Per Sergio Cesaratto, che mi ha insegnato a leggere la politica dall’economia

Hanno sbagliato di nuovo. Questa volta in maniera massiccia e sistematica. E’ un altro esempio della incapacità di liberali e social-liberali di capire cosa sta succedendo.

Anche questa volta sono di nuovo tutti assieme. L’ennesima accusa di populismo, contro lo spauracchio di estrema destra, quindi sedicenti appelli all’unità di tutti davanti ad un rifiuto sociale che cresce e si moltiplica. In momenti come questo, non c’è niente di peggio che il progressismo dei benpensanti incapace di connettere la globalizzazione capitalistica, le politiche neoliberiste coi massacri sociali a danno delle maggioranze sociali.
(…)

Ora è il momento di strapparsi le vesti, di ripetere il mantra di sempre e di squalificare intenzionalmente Donald Trump. Per molti di noi, il risultato elettorale americano non è stata una sorpresa. In primo luogo, perché Hillary Clinton ha rappresentato il peggio della politica americana, vale a dire, la subordinazione ai poteri di un interventismo economico e militare in tutto il mondo e su larga scala; in secondo luogo, come sono venuti dicendo autori radicali come Rodrik, Stiglitz e anche Krugman, ciò che è in crisi è la globalizzazione capitalista nel suo complesso. Per questo, in molti da anni parliamo del “momento Polanyi”, vale a dire la reazione della società e dello Stato contro il crescente predominio di un mercato “autoregolato”, diretto da oligopoli capitalisti transnazionali.

Molti non sapranno chi era Karl Polanyi, un uomo nato nel 1886 e morto nel 1964. Di recente, l’editore Virus ha ripubblicato La grande trasformazione, il suo libro fondamentale, nella traduzione veneranda di Julia Varela e Fernando Alvarez-Uria. Polanyi si formò nel contesto della migliore cultura austro-ungarica nel suo momento di massimo splendore e decadenza; fondatore dell’antropologia economica, ha studiato in modo molto approfondito il rapporto tra l’economia, la società e lo Stato. La tesi fondamentale del suo libro — mi si perdoni lo schematismo — è che il nuovo che stava portando il capitalismo, quello che Polanyi chiamava la”utopia liberale”, era la tendenza irresistibile alla mercificazione totale delle relazioni sociali; il mercato autoregolato era il mezzo e lo scopo di subordinare la società e lo Stato alla logica dell’accumulazione capitalistica. La chiave che rendeva possibile tutto ciò era trasformare in merce (pseudo-merce) tre cose che in realtà non lo erano: la forza lavoro, la natura e il denaro.

La “ipotesi Polanyi” è che c’è un movimento ciclico, quello che noi chiameremmo un ciclo antropologico-sociale, caratterizzato dalla realizzazione di politiche radicali pro-mercato e la reazione della società contro di esse, soprattutto verso le sue enormi sofferenze sociali. Ci sarebbe un ciclo A di esecuzione quindi un ciclo B di risposta. La globalizzazione capitalista vive già in questo ciclo di risposta. C’è stata una prima tappa trionfale di globalizzazione, di liberalizzazione progressiva e quindi una coalizione di classe cosmopolitica in suo favore. E’ dalla crisi del 2007 che stiamo vivendo una fase B, vale a dire, un’insurrezione globale plebea, popolare nazionale — di nuovo, perdonatemi lo schematismo — contro una globalizzazione percepita come predatoria, alienante e sempre più incompatibile con i diritti sociali, la democrazia e, peggio ancora, con la dignità umana.

La “ipotesi Polanyi” considerò il socialismo come un movimento storico che fu, per molti versi, la risposta della società al mercato autoregolato capitalista, ma essa ritenne che il fascismo era anch’esso una risposta di questa medesima società. Sullo sfondo, è questo che vediamo tutti i giorni: la richiesta di protezione da parte della società, di uomini e donne concreti, contro i potenti, contro l’oligarchia, contro un mercato che ci ha sottoposto alla sua logica implacabile. Lo Stato sociale è stato un tentativo di sintesi tra un capitalismo regolamentato e imbrigliato dallo Stato e le aspirazioni sociali chiedenti piena occupazione, sicurezza e diritti sociali e sindacali. Questa fase si è conclusa con la globalizzazione neoliberista e le sue conseguenze sopportiamo da quasi trent’anni.

In breve, ciò che è in crisi è la globalizzazione capitalista e, come sempre, ci sono almeno due vie d’uscita: o lo sbocco autoritario e oligarchico o la democrazia sociale. Nel mezzo, non c’è nulla, solo i lamenti di vecchie sinistre sindacali e politiche diventate neoliberiste e che non sono più in grado di capire la società e, tanto meno, di trasformarla.
Il problema è posto.

da sollevAzione
fonte: Cuarto Poder