Cresce l’opposizione popolare al governo Al-Abadi

La crescita dell’opposizione popolare al governo di Baghdad, in un paese dove per l’informazione occidentale c’è solo la guerra all’Isis (Daesh). Di questo ci parla la grande manifestazione del 15 luglio nella capitale irachena. Alla testa della mobilitazione il religioso sciita Moqtada al Sadr, che nel 2004 schierò le sue milizie contro gli occupanti americani. Quegli stessi americani che oggi scorazzano per il paese come alleati del governo Al-Abadi.

Allo sventolio delle bandiere irachene, simbolo dell’unità nazionale, si è accompagnato lo slogan per la “fine del settarismo e della corruzione”, giusto per chiarire quali siano le vere caratteristiche dell’attuale governo.

Sulla situazione complessiva in Iraq, a partire dalla recente mobilitazione popolare, pubblichiamo di seguito un articolo di Joseph Zarlingo che ci parla anche dei tanti conflitti in corso, della disastrosa situazione nelle città riconquistate all’Isis (Falluja, Ramadi, Sinjar e Tikrit), delle stragi commesse dalle milizie sciite oltre che da Daesh, del conflitto tra governo di Baghdad e curdi attorno alla questione dell’annunciata “battaglia di Mosul”, con l’enorme ondata di sfollati (un milione di persone?) che si prevede.

Iraq. La linea sottile tra guerre e libertà
di Joseph Zarlingo (dall’Iraq)

Baghdad, Sinjar, Mosul, Erbil, Falluja. Tra macerie, sete di potere e voglia di libertà, nelle più importanti città irachene si sta giocando tanto del futuro di uno Stato che mai dalla sua indipendenza è stato così fragile.

“Libertà per tutti!”, “Curdi, sunniti, sciiti, siamo un solo Iraq!”, “Sì, sì alle riforme!”
Non è bastata la paura, profonda e dolorosissima, per l’attentato più sanguinoso dal 2003, che il 3 luglio ha lacerato la strada di Karrada, a Baghdad, spezzando la vita di oltre 300 persone. Neanche l’autobomba nel giorno dell’Eid, festività per la fine del Ramadan, che ha provocato altre 26 vittime a Balad, a nord di Baghdad, ha influito.

E figurarsi se potevano bastare gli appelli del primo ministro Haider al-Abadi a non organizzare dimostrazioni di piazza e, piuttosto, “rimanere uniti e combattere contro il terrorismo per scacciare Daesh fuori dall’Iraq”.

No, niente di tutto ciò ha fermato circa mezzo milione di iracheni che venerdì 15 luglio hanno raggiunto piazza Tahrir da diverse zone del paese, in particolare dal sud, per continuare a urlare a gran voce ciò che chiedono da un anno esatto. Pane, diritti, libertà e stop alla corruzione.

Era il 16 luglio 2015, a Bassora si raggiungevano i 50 gradi e nonostante la città fornisca da sempre ricchezza a tutto il paese, in termini di petrolio estratto ed esportato ovunque nel mondo, l’acqua e l’elettricità erano serviti a singhiozzo. In poche centinaia decisero di scendere in piazza, di fronte al palazzo della Provincia, e manifestare il loro dissenso, cercando una reazione da parte della politica.

Non dunque contro Daesh, ultimo male che ha rigettato l’Iraq dal giugno 2014 nell’ennesima crisi umanitaria e politica negli ultimi 30 anni, con potenze e interessi stranieri a farsi strada tra le nuove macerie. Bensì contro la corruzione, per un sistema politico che sappia curare gli interessi dei cittadini, con servizi di base, lavoro, e una giustizia che funzioni e garantisca diritti e libertà per tutti, senza distinzioni religiose e identitarie.

Ebbene ad un anno esatto, la gente è ancora lì, venerdì dopo venerdì, in strada, con la bandiera irachena come simbolo di unità. Nonostante l’Iraq sia conosciuto solo per i suoi “atavici conflitti settari”. E nonostante un intricatissimo contesto di conflitti che da nord a sud sta già ridisegnando la terra dei due fiumi, più velocemente delle analisi di politologi, esperti militari e complottisti.

Perché con le proteste sullo sfondo, tanto, tantissimo è accaduto soltanto nell’ultimo anno, e ancora di più è successo da quando Daesh ha conquistato un terzo dell’Iraq, terrorizzando, massacrando e anche monopolizzando l’attenzione dei media, per lo meno quelli internazionali. Così facendo, è diventato, se non “l’unico”, almeno “il più cattivo”, facendo passare in terzo piano, oppure ignorando direttamente, tanti altri attori che massacrano e terrorizzano altrettanto.

A Baghdad, Mosul, Kirkuk, Ramadi, Tikrit, Falluja, Sinjar, Duhok, Erbil e Sulaymanhia, per citare alcune tra le città irachene più importanti, si sta giocando tanto del futuro di uno Stato che mai dalla sua indipendenza è stato così fragile.

In Iraq, nell’ultimo anno, ufficialmente le autorità hanno dichiarato la liberazione delle città di Sinjar, Ramadi e Falluja. Poco, tuttavia, si sa dello stato attuale di queste città, tutt’ora ridotte a cumuli di cemento armato e scheletri di case che probabilmente non rivedranno più i loro proprietari.

A Sinjar poco o nulla è cambiato da quando a novembre il presidente della regione semi-autonoma del Kurdistan, Masud Barzani, ha dichiarato l’area “finalmente liberata dai peshmerga (milizie curdo-irachene, ndr)”.

Allora il presidente parlava da un palchetto affollato di microfoni, su una collina del monte Sinjar. La città non si vedeva neanche, ma forse era meglio così, altrimenti si sarebbero viste le tante bandiere che sventolano sulla città, ognuna rappresentante una diversa milizia o partito, a difendere il proprio “potere” su una città di macerie, dove niente è stato ricostruito.

Perché di potere si parla, soprattutto a Sinjar, dove oltre ai peshmerga, rappresentanti gli interessi e le mire espansionistiche di Barzani, ci sono il PKK (Partito curdo turco dei lavoratori), le YPG (milizie curdo siriane, braccio armato del PYD) e le milizie ezide delle HBS (Unità di liberazione del Sinjar). Per non parlare anche di milizie minori di formazione arabo-sunnita, cristiana e turcomanna.

Ognuna con la propria agenda, che prevede diverse possibilità di alleanze a seconda dei tempi e delle occasioni, sotto un cielo osservato dalla Coalizione internazionale a guida americana e un governo iracheno che da quelle parti non si vede da una decina di anni, e né si farà vedere a breve. “Non siamo ancora riusciti a tornare a casa, e chissà quando riusciremo a farlo”: è il pensiero comune di tanti iracheni sfollati di Sinjar, oggi residenti a Duhok. “Daesh ci ha massacrati, e siamo scappati. Ma i conflitti che si stanno preparando saranno forse peggiori”.

A Ramadi la situazione è poco diversa. “Ordigni inesplosi e macerie fanno sì che la gente abbia troppa paura di tornare. Serviranno ancora mesi, anni, per rifare della città un posto sicuro dove vivere”, ha dichiarato Peter Maurer, presidente della Croce Rossa Internazionale, ad Al Jazeera, che ha riportato un video che lascia poco spazio all’immaginazione. Macerie prodotte dagli attacchi dell’esercito iracheno che ha messo in fuga i miliziani di Daesh nel dicembre 2015, che a loro volta nel maggio dello stesso anno avevano conquistato la città senza colpo ferire.

Allora erano state le Special Operations, unità speciali dell’esercito iracheno addestrata sofisticamente dagli Stati Uniti sin dal 2003, ad abbandonare il campo, lasciando soltanto centinaia di gruppi paramiliari sciiti a difendere la città. Che avrebbero abbandonato Ramadi poco dopo, data anche l’assenza del supporto aereo della Coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti. Un generale dell’esercito denunciò il suo sgomento all’emittente Rudaw, ma non se ne fece nulla, così come nulla si sta facendo per la ricostruzione della città. Non è chiaro infatti chi, come e cosa la possa controllare e governare.

Si ricordi che Ramadi ha fatto parte di quelle aree a maggioranza sunnita marginalizzate dalle politiche confessionali dei governi al-Maliki (2005-2014), in cui ora l’amministrazione centrale di Baghdad a fatica riesce a fare presa sui poteri tribali, che a loro volta non le riconoscono un’autorità legittima.

Perché la popolazione civile, soprattutto quegli oltre 3 milioni di sfollati in tutto il paese, costretti a fuggire dalla furia di Daesh, hanno poco da fidarsi di chi imbraccia le armi. Soprattutto se non fa parte di un esercito, quello iracheno, a sua volta screditato e considerato il risultato di interessi “della maggioranza sciita”, e bensì rispondente ad interessi esterni. Come quelli dell’Iran, che in Iraq ha più di un piede: per la precisione quelli delle milizie Ashad al-Shabi (Mobilitazione Popolare), finanziate, addestrate e plasmate sotto la guida di Qaseem Sulaimani, colui che non pochi iracheni ritengono, con rassegnazione e ironia, il “vero primo ministro” in Iraq. Capo delle unità Qods, parte delle Guardie Rivoluzionarie dell’Iran, c’era anche luiFalluja nei giorni precedenti la sua liberazione.

Una liberazione che, tuttavia, non può definirsi realmente tale, dato che a Falluja la gente non sapeva da chi scappare prima, se da Daesh o dai cosiddetti “liberatori”.
Che ufficialmente corrispondevano solo all’esercito iracheno e alla Coalizione internazionale, ma che in pratica hanno visto anche la partecipazione di diverse milizie sciite alleate con Baghdad, che durante l’operazione hanno circondato la città per penetrarvi al centro e nei villaggi circostanti.

Secondo le drammatiche testimonianze raccolte da funzionari ONU, “coloro che chiedevano acqua e cibo a chi si presentava con la bandiera dell’Iraq, sono stati strangolati, picchiati e almeno 50 sgozzati”. La fuga disperata e in massa di centinaia di persone attraverso l’Eufrate è una delle immagini tragiche di un’altra operazione militare destinata a lasciare strascichi pesanti nel lungo termine; nel breve, è un’altra città ridotta in macerie, senza i suoi abitanti (sfollati altrove), a chiedersi se domani avranno del pane e dell’acqua, prima ancora di una casa.

Tikrit, come Falluja, dove le milizie sciite trascinavano in moto corpi morti di miliziani di Daesh o innocenti civili nell’aprile 2015, anche in questo caso dopo un’operazione di “liberazione”. Kirkuk come Sinjar, dove una proposta per uno statuto di regione indipendente potrebbe mettere fine alle decennali dispute tra interessi curdi, turcomanni e cristiani. E infine a Duhok, Erbil e Sulaymanhia, come se non bastessero già i conflitti “trans-curdi”, visibili a Sinjar, ma che si svolgono anche in Siria, Turchia e Iran, si gioca la più grande partita per il potere nel Kurdistan iracheno.

Con una crisi economica senza precedenti, quasi 1 milione tra sfollati interni e rifugiati siriani, un presidente illegittimo contestato o amato a seconda della relativa provincia-roccaforte, i conflitti non mancano, e si fanno sentire.

E potrebbero farsi sentire presto ancora di più, e con più forza. L’occasione sarà la “liberazione” di Mosul, conclamata, ricercata e preparata da oltre un anno e ormai prossima alla sua sterzata decisiva. Ma la cui preparazione in termini umanitari sta facendo i conti con le dispute tra autorità curde e irachene, nello specifico tra le province di Duhok e Ninive.

Se i curdi hanno rifiutato più volte di accogliere una nuova ondata di sfollati (da Mosul e dintorni, fuggirebbero dai 500mila fino a 1,5 milioni di persone), il governatore di Ninive deve fare i conti con i delicatissimi equilibri che esistono nelle zone liberate un anno fa da Daesh.

Nel distretto di Talafar, in particolare tra le aree di Rabia e Zummar, la zona è tutt’altro che pacificata, con villaggi ancora interamente distrutti, mentre su quelli rimasti ancora in piedi pesano, anche qui, le contese tra curdi e il governo centrale. Operatori umanitari che lavorano in quelle aree raccontano di popolazioni arabe, curde, turcomanne, ezide e cristiane intrappolate in questi conflitti. In pratica, a seconda delle armi che controllano il villaggio, a scuola si studia già un certo tipo di storia o geografia, frutto di una particolare scelta politica, che può essere diversa a soli 5 chilometri di distanza.

In barba alle conseguenze umane che vi saranno, specialmente per una generazione di iracheni che forse ha conosciuto Saddam solo di striscio, e che per il resto vede soltanto un gran caos tra le righe dei libri di scuola e la realtà.

Similmente, è questo ciò che risulta dall’Iraq di oggi. E’ questo ciò che vedono anche i manifestanti a Baghdad e altrove nell’ultimo anno.

Sono per lo più giovani, alcuni di loro erano in piazza anche nel 2010, e soprattutto nel 2011, quando per il mondo la primavera era solo in Egitto e Tunisia. Sono cresciuti con la speranza di una nuova era, un Iraq senza un dittatore che finalmente avrebbe riportato ricchezza e futuro, per poi realizzare che le promesse di libertà a stelle e strisce erano invece presagio di nuove guerre.

Baghdad ne è il simbolo: una mappa realizzata dal giornalista Alexander C. Kaufman mostra tutti i punti colpiti della città da attacchi bomba dal 2003. Un’epidemia che non risparmia nulla, che però gli iracheni affrontano a viso aperto. Dopo l’attentato di Karrada, il peggiore che Daesh abbia fino ad ora realizzato ovunque nel mondo, la reazione della popolazione è stata immediata: file per donare il sangue, gruppi di giovani a ripulire le strade, fiaccolate di solidarietà in tutto il paese, con persone di ogni religione e credo.

“E’ la normalità vivere con la possibilità di essere coinvolto in un’esplosione, ed è la normalità che gli iracheni siano uniti al di là delle differenze”, ricorda E., che in un attentato ha perso il suo più caro amico ed è rimasto invalido alla gamba destra.

“Non abbiamo paura, non abbiamo più nulla da perdere”, dichiara invece un ragazzo di Baghdad che ha preso parte alle manifestazioni di venerdì, guidate e chiamate a gran voce dal leader sciita Moqtada al-Sadr. “E’ dura, e sarà ancora più dura nei prossimi mesi. Il governo non risponde alle richieste della piazza, e al-Sadr ha la capacità di influenzare totalmente le manifestazioni. I suoi seguaci, tantissimi, seguono alla lettera le sue indicazioni”, afferma preoccupato.

“Ma noi siamo tutti qui. Laici, sciiti, sunniti o di qualsivoglia religione. Siamo qui ad urlare per la libertà e il cambiamento”.

da Osservatorio Iraq (17 luglio 2016)