Tutto come previsto. Le oligarchie euroatlantiche stanno con Renzi e iniziano a giocare la carta del terrore
Un mese fa, provando a fare il punto sulla battaglia referendaria, scrivevo:
«Possiamo invece stare certi sul sostegno di Bruxelles, Berlino e Parigi in quella che si annuncia come l’ennesima compagna terroristica. Renzi cioè – e questa è la sua vera carta europea – non verrà lasciato solo nella sua battaglia referendaria. E siccome – Brexit insegna – l’unica arma di persuasione che è rimasta al blocco dominante è la paura, è lì che batteranno all’unisono tutti i media mainstream. In altre parole, il referendum costituzionale diventerà “europeo” e non solo italiano, e Renzi avrà con sé tutto il pattume che alberga nelle cancellerie dell’Unione. Che poi gli giovi è tutto da vedere, ma questa sarà la partita».
Adesso, proprio nei giorni di Ferragosto, abbiamo avuto la conferma. Come si può leggere in un articolo riassuntivo di Federico Rampini, dopo l’Economist, stanno entrando a gamba tesa nella campagna referendaria italiana i pesi massimi della stampa mondiale da sempre al servizio dei grandi poteri oligarchici: Wall Street Journal, New York Times, Financial Times, El Pais.
Il referendum italiano è «probabilmente più importante di Brexit». Così il Wall Street Journal ha sintetizzato la ragione di tanto interesse per il voto d’autunno. Chi ancora pensasse – e ce ne sono ancora, perché opportunismo e stupidità sono merci che non mancano mai – che il dibattito referendario possa svolgersi in ovattati salotti, tra persone eleganti che sorseggiano tè mentre disquisiscono dell’articolo 70 della Costituzione, è avvertito. Non andrà così. La posta in gioco è troppo alta, ed i toni saranno di conseguenza altissimi.
Perché per le classi dominanti euroatlantiche il referendum costituzionale è così importante? Almeno per quattro motivi: il primo è che Renzi è un loro uomo, il secondo è che le sue politiche sono improntate ai dogmi del neoliberismo, il terzo è che la crisi dell’Unione Europea si arricchirebbe di un ulteriore tassello, il quarto è che si tratterebbe (dopo la Brexit) dell’ennesima sconfitta delle èlite, cioè di una loro sconfitta.
Lorsignori, a differenza degli ipocriti della minoranza piddina, sanno che se vince il No il governo cade, inaugurando una fase politica nuova ed aperta a diversi sviluppi. La qual cosa a loro proprio non piace. Da qui la scelta di inviare gli abituali messaggi terroristici, secondo i quali la vittoria del No – e soprattutto la cacciata di Renzi – aprirebbe la strada ai soliti scenari catastrofici: recessione, crisi bancaria, crisi del debito. Come se questi scenari non fossero una realtà già oggi, a politiche renziane pienamente dispiegate…
La carta della paura comincia dunque ad essere giocata a piene mani. D’altronde altri argomenti davvero forti non ne hanno. Significativo, però, che il gioco più pesante arrivi dall’estero e dai soggetti che abbiamo visto.
Avevamo scritto che Renzi avrebbe avuto quegli appoggi e così è in tutta evidenza. Ma da oltreoceano, così come da oltre-Manica, ben si comprende che la campagna del terrore è sì necessaria ma non sufficiente. Occorre dell’altro. Più esattamente, dicono in particolare i due giornali americani, serve un potente stimolo fiscale. E dunque (Financial Times): «Renzi deve lanciare un’offensiva per lo stimolo».
Ecco qui, dopo la centralità dell’arma della paura, la seconda conferma alle nostre tesi. Renzi non può pensare di vincere il referendum solo abbellendo a più non posso la sua controriforma. Certo, il sostegno dei media a reti unificate gli darà una grossa mano, ma non potrà bastare. Occorre che alla paura si leghi una qualche illusione di natura economica.
Il fatto è che lo stimolo fiscale di cui parlano i giornalisti anglosassoni non è compatibile con le norme ed i trattati dell’Unione Europea. Di più, non è compatibile con le gerarchie politiche dell’attuale euro-germania. Che è però l’unica Unione Europea realmente esistente. Lo stimolo fiscale di cui si parla richiederebbe infatti la messa in campo di un preciso binomio: meno tasse, più investimenti pubblici. Un programma assolutamente irrealizzabile senza sovranità monetaria. Ed oggi semplicemente impronunciabile nel contesto europeo.
Da qui il difficile barcamenarsi di Renzi. Il fiorentino non può (e non vuole) rompere con Bruxelles, ma al tempo stesso non vuole (e non può, pena la certezza della sconfitta) rispettare gli impegni di bilancio presi nei mesi scorsi. La risultante di tutto ciò ha il curioso nome di «flessibilità». Ed è attorno a questa parola che gireranno i numeri della prossima finanziaria.
La crescita zero del secondo trimestre 2016 rende più difficili le cose per il governo italiano, ma vista la rilevanza della partita del referendum è possibile che qualche altro decimale venga concesso a Renzi. Di questo parleremo in maniera più precisa nelle prossime settimane. Qui è sufficiente fissare due cose: la prima è che non saranno operazioni di questo tipo a determinare la svolta per l’uscita dalla crisi; la seconda è che, però, la possibilità di spendere qualche miliardo in cerca di consensi potrebbe rivelarsi decisiva nelle urne referendarie. Se la prima cosa è fin troppo banale, la seconda ha da essere compresa in tutti i suoi aspetti.
Un fronte del No che non avesse la capacità di criticare a fondo la politica neoliberista di Renzi e dell’Unione Europea, limitandosi a qualche polemica sulle mance elettorali del governo, risulterebbe ben poco efficace e credibile per ampi settori dell’elettorato. Un ragionamento più approfondito su tutto ciò potrà essere fatto solo a fronte delle decisioni concrete che verranno scritte in finanziaria. Ma avere ben chiaro il peso di questo aspetto è necessario fin da subito.
In breve: se il no alla controriforma è nella sostanza un no alla costruzione di un regime, il no a quel regime è anche un no alle politiche economiche e sociali del governo. Ed è un no all’Unione Europea. Dunque se ora Renzi vuole «spoliticizzare» il referendum, il nostro compito è esattamente quello di politicizzarlo al massimo. L’alternativa è la sconfitta.