Più sotto un articolo di Wolfgang Munchau sul Financial Times

Le conseguenze politiche, ben più di quelle economiche, preoccupano le oligarchie euroatlantiche. Ma per evitare la Brexit hanno bisogno di spaventare il popolo. Ecco allora il terrorismo economico, accompagnato dal catastrofismo d’accatto tipico di chi è senza argomenti.

A dieci giorni dal voto un calo delle Borse europee certo non guasta. Per lorsignori è il segno di quanto sia terrificante anche solo l’ipotesi di un’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea. Già, ma terrificante per chi?

Ci hanno provato in tutti modi, fino ad evocare con Cameron lo scenario di una guerra europea. Ma secondo i sondaggi l’esito del referendum del 23 giugno resta quantomeno incerto. Ecco allora che ieri il polacco Tusk, presidente del Consiglio europeo, ha deciso di andarci leggero in un’intervista al giornale tedesco Bild: «In quanto storico, temo che Brexit possa marcare non solo l’inizio della distruzione dell’Unione ma anche della civiltà occidentale».

Qui il discorso meriterebbe di essere approfondito, ma certo identificare il destino dell’UE con quello della cosiddetta «civiltà occidentale» non pare un modo per impostare una discussione seria, quanto piuttosto un trucco propagandistico da giocarsi nelle urne d’oltre-Manica. Tuttavia questi trucchi non funzionano. E siccome si dice che gli inglesi votino soprattutto pensando al portafoglio, ecco l’enfasi sui temi finanziari.

«Borse, sale la paura Brexit – Sterlina sotto pressione», questo il titolo del Sole 24 Ore di oggi. Tralasciando ogni considerazione sulla nota aleatorietà degli andamenti borsistici, facendo finta di ignorare il peso delle evidenti manovre speculative in corso, quanto hanno perso davvero le borse ieri? Londra ha ceduto l’1,16%. Una flessione di ordinaria amministrazione. Curiosamente, nello stesso giorno, hanno perso di più Francoforte (-1,80), Parigi (-1,85) e Milano (-2,91). Peggio di tutti ha fatto Tokio con il -3,51%: che il referendum del 23 si tenga in Giappone?

La cosa interessante è che lo stesso andamento (con Londra che fa nettamente meglio delle altre piazze citate) lo ritroviamo nel dato da inizio anno. In questo periodo al -3,16% della City fa riscontro il -8,84 di Parigi, il -10,10 di Francoforte, il -22,39 di Milano, nonché il -15,84% di Tokio. Già, diranno i soliti noti, ma la sterlina? Perdendo l’1%, la «sterlina sotto pressione» ieri si è semplicemente riportata sui valori che aveva agli inizi di aprile. Valori nettamente superiori a quelli medi degli ultimi tre anni. Dov’è allora il crollo di cui si parla?

Con questo non stiamo certo sostenendo che l’eventuale Brexit non avrà conseguenze economiche. Queste ci saranno, come ovvio. Ma di che tipo? Anche di questo ci parla l’articolo di Wolfgang Munchau che potete leggere più sotto, grazie alla traduzione di Voci dall’estero.

La cosa che fa semplicemente ridere è che il terrorismo delle oligarchie vorrebbe far credere che gli effetti della Brexit sarebbero negativi per entrambe le sponde della Manica. Ora, perché mai un’area economica (quella dell’UE), che è stata la peggiore al mondo nel rispondere alla crisi iniziata nel 2008, dovrebbe andare ancora più in crisi con l’uscita della Gran Bretagna? Dal punto di vista strettamente economico nessun argomento ci viene fornito. E la spiegazione è semplice: argomenti di questo tipo non ce ne sono. La verità è che il problema per l’UE non è di natura economica, quanto invece di tipo politico.

Illuminante, a questo proposito, è l’inizio dell’articolo già citato di Munchau:
«Durante le conversazioni con i funzionari europei continuo a sentire ripetere un argomento rivelatore: se la Gran Bretagna votasse per uscire dall’Unione Europea e ciò venisse visto come un successo, altri paesi membri potrebbero seguirne l’esempio. Perciò questo pericolo deve essere stroncato sul nascere. Questo modo di ragionare rivela l’implicita ammissione che la Brexit potrebbe funzionare dal punto di vista economico. Più precisamente, chi ragiona così teme che un eventuale successo post-Brexit tolga agli europeisti ciò che essi ritengono essere il proprio argomento più forte: la paura dell’ignoto».

La «paura dell’ignoto», ecco l’arma decisiva che a Bruxelles (ma non solo) temono di perdere. Si arriverà allora a punire economicamente la Gran Bretagna per la sua scelta? Questo non lo possiamo sapere. La razionalità economica direbbe di no, ma le ragioni della politica di un’oligarchia alla disperazione potrebbero prevalere.

In ogni caso, ed è questo che ci interessa sottolineare, la Brexit mette davvero paura ai signori della finanza, ma non per qualche oscillazione dei mercati finanziari – sulla quale magari speculano – ma per la messa in crisi della loro “macchina perfetta”, quell’Unione Europea nata per mettere al sicuro i loro affari da ogni interferenza popolare e democratica.

Qui sotto l’articolo di Munchau. A differenza dell’editorialista del Financial Times non pensiamo che un’uscita di Londra potrebbe essere recuperata in futuro. Pensiamo piuttosto che la vittoria del Leave darebbe un colpo davvero micidiale ad un’Unione già traballante. Unione che egli vorrebbe “più stretta”, mentre noi ne vogliamo la fine. Il suo articolo è tuttavia utilissimo. Non solo per la sua disamina delle questioni economiche, ma proprio perché mette in luce il vero nodo politico che sta dietro il voto del 23 giugno.

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Se sarà Brexit, lasciate che la Gran Bretagna esca in pace
di Wolfgang Munchau

Durante le conversazioni con i funzionari europei continuo a sentire ripetere un argomento rivelatore: se la Gran Bretagna votasse per uscire dall’Unione Europea e ciò venisse visto come un successo, altri paesi membri potrebbero seguirne l’esempio. Perciò questo pericolo deve essere stroncato sul nascere.

Questo modo di ragionare rivela l’implicita ammissione che la Brexit potrebbe funzionare dal punto di vista economico. Più precisamente, chi ragiona così teme che un eventuale successo post-Brexit tolga agli europeisti ciò che essi ritengono essere il proprio argomento più forte: la paura dell’ignoto. La recente oscillazione nei sondaggi di opinione, che indica il fronte della Brexit in vantaggio, suggerisce che la campagna di paura portata avanti dal fronte del “Remain” non sta funzionando. Se il “Progetto Paura” (come è stata soprannominata la campagna per la permanenza in UE) fallisce nel Regno Unito, non può più essere impiegata altrove. Gli europeisti sarebbero allora costretti a costruire argomenti positivi in favore dell’UE, cosa che però molti di loro trovano alquanto difficile. A quel punto la Brexit potrebbe scatenare un effetto domino nel quale un paese dopo l’altro potrebbe decidere di seguire la Gran Bretagna nella sua uscita.

È per questo che si vuole prevenire a qualsiasi costo un successo della Brexit. In Francia alcuni funzionari hanno propugnato l’idea di una reazione punitiva contro il Regno Unito — o almeno una rottura netta con tutti i Trattati europei, incluso il mercato unico. Si oppongono a qualsiasi possibilità di uscita morbida, che preveda un accesso preferenziale della Gran Bretagna alla più grande area di libero commercio al mondo.

La premessa di un impatto mite sull’economia è realistica? Se lo è, gli altri paesi dell’UE devono organizzare una ritorsione in modo da farne un caso esemplare? Le mie risposte sono “probabilmente sì” e “certamente no”. La Brexit avrà delle conseguenze economiche, ma credo che non saranno così drammatiche come suggerisce il fronte del Remain. E comunque no, gli altri paesi UE non devono fare ritorsioni. Danneggerebbero più loro stessi che il Regno Unito.

So che il Ministero del Tesoro britannico, la Banca d’Inghilterra, il club OCSE dei paesi ricchi e il Fondo Monetario Internazionale hanno tutti quanti prodotto degli studi che mostrano un grave impatto economico della Brexit. Il problema è che tutti questi studi si basano su assunzioni piuttosto specifiche sugli sviluppi futuri del commercio e, cosa più importante, sul modo in cui l’economia si regolerà nel lungo periodo. Tutti questi studi sono altamente speculativi e quasi certamente sbagliati. L’economia britannica alla fine si regolerebbe in modo da adattarsi al nuovo regime, così come si è adattata al mercato unico quando questo è stato avviato più di 20 anni fa.

I modelli macroeconomici svolgono molti ruoli utili. Ma fingere che si possano misurare conseguenze economiche a lungo termine di una decisione politica ancora sconosciuta significa fare un abuso della metodologia e delle assunzioni matematiche sottostanti. Ci sarebbero certamente alcuni specifici effetti negativi sull’economia, ma ce ne sarebbero anche di positivi a bilanciarli. La sterlina potrebbe svalutarsi e portare così a una riduzione dell’attuale ampio deficit delle partite correnti della Gran Bretagna. I prezzi delle case potrebbero scendere, e anche questo potrebbe essere positivo. E se la City di Londra perderà un po’ di affari non è detto che questo sia un male per l’economia nel suo insieme. La teoria economica ci dice che la ricchezza di un paese dipende, in ultima analisi, dalle sue capacità, dalle sue risorse e dalla qualità delle sue politiche. È difficile immaginare come la Brexit possa incidere su tutto questo — a meno che non pensiate che, uscendo, il Regno Unito si trasformi in una specie di Corea del Nord.

Nel breve termine la Brexit potrebbe avere un impatto economico negativo. Comporterebbe un improvviso cambiamento di regime e con esso delle perdite per attrito. Ma sarebbe una follia lasciare che delle valutazioni sui costi nel breve termine interferiscano con una decisione riguardo la posizione strategica nel lungo termine del paese in Europa.

La premessa riguardo le preoccupazioni sull’impatto politico della Brexit in altri paesi è dunque corretta. Gli altri come reagirebbero? Dovrebbero cercare di innalzare i costi economici dell’uscita della Gran Bretagna in modo da scoraggiare altri dal seguirne l’esempio? Ciò sarebbe irresponsabile e controproduttivo. Per prima cosa l’UE ha un surplus commerciale con il Regno Unito. Cosa più importante, l’UE si sta già impegnando abbastanza a perdere la propria reputazione con l’accordo sui rifugiati, moralmente abietto, fatto con la Turchia. Se adesso l’UE si mette a penalizzare un paese membro per il fatto che esce, si tirerebbe addosso la reputazione di regime odioso.

C’è un detto tedesco che dice che non si deve cercare di ritardare il viaggio di chi vuole partire. Il mio consiglio è di lasciare che la Gran Bretagna possa andarsene in pace, che le si offra un buon accordo e si pensi in modo strategico. L’UE ha ancora bisogno della Gran Bretagna in molte aree delle scelte politiche. E chi lo sa, in futuro la Gran Bretagna potrebbe decidere di rientrare nell’UE.

Se vince il Remain, mi aspetterei che gli altri governi UE onorino il patto fatto con David Cameron, il primo ministro britannico. In nessun caso l’UE deve accettare un cambiamento dei trattati che consenta al Regno Unito di esimersi da un’unione sempre più stretta. Ciò renderebbe assurda l’intera idea di Unione Europea. Data la mancanza di volontà nel cambiare i trattati, specialmente in Francia, al momento non vedo profilarsi questo pericolo.

Ma qualunque sia l’esito del referendum, le possibilità che il Regno Unito giochi un ruolo attivo nel plasmare il futuro dell’Europa sono minime.