Mosul: la battaglia e quel che verrà dopo

Le notizie che giungono da Mosul parlano di nuovi intensi combattimenti. Ieri i media occidentali enfatizzavano la cosiddetta “entrata” dell’esercito iracheno nella città. Ma l’esperienza di Tikrit, Ramadi e Falluja (e della stessa Aleppo in Siria) dimostra come tra gli annunci e la realtà ci sia in genere di mezzo una lunga e sanguinosa battaglia.

«Cosa sarà della Mosul “Liberata”?», ci chiedevamo all’inizio dell’offensiva. Pensando al dopo-Mosul, scrivevamo in quell’articolo: «Quello che invece non escludiamo, quello di cui siamo anzi certi, è che il salafismo combattente, ancorché nuovamente sconfitto, come l’araba fenice, risorgerà dalla sue ceneri. Sempre risorgerà, fino a quando l’imperialismo dominerà il mondo, fino a quando miliardi di umani saranno soggiogati e umiliati, fino a quando vivrà l’anelito, sia esso sacro o profano, alla giustizia sociale. Fino a quando l’Occidente non farà orrore a se stesso».

Detto in altri termini: nessun dubbio che a Mosul lo Stato islamico subirà una disfatta. Ma non è da questo esito che l’Iraq (e più in generale il Medio Oriente) avrà pace. Anzi. Sia pure esposta in termini diversi, è questa anche la tesi sostenuta da Joseph Zarlingo in un articolo scritto dall’Iraq il 29 ottobre scorso e che potete leggere di seguito.

***********************************************

Iraq. Mosul, forse Daesh ha già vinto

di Joseph Zarlingo (dall’Iraq)

A Mosul e all’Iraq non basta un intervento esclusivamente militare. Se non ci sarà un`azione politica che risponda ai bisogni di una popolazione martoriata da quarant’anni di violenza, la prossima potrà soltanto essere un’altra delle tante guerre ancora possibili, in Iraq.

Nel clamore e nella frenesia mediatica che sta accompagnando la campagna militare per liberare la città di Mosul (un’operazione di terra di simili proporzioni in Iraq non si vedeva dal 2003), forse Daesh, o il cosiddetto Stato islamico, potrebbe avere già vinto.

Non perché possa realisticamente sopraffare una forza di opposizione che, sommando le eterogenee formazioni in campo, consta di circa 100mila effettivi. A maggior ragione se si è circondati da tutti i fronti, e l’unica possibilità sembrerebbe la fuga verso la città siriana di Raqqa, qualora i miliziani islamisti riuscissero ad eludere le temibili forze paramilitari sciite Hashd al-Shabi, stanziate ad ovest, nel distretto di Tal-Afar.

A livello territoriale, cittadini, analisti, giornalisti ed esperti dell’ultima ora (da anni non si registrava una così grande attenzione internazionale sull’Iraq) concordano infatti che Daesh ha le ore contate.

“I problemi seri però riguardano il dopo”, racconta un cittadino di Mosul, sfollato nella regione del Kurdistan iracheno. “Nuove e tremende guerre scoppieranno, e al posto di Daesh ci sarà un altro nome, un’altra sigla, o forse più di una. E per la popolazione non ci sarà mai pace”. Non è affatto raro sentire questi discorsi in Iraq, da nord a sud, da est a ovest. Ed è altrettanto presente una serie di fatti che provano come il futuro sotto il cielo iracheno appaia oscuro e gravido di incertezze.

Perché Daesh fisicamente potrebbe non esserci più, ma le ragioni, cause e questioni che hanno reso possibile la sua nascita sono lungi dall’essere risolte e potrebbero dare origini a nuove sciagure.

Nelle parole del giornalista Hassan Hassan, per il New York Times, “la guerra contro l’Is (Stato islamico, ndr) non può essere vinta senza riempire il vuoto politico e securitario che quest’ultimo lascerà, e che è presente in troppe aree in Iraq”. E che lo Stato iracheno non è ancora in grado di colmare.

Ne sa qualcosa Jamal al-Mohammedi, cittadino di Falluja che prima del giugno 2014 lavorava come poliziotto. Dopo aver vissuto sotto il controllo di Daesh per 2 anni, oggi insieme ad altre 60mila persone non può tornare nella propria casa. Le forze di sicurezza irachene non lo permettono.

Fa parte, infatti, di una lista di persone “sospette”, che potrebbe essere arrestate in qualsiasi momento.

Al portale di informazione indipendente Niqash, ha dichiarato di non sentirsi al sicuro neanche a Baghdad, dove si trova in condizioni di sfollato interno, e di non sapere “cosa ne sarà del mio futuro e di quello della mia famiglia”. Nel giugno 2014, Jamal e altri 20mila residenti di Falluja erano stati costretti a dichiarare il loro ‘pentimento’ per aver servito per lo Stato iracheno ai miliziani di Daesh. Pena altrimenti l’abitazione distrutta e/o familiari uccisi, e in ultima possibilità la stessa morte.

“Il gruppo dello Stato islamico mi aveva mandato a chiamare tramite un mio parente che si era unito a loro. Mi aveva minacciato dicendomi che se non mi fossi presentato la mia casa sarebbe saltata in aria. Mi avevano fatto avere anche alcune foto di esplosivi piazzati attorno alle case di mio padre e di mio cognato”, racconta.

E’ evidente che Jamal, come tantissimi altri iracheni che si trovano tutt’ora sotto il controllo politico e amministrativo di Daesh, non ha avuto molta scelta. Accettare o morire.

Ma ora che Daesh non c’è più, la diffidenza dei vicini, e in primis dello Stato di cui si è cittadini, sono la realtà con cui convivere. Una sorta di ‘caccia alle streghe’ in cui, purtroppo, l’Iraq non è nuovo risvegliarsi dopo periodi drammatici che vedono la fine. Senza andare troppo indietro con gli anni, si può citare il processo di deebathificazione, avviato dalla Coalition Provisional Authority, l’autorità esterna a guida statunitense che governò il paese per un anno dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, e portato avanti dai successivi governi iracheni di matrice sciita, che mirava all’epurazione di tutti i funzionari statali, a partire dall’esercito, che avevano servito durante la dittatura del Ba’ath.

Il risultato fu che milioni di persone (e in particolare la minoranza sunnita) da un momento all’altro videro il loro status sociale ribaltarsi, nonché perdere sicurezza economica, politica e fisica.

Con grande sorpresa il mondo realizzò che quando Daesh conquistava un terzo dell’Iraq, lo faceva con non pochi ex-ufficiali, leader tribali che avevano voltato le spalle a Baghdad, mentre per loro si trattava di una naturale conseguenza dopo anni di repressione, emarginazione ed esclusione. Naturale, perché o si sottostava al nuovo potere, oppure le opzioni erano quelle offerte a Jamal.

La possibilità di stare dalla parte dell’Iraq, per molti, non era stata neanche contemplabile.

Nella stessa Mosul, e nei villaggi circostanti, in queste ore si respira un’aria simile. I circa 700mila nuovi sfollati che potrebbero risultare dalla liberazione della seconda città irachena, secondo i dati delle Nazioni Unite, sono in realtà poco convinti della fuga.

A confermarlo sono anche i dati attuali, che vedono “soltanto” 19mila persone fino ad ora fuggite dalle aree militari. L’accoglienza per coloro che hanno vissuto negli ultimi due anni sotto Daesh non è a braccia aperte: prima di poter raggiungere i nuovi campi per sfollati, l’esercito iracheno e i peshmerga dovranno assicurare che ai controlli di sicurezza non passino potenziali affiliati al gruppo che creino disordini nel luogo di arrivo.

In questo processo di “selezione”, la linea tra le esigenze della sicurezza e la diffidenza generata dalle esistenti tensioni tra comunità è alquanto sottile.

Nel frattempo le notizie che arrivano da Mosul parlano di migliaia di civili dislocati forzatamente in zone chiave per poter fungere da scudi umani, di membri di Daesh che abbandonerebbero le lunghe barbe per mischiarsi ai civili in fuga e leader già in viaggio verso Raqqa, in Siria. In una recente intervista, lo storico attivista di Mosul, presunto autore della nota pagina Facebook “Mosul Eye” riporta di vita ordinaria che scorre in città tra l’attesa per la liberazione e il futuro incerto:
C’è molto di cui preoccuparsi. Bisogna essere franchi: sì, è vero che aspettiamo di essere liberati. Ma troppe questioni tra Mosul e il governo centrale sono sospese. Abbiamo ancora paura dell’esercito, ma anche dei peshmerga. E temiamo le Popular Mobilization Units (unità di mobilitazione popolare, di diversa origine confessionale, tra cui le già citate Hashd al-Shabi, ndr), che queste siano parte ufficiale dell’esercito o meno. Oggi, queste ultime si trovano a Tal Afar: la trasformeranno in un’enclave sciita”.

Sul ruolo delle milizie sciite (finanziate ed addestrate dall’Iran) i governi di Erbil e Baghdad hanno discusso a lungo prima di raggiungere un accordo sulla loro partecipazione.

Per il primo considerate ostili, per i secondi fondamentali per la riuscita dell’operazione, alla fine si è deciso per la loro presenza limitata all’esterno della città, così come per i peshmerga, d’altronde. Ma dichiarazioni contrastanti fanno intendere che potrebbero presto entrare in azione.

In una ambiguità analoga si ritrova la Turchia, a sua volta protagonista di dichiarazioni sulla volontà e addirittura sul “diritto storico” di intervenire nella battaglia di Mosul, mentre Baghdad ribadisce che questo continuerebbe a costituire una violazione della propria sovranità nazionale.

La presenza dei carrarmati turchi a Bashiqa, di combattenti della milizia sunnita Hashd al-Watani, stipendiati e addestrati direttamente da Ankara e i bombardamenti alle postazioni del PKK nel distretto di Amedi, nel Kurdistan iracheno, sono tuttavia segno evidente che la Turchia continua ad agire indisturbata nel teatro nord-iracheno.

Così come continuano ad agire indisturbati i diversi gruppi militari curdi. Oltre ai peshmerga curdo-iracheni, per cui Mosul rappresenta da un lato un’area da liberare per eliminare una minaccia terroristica al confine con la propria regione, e dall’altro una città chiave che se finisse sotto il loro controllo rappresenterebbe forse un passo decisivo per l’indipendenza, reclamano e pretendono spazio a Mosul anche il PKK e le YPG siriane, che già si spartiscono porzioni di territorio a Sinjar.

Tra i primi e questi ultimi due gruppi continua a non correre buon sangue, e l’esempio del conflitto di Sinjar potrebbe ripetersi anche a Mosul e dintorni, con l’aggravante che in questo frangente potrebbero nascere nuove estemporanee (e pericolose) alleanze.

Considerando gli scontri che hanno avuto luogo tra peshmerga Hashd al-Shabi a sud di Kirkuk nei mesi scorsi, e le divisioni interne tra i curdi-iracheni, lo scorso agosto un comandante metteva in guardia tutte le varie fazioni perché si unissero in vista del ‘dopo-Daesh’:
“Faccio appello a tutti i gruppi curdi, per il sangue dei martiri di Halabja e di tutti i martiri che hanno perso la vita per il Kurdistan, perché siano uniti! La nostra nazione è sotto minaccia e la grande guerra sta arrivando dopo Daesh!”, riportava all’emittente Rudaw.

In tutto questo, formalmente la guida delle operazioni è esclusiva dell’esercito iracheno, con Baghdad che necessita di far proprio un successo che per lo meno ridarebbe un minimo di legittimità al suo governo.

Dall’alto, con l’aviazione, ma anche con presenza sul campo, la Coalizione internazionale capitanata da Washington guida e supporta l’operazione. Le truppe di terra, di nuovo, non appartengono soltanto agli Stati Uniti, ma anche ad altri Stati che in teoria sono presenti in Iraq solo per scopi addestrativi, nonostante stiano andando oltre il loro mandato.

Tra le compagini straniere, infine, nell’operazione di Mosul si contano anche varie agenzie di sicurezza private, come l’americana “Soli, che arma e guida la Niniveh Plan Protection Unit (NPU), milizia a maggioranza cristiana.

Tanti attori, altrettanti interessi convergenti, tutti che vogliono un pezzetto di Mosul, tutti alla ricerca di una presenza in Iraq, che continua a rappresentare il cuore pulsante del Medio Oriente, suo malgrado.

Nel paese, in tv e per le strade non si parla d’altro, anche se in molti predomina lo scetticismo e la stanchezza verso un rinnovato e per lo più artificiale ed improvviso patriottismo mediatico, dove spazi per la critica si riducono e questioni spinose vengono accantonate.

“La tv è così concentrata sulla battaglia che non c’è spazio per nient’altro: dove sono finiti gli stipendi arretrati dei dipendenti pubblici, la crisi economica, e le riforme contro la corruzione?”, si chiede la gente.

Nonostante tutto però, a Baghdad di venerdì si protesta ancora, pur in pochi, sulla scia delle manifestazioni cominciate un anno fa. In Parlamento, invece, mentre ci si aspetterebbe soprattutto lì una concentrazione sugli sforzi militari e politici legati a Mosul, il 23 ottobre è stata approvata una legge che bandisce importazione e produzione di alcool, in un atto che lascia intendere quali siano le reali forze politiche che guidano il governo di Baghdad.

Nella stessa città, conseguentemente a questa decisione, una granata è stata lanciata contro un negozio di liquori provocando 5 morti.

Segnali, ragioni e fatti che dimostrano come Daesh potrebbe aver già vinto: che sia lui o un altro attore quello che nascerà dalle ceneri di Mosul forse poco importa.

Se non ci sarà un’azione politica che risponda ai bisogni di una popolazione martoriata da quarant’anni di violenza, la prossima potrà soltanto essere un’altra delle tante guerre ancora possibili, in Iraq.

da Osservatorio Iraq