Sorge un profondo sentimento di commiserazione sentendo i media presentare Marco Pannella come il “Gandhi italiano”. Su Pannella stendiamo un velo pietoso. Meglio usare il nostro prezioso tempo per fare i conti con quella figura grande e controversa di Gandhi, versione indiana del Poverello di Assisi, o per essere più precisi un sufi induista.
Impossibile comprendere il pensiero e l’azione di Gandhi con le lenti occidentali e laiciste. Occorre sbarazzarsi, per capire Gandhi, non solo del pensiero unico neoliberista (di cui Pannella era esponente) e delle farneticazioni postmoderniste, pure di tutta la cianfrusaglia ideologica civilista. Se oggi nascesse un Gandhi lo prenderebbero per pazzo. Esattamente come se riapparissero Gesù o Bhudda. Dovremmo quindi stare attenti a non trascinare quest’uomo nelle polemichette provinciali italiane.
Per gli indiani (tranne che per certi fondamentalisti hindù) Gandhi era ed è un santo (Mahatma, “Grande anima”); andava in giro seminudo (si era svestito come Francesco!); difendeva strenuamente i “mahar” (gli intoccabili, che lui chiamava Harijan, figli di Dio); fondava comuni agrarie comuniste; fini in galera innumerevoli volte (non certo per le canne); e quando l’India ottenne l’indipendenza contestualmente alla sanguinosissima guerra fratricida tra induisti e musulmani (che diede vita a quell’assurdo geopolitico che è il Pakistan) lesse inauditamente il Corano nei templi hindù e iniziò l’ennesimo sciopero della fame per protesta contro la persecuzione dei musulmani affermando:
“La morte sarebbe per me una gloriosa liberazione: meglio questo che essere testimone impotente della distruzione dell’India, dell’induismo, del sikhismo e dell’Islam” (11 gennaio 1948).
E infatti venne ammazzato pochi giorni dopo da un fanatico hinduista.
Gandhi era un’anima religiosa, anzi un mistico, che la storia gettò sul terreno politico, certo che l’India doveva avere un ruolo mondiale spirituale contro una modernità capitalistica che disprezzava.
Gandhi era un asceta politico, uno che mise la sua vita a disposizione della lotta di liberazione degli oppressi. La sua tecnica di battaglia, la Satyagrha (letteralmente: “afferrarsi alla verità), era certamente una forma di lotta non violenta e di disobbedienza civile al potere.
Stabilire un parallelo tra la sua non violenza e quella pannelliana è come confondere Cristo con Papa Woytila. Il Satyagrha non può essere compreso fuori dal contesto di profonda religiosità indiana. La mera lotta politica era per Gandhi secondaria, subordinata all’elevazione spirituale (ma anche sociale e civile), ad una visione cosmogonica fondata sul rispetto per ogni forma vivente (ahimsa), di qui la meditazione, il digiuno, il silenzio, il recupero delle tecniche yoga pre-arie. E c’era in Gandhi, come in Gesù e Francesco, l’idea che solo la povertà integrale avvicinasse l’uomo al divino, che quindi soltanto i poveri siano autentici figli di Dio. Confondere il misticismo gandhiano con l’ateismo liberale di Pannella è come scambiare il diavolo con l’Acqua santa.
La “pazzia” di Gandhi fu che egli volle sfidare il più grande impero del tempo con la potenza della sofferenza, della meditazione, dell’ascesi. Egli non cessava mai di ricordare ai propri seguaci:
“… più pura è la sofferenza (tapasya) maggiore è il progresso. Per questo il sacrificio di Gesù bastò a liberare un mondo sofferente… Se l’India vuole vedere il regno di Dio in terra (e non quello di Satana in cui è invischiata l’Europa), sappiano i suoi figli e le sue figlie… Che dobbiamo soffrire”. Per Gandhi l’haimsa, la non violenza, non era anzitutto una forza negativa, essa aveva una forza positiva, l’amore, e mediante la potenza dell’amore egli esortava gli satyagrahin a “convertire” il cuore dei propri avversari, a conquistare la loro anima.
Gandhi era insomma un Gesù più immanentista che trascendente però — e quindi più rivoluzionario di Gesù, che non si immischiò mai con gli zeloti e predicava l’indifferentismo politico. Un profeta religioso comunque, che mise la sua spinta mistica a disposizione della causa rivoluzionaria della liberazione indiana — anche se solo all’ultimo, e sotto la pressione del nazionalismo radicale (e violento), si converti all’indipendentismo, mentre fino agli anni ‘40 perorava una mera Svaraj, una autonomia nell’ambito dell’impero inglese). Liberazione a cui diede un contributo decisivo ma che avvenne più come conseguenza dei devastanti avvenimenti bellici della seconda guerra mondiale, del tramonto dell’imperialismo inglese e delle straordinarie lotte popolari indiane (più spesso violente che non violente), che per il successo della sua strategia. Strategia, al contrario, che negli anni 1944-47 subì un totale fallimento.
Che un politicante come Pannella sia spacciato come uno che abbia seguito il suo esempio è un’operazione ideologica miserabile. In altezza i Radicali — veri portabandiera del liberalismo borghese, loro che hanno sguazzato e sguazzano nei palazzi romani, loro che hanno fornito al potere liberista deputati e financo ministri — non giungono nemmeno alla caviglia del Mahatma.
Digressione.
Anni addietro Fausto Bertinotti e Rifondazione comunista tentarono di usare la memoria di Gandhi per contrapporlo alla tradizione rivoluzionaria di Lenin. La cosa finì nel ridicolo: non potevano capire né l’uno né l’altro. Ne potevano imitare né l’uno né l’altro. L’uno e l’altro distanti in maniera siderale ma vicini tantissimo perché entrambi diedero la loro vita per gli ultimi, i “semplici”, i diseredati e quindi la loro liberazione.
Certo, Lenin, per quanto potente fosse il suo spirito, aveva poco a simpatia l’ascetismo spiritualista, trascendentale o pretesco. Lui, uomo e stratega dell’azione rivoluzionaria, se fosse stato in India, avrebbe combattuto politicamente Gandhi, ma, ne sono certo, con lui avrebbe marciato in più occasioni, tranne quando, e accadde più volte, il Mahatma ondeggiò e giunse a disastrosi compromessi tattici coi colonialisti inglesi. Errori che Gandhi comprese e tentò di non commettere più, entrando quindi in un conflitto insanabile con il Partito del Congresso di Nehru e con la Lega Musulmana di Jinnah.
Tuttavia, dopo il 1917, molti erano gli indiani che stabilirono un improbabile parallelo tra Lenin e Gandhi. Ogni volta che ho avuto la fortuna di recarmi in India ho cercato, invano, un libro del 1920 dal titolo “Gandhi e Lenin”, che fu scritto da un dirigente comunista, Shripat Amrit Dange, nel quale l’autore pur apprezzando quanto Gandhi andava facendo per il suo popolo, sosteneva che solo Lenin fosse un “vero rivoluzionario”. Ed aveva ragione, ma oggi sappiamo con quanta prudenza occorre prendere il predicato “vero”.
Riguardo alle simpatie di Gandhi per il Fascismo molto si è detto, a sproposito. Il problema di fondo è che il movimento indiano di liberazione nazionale aveva come nemico principale l’oppressore inglese. Se nella prima guerra Gandhi cessò (a torto!) le ostilità per sostenere lo sforzo bellico antitedesco degli inglesi (partì infatti volontario), in occasione della seconda guerra non commise lo stesso madornale errore e nell’ottobre 1940 diede inizio ad una nuova satyagrha, ovvero adottò la tattica della renitenza alla leva all’esercito inglese — si tenga conto che gli inglesi reclutarono centinaia di migliaia di indiani che mandarono a morire sui vari fronti dall’Europa all’Asia per difendere i loro interessi coloniali. Gandhi, con tutto il movimento nazionale, continuò la lotta anti-inglese nonostante l’Inghilterra fosse in guerra col nazismo. Fu giustissimo — mentre i filo-staliniani del Partito comunista indiano ebbero torto perché chiedevano la cessazione della lotta di liberazione nazionale… per non indebolire la “causa antifascista” dell’imperialismo inglese. Fu proprio grazie a questa tenacia che l’India ottenne l’indipendenza successiva impedendo agli inglesi di perpetuare il loro dominio coloniale.
Diverso fu il caso dell’INA (Esercito Nazionale indiano) di Subhas Bose, vecchio amico di Gandhi, che non esitò ad accettare gli aiuti giapponesi per condurre la sua guerra di guerriglia anti-inglese ed è vero che egli nel 1941 si recò a Berlino ed ottenne alcuni appoggi da parte di Hitler. Solo è doveroso ricordare che per andare a Berlino passò, nel 1941, per Mosca, in quel frangente alleata alla Germania nazista. Bose venne poi ucciso dagli inglesi, diventando un’eroe nazionale, una specie di Garibaldi indiano.
Portare a Gandhi il rispetto che merita, non significa condividere la sua visione del mondo.
La sua era infondo una metafisica, dal momento che assolutizzava l’Hamsa, la non violenza, e ne faceva un imperativo morale categorico a priori, radicalizzando tuttavia il discorso kantiano: Kant partiva da una fede razionalistica nella ragione mentre il Mahatma da una fede meta-razionalistica nell’amore.
Se è difficile accettare le weltanschauung kantiana e gandhiana, sarebbe tuttavia sbagliato condividere le facili critiche antigandhiane di certa sinistra “rivoluzionaria”, che più che marxiste paiono imparentate a certa etica borghese illuminista europea presocialista.
Gandhi era o no per il socialismo? Pro o contro la divisione castale dell’India?
Gandhi non ha mai chiaramente affermato che fosse per il socialismo. Possiamo però dire che egli contestava non solo il colonialismo ma il sistema capitalistico che ben conosceva. Era senza alcun dubbio per una società fondata sulla giustizia sociale, ma non aveva alcuna fiducia né nell’idea illuminista di “progresso”, né nelle forze produttive e tecniche del capitalismo borghese. Gandhi immaginava infatti di rifondare l’India sulla base di un comunitarismo agrario egualitario. Passatista e retrogrado dunque? Sì, ma allora agli antipodi del pannellismo liberale col suo culto mistico e totalitario della scienza e delle sue tecniche.
Per quanto riguarda le caste, è facile, per un europeo, fare spallucce. Ma quella induista è una civiltà antichissima, che sorse prima ancora delle invasioni arie duemila anni prima di cristo. Ci sono cose che sono radicate nella formazione sociale. La gerarchia castale è connaturata all’induismo, le cui tradizioni religiose, che nemmeno il buddismo riuscì a spazzarla via tanto erano profonde (l’India è il paese meno buddista rispetto a quelli limitrofi), erano difese da Gandhi. Ma per Gandhi le caste non dovevano corrispondere a classi sociali (fu il colonialismo inglese a introdurre questa metamorfosi), bensì a gruppi distinti solo per funzione sociale. Nella Città del Sole anche il nostro Tommaso Campanella, sulla scia di Platone (Repubblica), parlava di un sistema senza proprietà privata ma con caste sociali (anche lui poneva quella sacerdotale dei sapienti in cima alle altre, in India i brahamini), e tuttavia è indubbio che Campanella sia stato un comunista ante litteram. E’ certo che dal punto di vista della concezione sociale Gandhi era più vicino a Platone e Campanella piuttosto che a Marx.
En passant…
Gandhi teorizzava il martirio, d’altro segno, certo, rispetto a quello degli islamisti odierni.
Il sintomo che il cristianesimo è al tramonto consiste anche in questo: che non riesce nemmeno più a produrre dei martiri che mettano la loro vita a disposizione della giustizia — e quando fosse in grado di produrli, anche qui in Occidente, quello sarà forse il segno della sua rinascita. Papa Bergoglio reitera la metafora del porgere l’altra guancia, ovvero a genuflettersi davanti al moloch imperialista — mentre Gandhi era un resistente tenace e mai si genuflesse al cospetto dei colonialisti inglesi.
Prime conclusioni…
In questi tempi di passaggio epocale che saranno segnati da profonde fratture e conflitti, occorre certo respingere la metafisica della non violenza, ma altrettanto attenti a precipitare in quella della violenza. A volte è intelligente e necessario non solo lottare democraticamente, ma addirittura porgere l’altra guancia. Dipende dalle circostanze, dai rapporti di forza che dividono noi dal nemico. Non si vince senza egemonia e certe volte la non violenza, ovvero una grande coerenza etica e spirituale, la disposizione al massimo sacrificio proprio, porta consensi straordinari e profondi.
Guevara resta, per questo, un mito mondiale: per il suo sacrificio (molto cristiano), prima ancora che per avere imbracciato le armi contro gli americani e i loro cani da guardia. E la maniera santa ed eroica con cui ha accettato la propria morte è quella che resterà scolpita in eterno nei cuori e nella mente dei diseredati.