Alcuni nostri lettori sanno di cosa parliamo. I più non sanno invece cosa sia l’Associazione Riconquistare la Sovranità (ARS).
L’anno che va dall’autunno del 2011 all’autunno 2012, sull’onda delle crisi greca e italiana, sorsero come funghi gruppetti che scoprirono che l’Unione europea e l’euro erano un problema e che la soluzione fosse riconsegnare al Paese la sua piena sovranità, monetaria ed economica. Vi fu chi fece allora un censimento e ne contò una cinquantina.
Figli del loro tempo, la gran maggioranza di essi, si consideravano “né di destra né di sinistra”, assumevano il paradigma del pensiero unico neoliberale, ovvero la “fine delle ideologie” e tra queste, anzitutto, del marxismo. Un fenomeno che negli anni ’90 sarebbe stato definito “estremismo di centro”, un prodotto ideologico di scarto ma precipitato di un enorme processo sociale: la pauperizzazione traumatica e la discesa nel rango sociale di un ceto medio che fino al giorno prima, in larga parte, si immedesimava nel sistema, se non proprio nel berlusconismo.
Dal mito individualistico e tipicamente latino del “fai da te”, il piccolo borghese tradito faceva il salto mortale, l’inversione ad U: si invocava ora l’intervento salvifico e tout azimut dello Stato. Aleggiava il puzzo del noto aforisma mussoliniano: «Tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato». Sembrava compirsi il miracolo di una pseudo-patriottica transustanziazione: l’amalgama tra rottami fascisti, eredi del togliattismo staliniano, discendenti della Democrazia Cristiana, nostalgici del craxismo: tutti assieme nell’afflato “sovranista”.
Era una bolla e come tutte le bolle destinata a scoppiare.
Se è esplosa nel giro di un anno o poco più non è tuttavia, come pensano certi amici, solo per cause endogene — rozzezza politica, pressapochismo culturale, economicismo, megalomania di certi personaggi — ma pure per potenti cause esogene. Il 2013 è stato l’anno della folgorante avanzata elettorale dei Cinque Stelle, poi di quella del salvinismo — due fenomeni che hanno risucchiato lo spazio dei gruppi “sovranisti”. E’ poi sopraggiunto, come segno di un malessere reale in seno ai dominanti, il renzismo. Fenomeni enormi che i “sovranisti” non sono stati in grado di capire, che hanno sottostimato, che hanno addirittura snobbato — ed infine esorcizzato (tranne il salvinismo a cui numerosi “sovranisti” hanno abboccato) come macchinazioni del potere.
L’ARS ha rappresentato il distillato chimicamente puro di questa pappetta “sovranista” post-ideologica, transessuale, interclassista. L’ARS ha fatto del trasversalismo politico e del mito non solo della Costituzione, ma della “Prima Repubblica” — che quella Costituzione ha in verità sostanzialmente disatteso — le sue due cifre principali, addirittura identitarie.
Ci occupammo di ARS in almeno due occasioni [qui: Sovranismi di destra, di sinistra… e di centro, e qui: Quelli che i diritti civili no], nei quali appunto tentavamo di cogliere quali fossero i limiti politici e teorici essenziali del gruppo.
Grazie alla tenacia e alla abilità mimetica del suo gruppo fondatore, ARS è riuscita a sopravvivere alla moria generale, raccattando anzi qua e là, assieme a persone per bene, questo o quel pesce spiaggiato. Ora ci dicono che ARS ha subito una scissione pesante, anche se non nei numeri, perché è verticale, dato che ha coinvolto la sua stessa direzione. Uno scoppio… a scoppio ritardato.
Ce ne da conto Fiorenzo Fraioli, che ha partecipato alla riunione dei fuoriusciti. Una “scissione antropologica”, la definisce il Fraioli. E spiega che oltre alla pittoresca apologia dello Stato Islamico (sì, sì, proprio dell’avanzante islamismo takfirita) sistematicamente compiuta dal principale dirigente di ARS, i fuoriusciti con il loro gesto hanno voluto condannare i suoi «… modi autoritari, l’eccesso di protagonismo, la totale incapacità di ascolto, la nessuna disponibilità alla mediazione». Questioni di..governance, direbbero i liberisti, di regime interno nel nostro vocabolario.
E’ comprensibile, e perfino giustificabile abbandonare una setta, tanto più se alla sua testa c’è un padre padrone che tiranneggia e fa il bello ed il cattivo tempo. Che questa rivolta “antropologica” contro metodi paternalisti e autoritari sia tuttavia sufficiente per fondarci un qualcosa di più solido e elevato noi ne dubitiamo. Non sulle affinità antropologiche ma su solide basi politiche si fonda un’organizzazione. Ma questo i fuoriusciti sembrano non saperlo dato che leggiamo:
«Tuttavia, a parte il problema ISIS, non sono emerse nel corso della discussione altri forti elementi di dissenso politico. Anzi, quando nella parte finale dell’incontro si è passati a discutere del “che fare”, l’opinione unanime è stata quella di continuare la stessa battaglia politica di ARS, sebbene in una nuova costituenda associazione che adotti metodi e prassi radicalmente diverse».
Vorremmo sbagliarci ma qui, se le parole hanno un senso, si esce da ARS per rifondare ARS. ARS 2.0. Tradotto in politichese: ci si libera di D’Andrea per tenersi il d’andreismo.
Il buon giorno si vede dal mattino, verrebbe da dire.
L’esperienza ci insegna tuttavia che certe rotture, una volta compiutesi, possono aprirsi ad esiti più profondi e radicali, ovvero tendono ad andare alla radice. E la frattura, per quanto manifestatasi come alterità “antropologica” , non tarderà a manifestarsi nella sua natura politica e teorica.