Una ragione di più per mettere all’ordine del giorno la cacciata del governo Renzi

Tempo di DEF (Documento di Economia e Finanza), tempo di privatizzazioni. O, meglio, tempo di svendite. Quella messa improvvisamente all’ordine del giorno – la nuova tranche di Poste Italiane – grida semplicemente vendetta.

Sono passati solo 6 mesi dalla collocazione in borsa del 35% di questa società, con un incasso di 3,1 miliardi, che già si vuol passare alla fase 2. Un passaggio peraltro vietato dalle stesse norme scritte dal governo nel Dpcm firmato da Renzi, Padoan e Guidi il 16 maggio 2014. In quell’atto si fissava infatti la quota massima privatizzabile nel 40%.

Così recitava il comma 1 dell’articolo 1:
«Il presente decreto regolamenta l’alienazione di una quota della partecipazione detenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze in Poste Italiane S.p.A. che determini il mantenimento di una partecipazione dello Stato al capitale di Poste Italiane S.p.A. non inferiore al 60%».

Ma la parola del Bomba e dei suoi accoliti, si sa, vale quello che vale. E, se le cose andranno come sembra, avremo presto un nuovo decreto che fisserà la partecipazione dello Stato al 30 se non addirittura al 25%.

Perché questa repentina manovra? Perché, quella appena annunciata, si configura come una vera e propria svendita?

Andiamo con ordine.
Come dovrebbe essere noto le privatizzazioni, oltre a determinare i pesanti effetti sociali che sappiamo, hanno ben poca efficacia nella dinamica del debito pubblico. Per loro natura gli introiti ottenuti non possono che essere una tantum, mentre lo Stato perde sempre più la possibilità di orientare le grandi scelte economiche, rinunciando peraltro (e per sempre) agli stessi incassi di dividendi per niente trascurabili.

In poche parole, anche per lo Stato, non solo per i cittadini che si ritrovano sempre meno servizi ma ad un costo più alto, le privatizzazioni sono sostanzialmente un disastro economico. Ma è un disastro che ha un preciso committente e dei ben noti beneficiari. Il committente è risaputo: l’Unione Europea esige infatti che le privatizzazioni facciano parte organica dei piani di rientro dal debito giudicato in eccesso. Ed i governi italiani – a partire da quelli di “centrosinistra” degli anni ’90 – sono sempre stati all’avanguardia nel perseguimento di interminabili politiche di privatizzazione. In quanto ai beneficiari, ci vuol poco per capire che i loro nomi corrispondono a quelli dei pescecani che comandano i mercati finanziari, che possono fare affari con grande facilità, specie quando si immettono sul mercato grandi quantità di azioni in un contesto di depressione dell’andamento borsistico come l’attuale.

Ma entriamo nel merito. Il governo Renzi ha messo in preventivo un ricavo di mezzo punto di pil all’anno (pari ad 8 miliardi di euro), nel triennio 2016-2018, da ottenersi con le privatizzazioni. Perché torna in ballo Poste Italiane? Semplice, perché la prevista privatizzazione delle Ferrovie dello Stato (FSI) è rimandata – per ragioni non del tutto chiare – almeno al 2017. Da Bruxelles esigono però ugualmente gli 8 miliardi del 2016, ed ecco che si pensa di ricavarne una parte con la seconda tranche della società diretta da Francesco Caio.

Arriviamo così a quel che dicono i giornali in questi giorni. Il governo ha intenzione di mettere a bilancio nel DEF 2016 (che verrà reso pubblico in aprile) un’entrata di 2,6 miliardi, corrispondente -in base alle attuali quotazioni – al 30% di Poste Italiane. In questo modo la quota di proprietà dell’azienda detenuta dal Tesoro scenderebbe dal 65 al 35%.

Non sappiamo, peraltro, come il governo punti ad arrivare agli 8 miliardi preventivati. L’altra privatizzazione prevista nel 2016, quella dell’Enav (Ente nazionale di assistenza al volo), dovrebbe infatti portare nelle casse dello stato non più di 1,8 miliardi. E’ chiaro come il duo Renzi-Padoan stia raschiando il fondo, e pur di far cassa costoro sono disposti a cedere ulteriori quote di aziende strategiche – nel 2015 è avvenuto con una nuova cessione del 5,74% di Enel – anche a costo di renderle prima o poi scalabili da soggetti privati.

Si deve dunque parlare di svendita per due ragioni. In primo luogo, perché la continua vendita di azioni pubbliche finisce inevitabilmente per abbassarne i prezzi (se ne accorgeranno presto i 26.234 dipendenti convinti ad acquistare azioni di Poste Italiane nell’ottobre scorso). In secondo luogo perché, il percorso può essere anche lungo, ma alla fine si arriva quasi inevitabilmente non solo alla privatizzazione integrale, ma (come vediamo in questi giorni nel caso di Telecom) all’assunzione del controllo delle vecchie aziende di Stato da parte di gruppi stranieri.

Che sia questa la logica di Renzi e dei suoi compari è cosa nota. Che tutte queste operazioni di svendita, oltre che di privatizzazione, passino con ben poca attenzione ed altrettanto scarsa opposizione, è davvero inquietante. Ma il Renzi che scassa la Costituzione non è solo quello che abolisce il Senato e si fa una legge elettorale tagliata su misura. E’ anche quello che privatizza e svende il patrimonio pubblico, in una folle corsa verso quel “liberismo realizzato” che è il sogno degli oligarchi nostrani ed europei.

Una ragione di più per mettere all’ordine del giorno la cacciata di questo governo. Un obiettivo che dovrà essere al centro della campagna per il no al referendum costituzionale previsto ad ottobre, che non di soli senatori si tratta.