Dunque il Monte dei Paschi di Siena è “salvo”? E, se sì, può essere questa la svolta decisiva della crisi bancaria italiana? Se la risposta alla prima domanda è assolutamente prematura, quella alla seconda è un rotondissimo no. Ma c’è un’altra domanda. Nel caso il salvataggio si concretizzi, quale sarà il nome del proprietario della nuova good bank? Non sarà, per caso, quello di JP Morgan?
La paura fa novanta, e gli oligarchi della finanza si son dati da fare ad architettare una via d’uscita da una situazione che rischiava di avere pesanti ripercussioni su tutto il settore bancario. Idem i decisori politici, semplicemente atterriti all’idea di dover applicare il bail in – che pure hanno approvato in sede europea – alla quarta banca italiana.
Insomma, Mps è stata considerata da tutti costoro Too big to fail, anche se nel caso non di fallimento si sarebbe trattato, bensì (come si dice nell’insuperabile eurocratese) di una “risoluzione“. Il problema è che il conto di queste “risoluzioni” (vedi il caso delle quattro banche “risolte” l’autunno scorso) spetta oggi a chi possiede obbligazioni, in primo luogo quelle subordinate.
Il governo si è dunque preoccupato dei risparmiatori che sarebbero stati colpiti? In parte sì, perché un simile esito avrebbe tolto altri consensi ad un Renzi già in affanno. Ma la preoccupazione maggiore è stata un’altra, quella del cosiddetto “contagio”. Non solo l’applicazione del bail in ad Mps avrebbe determinato perdite vistose (nell’ordine di qualche miliardo) agli investitori istituzionali (altre banche, assicurazioni, fondi), ma avrebbe fatto crollare il valore dei bond emessi dagli altri istituti di credito, con un effetto a cascata difficile da valutare ma certamente imponente.
Il Sistema (con la maiuscola) – intendendo con tale termine l’insieme (spesso intrecciato) dei poteri economici e politici – ha dovuto perciò reagire. Prima con la ricerca di una scappatoia che consentisse un intervento pubblico in deroga alle norme europee, poi, vista l’indisponibilità della Commissione Europea, con la predisposizione di un piano che viene pomposamente definito di “mercato”, ma che ha come protagonisti alcuni dei principali avvoltoi della finanza internazionale.
E siccome un siffatto “mercato” piace assai dalle parti di Francoforte, ecco che gli uomini di Draghi hanno dato l’atteso via libera ad un’operazione che, più che a Siena od a Roma, sembra concepita a New York. Per l’esattezza all’indirizzo di Park Avenue 270, dove si trova il quartier generale di JP Morgan, una delle più grandi banche d’affari del mondo.
Già, JP Morgan, quella simpatica istituzione che in un rapporto del 28 maggio 2013 si premurò di definire le costituzioni nazionali del Sud Europa come «inadatte a favorire la maggiore integrazione dell’area europea», a causa di una «forte influenza delle idee socialiste» e di una «licenza di protestare» che proprio non si attaglia ai tempi dell’attuale dittatura finanziaria. Insomma, come compagni di strada, sulla via del referendum costituzionale, Renzi non avrebbe potuto trovarne di migliori.
Ma torniamo ad Mps, cercando di mettere a fuoco 5 aspetti: 1. come si è arrivati al piano attuale, 2. l’architettura della cessione degli npl, 3. le incertezze della ricapitalizzazione, 4. il permanere delle ragioni di fondo della crisi del sistema bancario italiano, 5. la probabile fine non solo della “senesità” del Monte, ma pure della sua italianità.
1. Come si è arrivati al piano attuale
Abbiamo già visto sommariamente le ragioni che hanno portato al piano approvato dal cda di Siena venerdì scorso. In generale, l’enorme mole di sofferenze (d’ora in poi, per comodità, npl) detenute dalla banca era ormai insostenibile. A riprova di ciò il crollo borsistico nei primi sette mesi dell’anno (-74,98%). Ma la botta decisiva è arrivata dall’Europa. A giugno la letterina della Bce con la richiesta di cedere 10 miliardi di npl; a luglio il disastroso esito degli stress test, che hanno collocato Mps di gran lunga all’ultimo posto nella graduatoria della solidità (si fa per dire) delle maggiori 51 banche dell’Unione.
Agli inizi di luglio si è perciò iniziato a parlare insistentemente di un salvataggio da parte dello Stato. E’ quindi cominciata una dura trattativa con la Commissione Europea. Mentre il governo italiano ipotizzava un intervento pubblico nella necessaria ricapitalizzazione, ma senza far scattare il bail in, dunque con una deroga alle norme dell’Unione Bancaria; da Bruxelles si è risposto con un fermo no ad una simile possibilità. Di questo scontro, e della successiva ritirata italiana, la stampa nazionale ha preferito riferire in maniera alquanto soft, sia per non presentare un’immagine troppo arcigna dell’Europa, sia per non dover scrivere di un Renzi con la coda tra le gambe. Ciò non toglie che le cose siano andate esattamente in questo modo.
Ecco allora che è spuntata come un fungo la cosiddetta “soluzione di mercato”, che proprio di “mercato” non è – come vedremo, il ruolo dello Stato c’è eccome -, mentre che sia davvero una “soluzione” ce lo dirà solo il tempo. Già, il tempo. Mai dimenticarlo, perché in effetti l’unica cosa certa è che lorsignori ne hanno guadagnato un altro po’. Nell’ottica di Renzi quello che gli serve per arrivare indenne al referendum…
2. L’architettura della cessione degli npl
Vediamo ora l’architettura del “piano di salvataggio”. I tasselli che lo compongono sono davvero tanti, ma all’ingrosso esso si compone di due fasi. La prima consiste nella cessione degli npl, la seconda nella ricapitalizzazione. Questo ordine temporale non è certo casuale, dato che senza la ripulitura del bilancio dagli npl la ricapitalizzazione sarebbe destinata ad un sonoro fallimento.
Secondo il piano la cessione degli npl dovrà avvenire entro l’anno. Una tempistica brutale, ma garantita in parte da un prestito ponte da 6 miliardi di JP Morgan. Il valore lordo del blocco di npl in vendita è di circa 27 miliardi, ma siccome il prezzo stabilito è pari al 33%, gli acquirenti dovranno sborsare 9,2 miliardi.
Questa montagna di crediti in sofferenza verrà acquisita da una società veicolo – una cosiddetta Spv, Special purpose vehicle, un tipo di società che viene creata appositamente per le operazioni di cartolarizzazione. Gli npl verranno infatti cartolarizzati, con l’emissione di bond suddivisi in tre tranche, corrispondenti ai tre diversi livelli di rischio individuati.
La tranche senior, quella meno rischiosa, perché rappresentata da crediti coperti da garanzie immobiliari, potrà giovarsi della Gacs (Garanzia cartolarizzazione sofferenze). In pratica lo Stato garantisce i bond emessi a copertura di questa tranche, in cambio del pagamento di una cedola periodica al Tesoro. Questo strumento, già predisposto nei mesi scorsi, ha avuto l’approvazione della Commissione Europea, che non classificandolo come “aiuto di Stato” evita l’applicazione del bail in. Nel caso di Mps il valore di questa tranche è pari a 6 miliardi di euro.
La seconda tranche, quella intermedia, chiamata appunto mezzanina, vale invece 1,6 miliardi e verrà sottoscritta interamente dal Fondo Atlante II, che dovrà essere rapidamente finanziato allo scopo. Si tratta di un pacchetto di crediti assai più rischioso del primo, coperti in genere da garanzie personali. Siccome il prezzo medio di vendita degli npl previsto nel piano (33% del valore nominale dei crediti) è nettamente superiore al valore di mercato, che si posiziona attorno al 20%, è evidente che Atlante II si espone al rischio di perdite anche rilevanti. Questo rischio viene parzialmente compensato al Fondo con l’assegnazione di warrant, che se esercitati darebbero ad Atlante II il 7% delle azioni di Mps post-ricapitalizzazione. E’ da notare che il finanziamento di Atlante II avrà almeno in parte una natura pubblica, visto che vi contribuirà in maniera decisiva la Cassa depositi e prestiti, controllata all’80% dal ministero dell’economia.
La terza tranche, la junior, costituita dai crediti peggiori (quelli privi di qualsiasi garanzia), andrà invece agli attuali azionisti.
Fin qui la prima fase di ripulitura dagli npl. Una ripulitura però ancora parziale, e da completarsi con un’altra operazione di copertura sui crediti deteriorati che rimarranno in pancia ad Mps (circa 20 miliardi lordi). Con la cessione di cui ci siamo fin qui occupati, Mps si porterebbe ad un rapporto tra npl e totale crediti residui pari al 19%, un livello ritenuto accettabile e comunque allineato con la media delle altre banche italiane. Il fatto è che questi npl residui sono sopravvalutati nel bilancio della banca. Da qui la necessità di aumentare le coperture sia sulle rimanenti sofferenze in senso stretto, sia sulle altre tipologie di npl.
In base al prezzo del 33%, le sofferenze residue dovranno avere una copertura del 67%, con un costo aggiuntivo di un miliardo. Gli altri tipi di crediti deteriorati, quelli che un tempo venivano chiamati “incagli” ed oggi vengono suddivisi in “inadempienze probabili” ed “esposizioni scadute”, avranno invece una copertura del 40%, con un costo di 2,2 miliardi.
La somma di queste coperture (3,2 miliardi), più la differenza tra il prezzo di cessione dei 27 miliardi lordi di npl (33% rispetto al 40% iscritto a bilancio, che fa esattamente 1,8 miliardi) ci porta appunto alla cifra di 5 miliardi, che è quella della prevista ricapitalizzazione di cui ci occuperemo al punto successivo.
3. Una ricapitalizzazione incerta, ma JP Morgan…
Tecnicamente la fase della ricapitalizzazione è la più semplice a capirsi. Praticamente è quella dove potrebbero determinarsi i maggiori inciampi. Ripulita la banca dagli npl, si tratterà di trovare 5 miliardi e di farlo entro il gennaio 2017.
A leggere certi giornali sembrerebbe una cosa tranquilla e comunque garantita da un pool di banche di prim’ordine. Ma è davvero così? Non sembra proprio. Nella primavera scorsa in tanti commentatori economici scommettevano sull’appetibilità delle nuove azioni della Banca Popolare di Vicenza e di Banca Veneto. Secondo costoro la garanzia di Atlante I era sufficiente ad attrarre nuovi investitori, ed i soldini del fondo sarebbero forse rimasti tutti in cassa. Risultato? Sottoscrittori pari a zero ed Atlante I che ha sborsato l’intero importo delle ricapitalizzazioni per un totale di 2,5 miliardi. Come precedente niente male.
Ma, si dice, la nuova Mps sarà una vera good bank. Peccato lo si dica anche delle 4 “nuove” banche uscite dalla “risoluzione” del novembre 2015 (Banca Etruria, CariChieti, Banca Marche, Carife). Ricapitalizzate con 3,6 miliardi, ripulite dagli npl, non le vuole comunque nessuno. Messe recentemente all’asta per ricavarne almeno un valore pari alle risorse spese, hanno ottenuto solo due offerte da 500/600 milioni dai fondi speculativi Apollo e Lone Star. Non proprio un buon auspicio per Mps.
D’accordo, si può replicare, ma qui c’è la garanzia di un corposo consorzio di banche, costituito da autentici giganti del settore. Apparentemente le cose sembrerebbero stare in questo modo. Il consorzio è infatti formato da JP Morgan e Mediobanca (che fungono da coordinatori), Santander, Bofa Merrill Lynch, Citigroup, Credit Suisse, Deutsche Bank e Goldman Sachs. Otto giganti, ed altri, si dice, potrebbero aggiungersi. Tralasciando adesso il significato di tanti avvoltoi sulla preda, di cosa preoccuparsi rispetto alla ricapitalizzazione?
Già domenica scorsa il Sole 24 Ore chiariva che nelle lettere firmate da queste banche «ci sarebbero però diverse condizioni sospensive: dall’obbligo per Mps di vendere le sofferenze fino alle consuete “mac clause”, cioè clausole che consentono una via di fuga alle banche in caso di situazione avversa di mercato». Insomma, la ricapitalizzazione non è affatto garantita dalle otto banche con una somma pro-quota di poco più di 600 milioni, come hanno scritto in tanti. La garanzia ci sarebbe, ma fortemente condizionata ad una serie di requisiti che in tutta evidenza conoscono per intero solo i soggetti direttamente coinvolti.
Più pessimista (e, sembrerebbe, più informato) Federico Fubini sul Corriere della Sera di ieri: «Nessuna delle banche dell’affollatissimo consorzio, per ora, ha garantito che comprerà le azioni di Montepaschi nel caso in cui nessuno le volesse. Da parte di JP Morgan e delle altre c’è oggi solo un impegno a fare il “massimo sforzo” a trovare investitori. Questo significa che il rischio che l’aumento di capitale non vada in porto e debba intervenire il governo, con una sforbiciata sui creditori di Siena, formalmente non è ancora eliminato (…) L’operazione resta dunque sul filo, anche se non è mai accaduto negli ultimi decenni che Jp Morgan abbandonasse un incarico del genere senza condurlo in porto».
Qual è il problema? E’ – lo dice Fubini, ma è facile essere d’accordo – che non sarà semplice trovare acquirenti per una banca che dal 2014 ha bruciato 8 miliardi di capitali freschi e che oggi vale solo 900 milioni. L’articolista accenna al possibile interessamento di importanti istituti cinesi, mentre tralascia pudicamente l’ipotesi di un interesse di qualche banca d’affari americana. D’accordo, Jp Morgan e le altre consorelle incasseranno cospicue commissioni per il loro lavoro, ma siamo certi che il vero interesse della banca newyorkese non sia invece quello di mettere le mani su Mps alle migliori condizioni possibili?
Del resto i legami tra Renzi e JP Morgan sono noti a tutti (leggi, ad esempio, QUI). Non solo il premier ha incontrato l’amministratore delegato della banca americana, Jamie Dimon, agli inizi di luglio, ma centrale sembrerebbe il rapporto con il capo italiano della stessa, il fiorentino Francesco Rossi Ferrini. Costui viene definito da La Stampa come un uomo «vicino ad alcuni esponenti del Giglio magico come Marco Carrai».
Ora noi non possiamo sapere come finirà la vicenda della ricapitalizzazione, ma i casi più probabili ci sembrano due: o finisce male, come adombra il preoccupato Fubini (che se non altro ha l’onestà di riconoscere che il problema è il fosco panorama economico in cui avviene l’operazione), o sarà JP Morgan a fare la parte del leone. In fondo, il marchio della banca senese, insieme ad un bilancio ripulito con garanzie pubbliche, può far gola anche a New York.
Insomma, la “soluzione di mercato” o non esiste proprio, o se esiste ha un altro nome: JP Morgan. Ma anche in questo secondo caso si tratterebbe di un “mercato” ben assistito dallo Stato.
4. La profondissima crisi del sistema bancario italiano (altro che “svolta”!)
Che la situazione del sistema bancario nazionale sia gravissima ce lo dice proprio la “soluzione” adottata per Mps. Già il modo in cui vi si è arrivati, con un piano approvato dalla Bce lo stesso giorno in cui è stato annunciato il disastroso esito degli stress test, ci parla ancora una volta di un’affannosa corsa contro il tempo. L’ennesimo rattoppo. In tutta evidenza l’esatto contrario di un piano organico in grado di affrontare l’emergenza bancaria.
Il fatto è che un simile piano – basato necessariamente, a nostro avviso, su un programma di nazionalizzazione del settore – è semplicemente impossibile senza rompere unilateralmente con l’Unione Bancaria. Di più, è impossibile senza riconquistare la sovranità monetaria. Ma su questo abbiamo scritto tante volte e non insistiamo.
In questi giorni si vorrebbe far credere che quello di Mps diventerà un modello per uscire dalla crisi bancaria in una logica di mercato. Si tratta di una bugia condita con diverse menzogne. La verità è che se davvero si credesse al mitico “mercato”, l’unica soluzione per Mps sarebbe stato il fallimento. O, al limite, la piena applicazione del bail in. Si è visto invece il terrore delle oligarchie finanziarie di fronte anche all’ipotesi minimalista di un’applicazione parziale del bail in alle sole obbligazioni subordinate detenute dagli investitori istituzionali.
Come mai questo terrore? Perché, altra bugia, non è affatto vero che Mps sia l’unica mela marcia in un bel cestino di frutta sana ed attraente. Nell’articolo che abbiamo già citato, Fubini paragona significativamente le incognite che incombono da un lato su Mps, dall’altro sull’intero sistema bancario, a quelle che l’allora ministro della difesa americano Donald Rumsfeld indicava negli anni della Resistenza alle sue truppe di occupazione in Iraq: «Rumsfeld distingueva fra le incognite ben note per le quali non abbiamo ancora risposte, e quelle delle quali per il momento non conosciamo neppure l’esistenza».
Dopo questo incipit, Fubini conclude con un esempio concreto sulla fragilità del sistema bancario nazionale: «Proprio in queste settimane un altro istituto fragile, la Popolare di Vicenza, sta cercando il modo di liberarsi dei suoi crediti in default. Se il modello di Siena si applica anche altre aziende di credito, come probabile, allora anche Vicenza dovrà riconoscere forti perdite e trovare ancora nuovo capitale diluendo il valore delle quote del fondo Atlante che oggi la controlla. E altri casi simili sembrano dietro l’angolo. Dopo tutto anche l’Iraq è stata una campagna più lunga di quanto Rumsfeld, con il calcolo delle incognite, fosse mai riuscito a prevedere».
La conferma di tutto ciò è arrivata già ieri dalla Borsa di Milano. L’apparente paradosso delle azioni Mps che salgono sia pure di poco (ma già oggi hanno ripreso a perdere alla grande), mentre quelle delle altre banche crollano (interessanti il -9,40 di Unicredit ed il -6,20 di Ubi Banca) ha una sua razionale spiegazione. Quello di Mps è un modello? Bene, aldilà della scarsa probabilità di replicarne il piano di salvataggio, questo significa che il livello delle coperture sugli npl adottato dalla banca senese diventa un punto di riferimento – un benchmark si dice oggi – per gli investitori che contano, per i fondi in primo luogo. Che quindi, mettendo nel conto le inevitabili ricapitalizzazioni, cominciano da subito a vendere le azioni in loro possesso.
Qual è la dimensione del problema? Ce lo dice uno studio di Mediobanca realizzato a caldo. Applicando la “cura” Mps alle altre banche avremmo ad esempio che Unicredit dovrebbe aumentare le coperture dal 52 al 58%, Intesa Sanpaolo dal 47 al 57%, Ubi dal 28 al 54%, Banco Popolare dal 34 al 54%. Si tratta di miliardi. Tanti.
Solo per portare al 40% le coperture sugli “incagli” serviranno all’ingrosso circa 20 miliardi. Ecco cosa scrive in proposito stamattina sul Sole Morya Longo: «La vera sorpresa riguarda proprio gli incagli. Sulle banche italiane gravano infatti 140 miliardi di incagli lordi, iscritti in bilancio con tassi di copertura ben inferiori rispetto al 40% fissato per Mps. Nel bilancio 2015 Unicredit li copre al 34,4%, Intesa al 24,8%, Ubi al 16,71%, il Banco Popolare al 25,44% e Bpm al 22,1%».
Che il problema sia ben concreto, aldilà delle fisiologiche montagne russe della Borsa, ce lo dicono le voci su Unicredit, che prevedono la necessità di un aumento di capitale come minimo da 6/7 miliardi. E già questo dovrebbe essere più che sufficiente a chiarire che il problema delle banche italiane non si chiama solo Mps.
Si profila dunque una lunga sequenza di ricapitalizzazioni. Ma da dove verranno i soldi? Salvo casi particolari, ben difficilmente dagli investitori privati. Avremo allora tanti bail in in serie come prevedeva (ed addirittura auspicava) il consigliere economico della Merkel, Lars Feld, nel dicembre scorso?
Vedremo, di certo ‘a nuttata delle banche italiane sembra ancora all’inizio. Del resto c’è un dato di fondo da non dimenticare mai. Non è un caso che il primo problema degli istituti di credito nazionali sia rappresentato dagli npl. Questi ultimi altro non sono che una delle spinose conseguenze di una crisi economica interminabile. Che, essendo ben lungi dalla mitica luce in fondo al tunnel, continuerà senza dubbio ad alimentare il problema anche nel prossimo futuro.
Ecco che torniamo così a bomba, alla crisi, alle sue ragioni, a quei potenti elementi del suo aggravamento ed incancrenimento che si chiamano euro ed Unione Europea.
5. Altro che “senesità”! In discussione è la stessa italianità del Monte
In questi anni ci è capitato tante volte di leggere della fine della “senesità” di Mps. Una fine che non data da oggi, ma che con l’ultimo piano di salvataggio avrà la definitiva sepoltura. In cosa consistesse la “senesità” della banca è racchiuso in una cifra, i 2,2 miliardi riversati sul territorio senese dalla Fondazione Mps dal 1996 al 2013, arrivando ad incidere sul pil provinciale nella misura del 3%.
Poi, con la crisi, le cose sono cambiate. La Fondazione, che fino al 2011 controllava oltre il 50% della banca, si è stufata delle continue ricapitalizzazioni (nelle quali ha bruciato a vuoto circa 5 miliardi) ed oggi possiede solo l’1,49% delle azioni Mps, per un controvalore di 13 milioni. Adesso, con un patrimonio ridottosi a 500 milioni, la Fondazione non ha alcuna intenzione di partecipare al nuovo aumento di capitale. Un altro e definitivo capitolo della fine della “senesità” di Mps.
Ma se possiamo capire i senesi, quel che sembra profilarsi oggi è qualcosa di ancora più grande: la fine della stessa italianità del Monte. Già il fatto che tra le 8 banche del consorzio incaricato della ricapitalizzazione una sola (Mediobanca) parli italiano, la dice lunga su ciò che potrebbe accadere.
Ma ancor di più ci dice il ruolo tuttofare degli uomini di JP Morgan. Chi scrive non può sapere come andranno a finire le cose, e quanto fin qui detto ci parla delle difficoltà dell’intera operazione. Tuttavia, ben sappiamo come nelle crisi qualcuno faccia affari. E come in genere il pesce grosso mangi quello piccolo. Il boccone Mps può contenere lische insidiose, ma alla fine potrebbe rivelarsi interessante per chi ha una strategia di lungo periodo e nel frattempo – avendo il coltello dalla parte del manico – potrà agire in modo da strappare tutte le migliori condizioni possibili.
Se andrà così avremo la conferma di quanto abbiamo detto più volte. Le politiche europee, mettendo in ginocchio l’economia di intere nazioni, preparano il terreno ad acquisizioni estere in tanti settori. Tra questi, quello bancario è certamente in prima fila.
Vedremo i prossimi sviluppi, ma è bene sapere da subito che il rischio di una chiusura del cerchio targata JP Morgan esiste, essendo di fatto la più probabile delle alternative al semplice fallimento dell’operazione messa in piedi.