Vedo un’immagine sconvolgente: quattro omaccioni in divisa e armati che obbligano una donna indifesa a spogliarsi in un luogo pubblico. Non è uno stupro. E’ il laicismo armato che libera una musulmana dalle sue catene in una spiaggia di Nizza, e il tutto davanti allo sguardo indifferente di alcune virtuose repubblicane in bikini.
Così come la polizia saudita perlustra le piazze, adesso la polizia francese perlustra le spiagge per far rispettare la hisba, il precetto religioso che obbliga a “rifiutare il male e imporre il bene”. La Francia repubblicana si è “coranizzata”, si fa guidare dalla sua sharia, cioè la sua legge religiosa, e persegue in modo implacabile qualunque accenno di “islamizzazione”, specialmente quando si tratta di donne, a cui è sempre più facile e piacevole togliere e mettere vestiti.
Abbiamo perso tutta l’estate in un falso dibattito astratto sulla relazione tra la libertà della donna e il numero di indumenti che devono coprire o scoprire il suo corpo. Non è che non sia importante da un punto di vista filosofico e politico capire quando e in che condizioni ci sia vera scelta, quando e in che condizioni una donna si spoglia e si sveste perché lo vuole e non perché cede a pressioni, più o meno esplicite, a seguire modelli comportamentali dettati dagli uomini o in loro favore. Il mercato “libera” e la religione “reprime” e se non si può certo minimizzare la differenza, nemmeno si può negare che tanto il mercato come la religione sono entrambi parassitati dal patriarcato, vittorioso in entrambi i casi. Le cose stanno così, e in un contesto dove il colonialismo esterno e interno si continuano a intrecciare con altre relazioni di potere (e progetti di liberazione), la cosa più facile, più sterile e anche più pericolosa, è chiudersi nella condanna o nella difesa di una forma concreta di patriarcato (il mercato versus la religione), come se fossero realmente opposti e riflettessero, ognuno di fronte all’altro, una maggior volontà o libertà individuale.
La questione è chiaramente politica e democratica e credo che anche da una prospettiva femminista bisognerebbe trattarla così. La questione, in definitiva, è che in una democrazia si dà per scontata la libertà delle scelte individuali nell’assunzione di decisioni pubbliche. Durante secoli – da Kant alla repubblica spagnola – la sinistra ha messo in dubbio il diritto di voto alle donne con il fondato argomento che, in una relazione di dipendenza, la scelta politica delle donne avrebbe necessariamente coinciso con quella dei loro mariti. In un paese come la Spagna attuale, dove la maggioranza vota liberamente per un partito imputato di corruzione, e che ha per di più ridotto all’osso i diritti economici e sociali, accettiamo in ogni caso la validità di ogni voto: sono i limiti di quelle convenzioni che chiamiamo “stato democratico di diritto”, la cui funzionalità e realtà stesse si accompagnano a un “velo d’ignoranza” – si conceda l’espressione – che non sempre favorisce la sinistra.
Lo stesso criterio è applicabile alle pratiche vestimentali. Da un punto di vista istituzionale, in una democrazia non deve importarci – e dobbiamo imporci questa indifferenza – perché una donna copre o scopre il suo corpo, e questo indipendentemente dal fatto che a volerlo sia il mercato, con il suo patriarcato “libertino”, o la religione, con il suo patriarcato repressivo. Quando non c’è violenza esplicita, dobbiamo accettare il velo e il “disvelo” (titolo di una poesia di Jamil Azahawi, un poeta illuminista iracheno che morì negli anni trenta) come espressioni altrettanto libere della volontà individuale.
In una dittatura teocratica come quella dell’Arabia Saudita, si dovrà sostenere qualsiasi donna che volesse togliersi il velo; in una dittatura laica, com’era per esempio quella di Ben Ali in Tunisia, si dovrà sostenere invece qualsiasi donna che volesse metterselo. In una democrazia con stato di diritto, come si suppone sia la Francia, il principio laico è invece trasparente: nessuno – e ancor meno la polizia – può obbligare una donna a togliersi o a mettersi dei vestiti. Sia il bikini sia il burkini sono espressioni inalienabili della libertà repubblicana.
Possiamo fare assai poco per liberare le donne dell’Arabia Saudita, se non denunciare gli ignobili legami dei nostri governi con le loro dittature “amiche”. Possiamo però batterci per difendere il principio della laicità repubblicana nei nostri paesi europei, dove è minacciata dalla religione. Non mi riferisco all’Islam, ma all’islamofobia, un’ideologia che, nel caso della Francia, si è propagata nelle istituzioni, nei partiti politici, nella classe intellettuale e nei mezzi di comunicazione.
L’ho scritto altre volte, citando, per di più, il padre del liberalismo francese, Benjamin Constant, che nel 1815 diceva, con estrema chiarezza: “chi proibisce la religione in nome della ragione è ugualmente tirannico e merita lo stesso disprezzo di chi, in nome di Dio, proibisce la ragione”. A essere “religiosa”, afferma Constant, è la persecuzione stessa. La laicità è un principio giuridico, non antropologico o dottrinale, e consiste semplicemente nel fatto che lo Stato, se vuole davvero essere democratico e repubblicano, deve poter garantire contemporaneamente queste due libertà: deve garantire la libertà di culto di tutti i suoi cittadini e deve garantire che nessun credo o comunità (religiosa o lobbista) s’impossessi delle istituzioni. Se la laicità si traduce in uno strumento di persecuzione, repressione e criminalizzazione di una minoranza nazionale, al punto di giustificare la sospensione di diritti civili fondamentali, la laicità diventa una religione – in questo caso religione di potere come lo è l’Islam wahabita in Arabia Saudita – e quindi, come sostiene Constant, si trasforma in fonte di una nuova tirannia. Le vittime di questa tirannia sono oggi i musulmani e soprattutto le donne.
A una destra che si sente femminista solo nei confronti dell’islam e a una sinistra islamofobica e e con un limitato orizzonte simbolico, incapace di immaginarsi l’altro come un simile, bisogna ricordare che, secondo l’European Network against racism, il 90% delle aggressioni anti-islamiche in Olanda, l’81% in Francia e il 54% in Inghilterra hanno come vittime delle donne musulmane. In Spagna, secondo il resoconto dell’European Islamophobia Report, nel 2015 le aggressioni anti-islamiche si sono moltiplicate per quattro (da 49 a 278 casi) e nel 21% si è trattato di azioni contro il velo. Una tirannia è una tirannia e può cominciare contro la minoranza islamica e le donne velate, ma laddove si rinuncia alla laicità repubblicana e allo stato di diritto in favore di un’ideologia religiosa, anche se si pretende anti-religiosa – o forse perché si pretende tale – tutti noi, come cittadini, siamo in pericolo.
Il “libertinaggio” del mercato e la democrazia repubblicana sembrano scontrarsi con un limite: il burkini, un’invenzione australiana che secondo Aheda Zanetti, proprietaria del prototipo, è una cospicua fonte di benefici commerciali. Magari i nostri Stati fossero davvero laici e repubblicani e reprimessero, con lo stesso ardore, altre lobby e altri generi d’affari: il TTIP, per esempio, o la vendita di armi all’Arabia Saudita o l’accumulo e l’interscambio di incarichi istituzionali. La proibizione del burkini non è solo un attentato contro il libero mercato nella sua più innocente espressione: è un attentato ideologico contro le istituzioni laiche repubblicane che garantiscono il diritto comune delle società democratiche. La sinistra e il femminismo dovranno senz’altro riflettere molto sulla relazione tra volontà, libertà e società, e sulla trasversalità del patriarcato, parassita o scheletro di tutte le relazioni di potere, in un immaginario globale attraversato da relazioni neocoloniali (sia esterne e imperialiste sia interne e di classe). Nel frattempo concentriamoci però sull’immagine di Nizza e le sue minacce. Quattro uomini armati obbligano una donna, seduta e assolutamente inoffensiva, a spogliarsi in pubblico. Non è uno stupro? Sì, è uno stupro. Qui non si tratta della repubblica in armi della Marsigliese, ma dell’Inquisizione religiosa, in versione ufficiale e uniformata, nel paese della Rivoluzione, e del patriarcato armato, accettato e applaudito, nel paese di Simone de Beauvoir. La Francia, come l’Arabia Saudita e lo Stato Islamico, impone norme vestimentali alle sue donne. I governi europei si stanno radicalizzando rapidamente, e questo al prezzo di perseguire, criminalizzare e “giudaicizzare” le proprie minoranze nazionali, di alimentare nello stesso tempo il terrorismo e l’islamofobia dentro e fuori dall’Europa, d’erodere le sue istituzioni laiche e repubblicane e di rinunciare ai suoi sedicenti valori fondanti. La proibizione del burkini è, in realtà, solo un sintomo del crollo dell’Europa.
Il burkini non minaccia la democrazia; la sua proibizione sì. E’ proprio per questo che dovremmo riflettere seriamente sulla fotografia della spiaggia di Nizza. “La mer, la mer toujours recommencée”, scriveva Paul Valery. La laicità sta morendo e il fascismo, come il mare, ricominciando. Non basterà togliersi o mettersi il velo. Se non difendiamo la democrazia, nessuno potrà salvarsi.
da Tunisia in Red
Fonte: http://ctxt.es/es/20160824/Firmas/8011/burkini-Niza-libertad-islamofobia-feminismo.htm
Traduzione di Mario Sei