Mi è stato chiesto di visionare e dare un giudizio dello spot elettorale di Simone Di Stefano, candidato a sindaco per la città di Roma.

Che dire? Nella forma a me sembra utilizzi non solo la sintassi ma i trucchetti del marketing pubblicitario che da tempo vanno per la maggiore. Sintomatici grammatica e ritmo dello spot.

Primo tempo: siamo in strada, un minaccioso Di Stefano va incontro alla telecamera scortato da alcuni non meno inquietanti e aitanti energumeni.
Secondo tempo: vediamo il Di Stefano, sempre correndo spavaldo dietro alla telecamera, questa volta accompagnato da due donne tra cui una rassicurante mamma con il bebè in carrozzella.
Terzo tempo: ancora il Di Stefano, questa volta fiancheggiato da tre o quattro sodali in cui spicca, attenzione, un più rassicurante signore in doppiopetto.
Quarto tempo a suggello: la location questa volta non è la strada ma in un non-luogo di bianco colore (un centro commerciale?) e il Di Stefano, questa volta in giacca e cravatta, ha di fianco un gruppetto di persone anche loro ben vestite — impiegati di banca? rappresentanti di commercio? curatori fallimentari?

Insomma, si parte con l’ostentazione decisa e spavalda della propria diversità, per poi sbrodolare in una logora marchetta un po’ democristiana: la sovversiva Casa Pound deve pagare dazio alle regole del gioco della competizione elettorale per cui, entrare in Campidoglio… val bene una messa.

Non c’è dubbio che lo spot non è una autoproduzione artigianale, che c’è lo zampino di qualche spin doctor, un qualche consulente d’immagine per cui non dev’essere stato facile sfumare l’aspetto volutamente truce e vagamente lombrosiano del Di Stefano in un messaggio sicuritario ma, appunto, rassicurante.

Il fatto è che quest’operazione cosmetica, per quanti sforzi abbia fatto il consulente d’immagine, non mi pare sia andata a buon fine.

Il messaggio politico-simbolico che passa, ripetuto ossessivamente, fino alla nausea, è un inequivocabile miscuglio di xenofobia, razzismo, sicuritarismo sbirresco. Il resto, se c’è, è fuffa — non una parola sulle cose che contano: i tagli alla spesa sociale e l’ingente debito dell’amministrazione, la spending review e l’austerità, la disoccupazione di massa, l’esplosiva questione abitativa, la corruzione dilagante… Il che fa una bella differenza con il profilo da centro sociale che Casa Pound scelse nelle precedenti elezioni comunali del 2013 — quando tuttavia ottenne la miseria di 6.295 voti, pari allo 0,61%.

Le parole usate e abusate sono in sequenza, testualmente: sicurezza, controllo delle strade, espulsione da Roma degli stranieri senza lavoro e casa, ripulire la città dagli sbandati, andiamo in strada a combattere il degrado, chiudiamo fisicamente i centri di accoglienza e i campi rom, ci vogliono le maniere forti [quindi, dulcis in fundoRoma si cambia a calci.

Questa è la carta d’identità con cui Casa Pound si presenta ai cittadini romani. Che essa porti messe di voti non penso, e certo non me lo auguro. Di sicuro ne prenderà più che nel 2013.

Il messaggio, almeno così io ritengo, è infatti al di sotto della pur scadente coscienza politica del romano medio, il quale, pur consapevole dei guasti di un’immigrazione fuori controllo, sa bene che, sulla scala delle cause, ben altro è il rango dei fattori.

Definire demagogica (attenzione: non populista) l’operazione politica di Casa Pound è il minimo. Si tratta di un messaggio politico deviante, infingardo, farisaico, che serve anzitutto a chi dirige questo movimento, a fornire un’identità a buon mercato ad una base sociale giovanile che freme per menar le mani, a galvanizzarla.

Menar le mani infatti, non contro chi sta sopra ma contro chi sta sotto; non contro i criminali al potere, i loro satrapi e la loro sbirraglia, ma contro i settori più deboli, esclusi ed emarginati della società e, nel caso, contro tutte le “piattole di sinistra”.

Che questa narrazione possa diventare egemonica io ne dubito.
Chiediamoci: la richiesta, per di più posta come centrale, di espellere gli stranieri indigenti. è una rivendicazione che può fungere da elemento di unificazione di altre domande sociali? Io penso di no. Qui si deve cogliere la differenza col populismo, che invece unifica, a dispetto di una realtà sociale opaca, ciò che è frammentato, che fa confluire e mobilita tutte le diverse istanze che vengono dal basso per puntarle contro il nemico che sta in alto.

La rappresentazione politica che Casa Pound ostenta è certo dicotomica, ma dove l’opposizione che fomenta non è appunto quella tra dominanti e dominati, tra le masse e le élite, tra i ricchi e i poveri, tra gli esclusi ed i privilegiati, bensì tra italiani e stranieri — beninteso non tutti, solo i poveracci. La più infame guerra tra poveri. Un sovversivismo d’accatto, destinato ad essere minoritario, per quanto sia, in ultima istanza, funzionale ai dominanti.

Insomma: l’ossessione xenofoba, che fa leva (distorcendola) su una domanda di sicurezza che effettivamente sale, è uno di quei discorsi particolari, parziali, che non ha la capacità di portare ad unità le diverse istanze sociali e popolari smembrate, ovvero di aprirsi sull’universale.

E’ qui che entra in gioco un altro aspetto della questione. E’ palese come, per Casa Pound, il fomentare l’odio verso lo straniero sia del tutto strumentale ad un disegno strategico apparentemente più insidioso, quello di costruire una nuova identità nazionalista tra gli italiani. Aspetto complesso, per storia e fenomenologia, quello del nazionalismo italiano, che richiederebbe uno svolgimento che non si può trattare debitamente in questa sede.

L’Italia non è la Germania, e nemmeno la Francia. Qui da noi il cosmopolitismo (di cui l’europeismo è un precipitato), la vocazione cosmopolitica dell’Italia, hanno radici profonde, vengono da Roma caput mundi, passano per la funzione universale della Chiesa cattolica, per il rinascimento, fino a sfociare nell’egemonia contrapposta ma complementare tra due partiti universalistici: la Democrazia cristiana e il più forte partito comunista d’Occidente. Lo stesso fascismo, per quanto distorcendola in una brutale forma imperialistica, fu costretto a raccogliere la narrazione universalistica dell’Italia.

«Il cosmopolitismo italiano non può non diventare internazionalismo. Non il cittadino del mondo, in quanto civis romano o cattolico, ma in quanto lavoratore e produttore di civiltà. Perciò si può sostenere che la tradizione italiana dialetticamente si continua nel popolo lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e nell’intellettuale tradizionale. Il popolo italiano è quello che è più interessato all’internazionalismo. (…)
Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione della storia italiane e del popolo italiano, non per dominarlo e appropriarsi i frutti del lavoro altrui, ma per esistere o svilupparsi (…) La missione di civiltà del popolo italiano è nella ripresa del cosmopolitismo romano e medievale, ma nella sua forma più moderna e avanzata. Sia pure nazione proletaria; proletaria come nazione perché è stata l’esercito di riserva di capitalisti stranieri (…) Appunto perciò deve innestarsi sul fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non italiano, che ha contributo a creare col suo lavoro
».

Antonio Gramsci
, Quaderni dal carcere.
[Q9, 127, p 1190-1. Edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, Torino 1977]

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