di facciata, necessarie a rassicurare le opposizioni e a limitare il potere negoziale del fronte governativo. Nelle stesse ore, infatti, il ministro degli Esteri russo Lavrov si diceva pronto a coordinare le operazioni militari con gli Usa per strappare Palmira e Raqqa allo Stato Islamico.

Casa Bianca e Cremlino sono impegnati da tempo nella definizione della Siria che vorrebbero e numerose sono state le aperture: gli Stati Uniti hanno accettato un ruolo temporaneo per Assad, la Russia ha accolto il suo futuro allontanamento pur di salvare una parte di quell’establishment politico funzionale ai propri interessi regionali. Perché la soluzione finale sulla questione siriana – per la sua potenza e centralità capace di ridefinire buona parte degli equilibri mediorientali – sarà frutto delle ambizioni neocoloniali delle due super potenze e della galassia dei rispettivi alleati. Consapevoli che una guerra civile di tale proporzioni non è più gestibile, devono spostarsi su un secondo piano di intervento, diplomatico e militare in chiave anti-Isis.

Da parte loro governo e opposizioni, ancora distantissimi sul piano politico e ideologico, si piegheranno ai loro finanziatori e sostenitori. Al popolo siriano saranno concesse le elezioni, in un clima non certo favorevole: cinque anni di guerra hanno diviso la popolazione, frammentato la società, l’hanno indebolita tanto da renderla facile preda degli attori esterni.

da Nena news