Il testamento politico-filosofico di Costanzo Preve

Diamo un titolo molto impegnativo a questa lettera del giugno 2009 di Preve ad un amico francese. Impegnativo ma non sbagliato.

Dopo il 2009 Preve continuò, malgrado la malattia, la sua indomita battaglia teorica e filosofica — fino alla sua ultima fatica: Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia —, ma questa lettera è, sotto ogni profilo, un vero e proprio distillato essenziale del suo pensiero filosofico-politico.

Leggevamo Costanzo sin dagli anni ’80 del secolo scorso, quando ancora si considerava un althusseriano. Lo conoscemmo personalmente nel 1990. Stabilimmo con lui contatti diretti nella seconda metà degli anni ’90, nella battaglia in difesa della Iugoslavia, di cui divenne un esponente di punta. Un legame che diventò ancor più stringente, ai tempi della difesa della Resistenza Irachena, dopo l’invasione del 2003. Anche in questo caso Costanzo occupò la prima linea. Non mancarono poi, visto che con Costanzo era inevitabile dibattere a tutto campo, motivi di dissenso, anche molto seri. Motivi politici più che filosofico-teorici. Dobbiamo anzi anche a Costanzo quel che noi siamo oggi, la nostra chiarezza di pensiero, il coraggio di andare controcorrente, di sfidare quello che chiamava il Partito Unico Politicamente Corretto.**

Siccome mi hai scritto una bella e commovente lettera in lingua italiana, dovrei risponderti in francese. Spero che tu mi scusi se non lo faccio, e se rispondo in lingua italiana. Non è per pigrizia, dato che il mio francese è abbastanza buono per una risposta nella tua lingua. E’ perché voglio mostrare questa lettera a degli amici italiani che non sanno il francese, e con i quali voglio discutere di certe tesi a proposito di un cammino spirituale che non è solamente il mio, ma che appartiene alla nostra comune generazione. Bisognerebbe sicuramente discuterne a voce. Per ora, allineo alcuni ragionamenti sulla mia propria strada spirituale, per verificare se ci sono degli elementi comuni. Dunque, passo all’italiano.[1]

Ovviamente non tocca a me ricostruire il mio percorso politico e filosofico. Il vecchio Hegel ha scritto: “Tutto ciò che c’è di personale nella mia opera è falso”. Noi leggiamo Freud e sappiamo che non possiamo ricostruire il nostro passato senza cadere sotto la falsa coscienza e nei giochi del narcisismo e delle rimozioni. Tuttavia, se io stesso dovessi interpretare il mio cammino spirituale e politico, direi che si tratta di un’elaborazione dialettica che parte dalla decostruzione progressiva di una teoria acquisita nella mia giovinezza: la teoria dell’eresia di un’eresia.

Perché ha vinto il capitalismo

Ma spieghiamoci meglio.
Il segreto filosofico del successo del capitalismo consiste nella realizzazione della mutazione di una genesi particolare in una validità universale. Il capitalismo è una globalizzazione economica priva di universalismo filosofico, ed è questo carattere che spiega naturalmente la preferenza del relativismo e del nichilismo a tutte le forme dell’ontologia universalista. Questo non è un azzardo se gli apparecchi ideologici servili delle facoltà universitarie di filosofia hanno elaborato e sviluppato per esso, questi ultimi decenni (con delle eccezioni che confermano la regola), un codice teorico di identificazione di tipo relativistico e nichilistisco. Per il capitalismo, l’unico Assoluto è la sovranità del valore di scambio, accessibile in maniera differenziata secondo la diversità del potere d’acquisto; tutto il resto è naturalmente relativo. Perché questo meccanismo si sia potuto riprodurre, non c’è stato alcun bisogno di un fondamento metafisico trascendente, trascendentale, né storico-dialettico: ecco perché si parla tanto di nichilismo oggi. Il nichilismo è la filosofia spontanea del capitalismo, e il relativismo la sua concretizzazione ideologica. Il papa Ratzinger vorrebbe il capitalismo senza nichilismo e senza relativismo. Questo mi fa pensare ad uno sciocco che vorrebbe avere un fegato sano, ma beve litri di alcool ogni giorno.

Il capitalismo nacque in Europa occidentale, in condizioni storiche e culturali ben specifiche. Non si sarebbe però potuto riprodurre ovunque con tanto successo, se non avesse “incontrato” delle potenzialità individualiste e mercatistiche preesistenti, per subordinate che fossero, nelle altre parti del mondo (l’India, la Cina, ecc.). Ciò significa che esiste una sorta di individualismo anti-comunitario potenziale nel mondo intero, che è passato all’atto in Europa occidentale in primo luogo (uso un linguaggio aristotelico), e che si è poi “attualizzato” altrove. Certo, si può parlare anche di colonialismo, di imperialismo, ecc. Tuttavia, senza questo sostrato potenziale di individualismo anti-comunitario (già visibile peraltro nella Grecia dei presocratici, nell’Israele dei profeti egualitari, in Cina, ecc.), che l’occidentalismo imperialista e l’eurocentrismo culturale hanno fatto passare dalla potenza all’atto, il successo del capitalismo resterebbe del tutto inspiegabile.


Eresia di un’eresia

In estrema sintesi, il pensiero comunista di Karl Marx ha una genesi che procede da un’elaborazione razionale sistematica della coscienza infelice borghese (e per conseguenza non ha assolutamente niente di “proletario”); e dà luogo infine ad un’eresia capitalistica.
Per “eresia capitalistica”, intendo un pensiero che si appoggia originariamente sulle stesse basi “religiose” borghesi: il mito del progresso nella storia e il carattere centrale dello sviluppo delle forze produttive; ne assume dunque integralmente le premesse (critica verso la religione anteriore e verso il carattere fondatore, portatore di verità, cognitivo, e non solamente epistemologico e gnoseologico della filosofia); e rompe tuttavia in maniera “eretica” con esse, sul fondamento del fatto incontestabile che né il progresso né lo sviluppo delle forze produttive conducono all’uguaglianza e alla libertà, ma al loro contrario.

La debolezza delle eresie contro le nuove religioni deriva da ciò, che esse condividono con le ortodossie cui si riferiscono alla stessa base dogmatica, e che pertanto possono essere facilmente “riassorbite” in un altro momento. La storia di quasi un secolo e mezzo di “marxismo”, considerato nel suo insieme, è la storia di un riassorbimento dentro lo spirito capitalista generale, a partire soprattutto dal momento in cui la critica artistica e culturale degli intellettuali d’’’avanguardia” divorzia dalla critica economico-sociale delle classi subalterne (vedi Boltansky-Chiapello).

Se il capitalismo è la religione vincitrice dei tre precedenti secoli, e il marxismo la principale eresia di questa religione, io sono il figlio dell’eresia di un’eresia; cioè di questa cultura mischiata di trotskismo e di maoismo che ho assorbito in realtà nella Parigi degli anni sessanta, e non in Italia, dove quel che prevaleva era tuttalpiù l’eresia operaista, il cui ultimo rappresentante postmoderno è Antonio Negri, il quale ha fuso insieme il soggettivismo gentiliano dell’operaismo con Foucault, Deleuze e Guattari.

Assisi, agosto 2000: Costanzo Preve (a sinistra) fu uno dei protagonisti di quel Campo Antimperialista come di quelli successivi

Questa “eresia di un’eresia” che assimilavo non era priva di fondamenti, dal momento che partiva dall’osservazione perfettamente giusta che il comunismo ortodosso tradizionale mostrava delle evidenti tendenze a essere riassorbito dentro il capitalismo. I suoi risultati posteriori, in Cina e in Unione Sovietica, hanno largamente verificato questa ipotesi; e nello stesso tempo, si deve partire dal fatto che questa eresia dell’eresia (dove per il momento non vedo ancora far distinzione tra trotskismo, maoismo e tantomeno di eresie come il consiliarismo mistico-proletario di Castoriadis, Lefort e Lyotard) non aveva comunque ragione.

Essa (l’eresia) aveva certo diagnosticato la vera patologia (il riassorbimento progressivo dell’eresia comunista dentro l’ortodossia capitalista), ma si coltivava tuttavia dell’illusione, che l’unica terapia consistesse a radicalizzare all’estremo lo stesso modello eretico originario.
Ma in tutto questo, era l’eresia dell’eresia del maoismo ad essere ancora la migliore, o se vogliamo la meno peggio.

Il consiliarismo fondamentalista del Socialismo o Barbarie (dissolto nel 1965) si fondava su un mito sociologico proletario, tipicamente onirico, alla base del purismo moralista innestato su un economismo sociologico.

Quanto alla sterilità filosofica e politica del trotskismo, stava al suo carattere eurocentrico. Il trotskismo manteneva tutte le premesse dell’ortodossia comunista (eresia essa stessa del capitalismo, ma basata sui fondamenti di esso): ovvero il mito di una salvezza esclusivamente sociologico-proletaria ne introduceva l’ipotesi facile, e demonologica, del ruolo centrale della corruzione burocratica dovuta ad uno sviluppo insufficiente di forze produttive. Ancora una volta, ciò che viene chiamato “scarsità”, questo pilastro dell’economia politica capitalista, diveniva il fattore esplicativo fondamentale di una pretesa scienza della storia. L’eresia dell’eresia trotskista (e non discuto la sincerità morale dei suoi migliori militanti), rimane interamente intrappolata dentro la visione eurocentrica e occidentalista del mondo.

Il maoismo era certo un fenomeno profondamente cinese, ma non si può negare che certe sue tesi teoriche assunsero un carattere universale. Resta vero, per esempio (e il seguito l’ha confermato), che all’epoca detta “di transizione”, e di cui sappiamo oggi che non lo era affatto, la “borghesia” (termine improprio e incorretto per designare l’insieme dei funzionari strategici dell’accumulazione capitalistica) si riuniva soprattutto nel partito comunista. E’ la realtà. E comunque, una strategia estremista (la Rivoluzione culturale, la Banda dei quattro, ecc.) si è rivelata inadatta a contrastare questo processo, essa l’ha al contrario involontariamente accelerato e favorito. Ci Ji-Wei (di cui ho a lungo presentato il libro) ha ben mostrato che se la morale comunitaria è meccanizzata da un progetto politico teologico, quando quest’ultimo affonda, essa l’accompagna logicamente nella sua rovina.

Il maoismo è tuttavia un modello migliore del trotskismo, perché esso è meno operaista, meno eurocentrico, e perché la sua concezione delle classi è meno mitologica. Almeno è vagamente informato dell’esistenza dei popoli e delle nazioni, e non li confonde in un’improbabile frittata sociologica proletaria. Il furore con il quale il trotskismo si è precipitato nel pacifismo, il femminismo differenziatore e l’ecologismo ufficiale non si può spiegare se non per un rifiuto (largamente incosciente) di criticare radicalmente questo comportamento sociologico proletario, che si crede rendere più “integrale” e perfezionare semplicemente nelle sue “aggiunte” di nuove categorie. Ma quando la carne è avariata, è inutile aggiungere del pepe, delle spezie, dei peperoncini, ecc.

Cambiare l’alfabeto

Il mio percorso può dunque essere interpretato (almeno per me) come l’elaborazione dialettica, o, se vogliamo, la decostruzione razionale di un’eresia di un’eresia (molto più maoista che trotskista). Non sono certo stato il solo a farlo nel mezzo secolo che si sta ultimando (1960-2010). So bene che molti dei miei coetanei sono per la maggior parte rimasti fedeli alla loro vecchia “eresia di un’eresia” di riferimento: trotskista (come Daniel Bensaïd), o maoista (come Alain Badiou). Credo che la mia relativa superiorità su questi due rispettabili filosofi-militanti (che mi si perdoni la mia presunzione) venga dall’aver saputo radicalizzare meglio la mia decostruzione, non restando sulla superficie, ma giungendo a discendere fino alle ultime basi metafisiche che avevano primariamente costituito l’eresia (da Marx), e in seguito l’eresia dell’eresia (trotskismo e maoismo). Se infatti ci si ferma a mezza strada, non si può evitare di essere respinti verso l’origine da una specie di gravitazione, una catastrofica fatalità ideologica di appartenenza e di identità.

Volendo rompere con i fondamenti religiosi precedenti dello stato turco-ottomano in rovina, Mustapha Kemal Atatürk iniziò a bere vino e a mangiare maiale in pubblico, prima di cominciare con la soppressione dell’alfabeto arabo. Non affronto qui la questione del sapere se egli abbia fatto bene o male, lo lascio alla turcologia. Mi limito a constatare che Mustapha Kemal voleva salvare lo Stato e il popolo turco dalle minacce dell’intera dissoluzione, e che, basandosi su questa intenzione soggettiva, cominciò con l’infrangere certi tabù alimentari, per poi arrivare a prendere la decisione inaudita di cambiare l’alfabeto.

Dopo tanto tempo, sono persuaso della necessità di cambiare l’alfabeto nel quale è stata scritta l’eresia marxista del capitalismo. Sarà sempre necessario che ci siano degli specialisti capaci di studiare e leggere l’alfabeto precedente, perché senza memoria del passato, non c’è futuro (e sono dunque per i letterati confuciani e contro il rogo dei libri per ordine di Qin Shi Huang-di, e per conseguenza contro le campagne estremiste di “critica di Lin-Biao e di Confucio” alla fine della Rivoluzione culturale cinese). Ma l’alfabeto dev’essere cambiato. È l’alfabeto nel quale sono stati scritti i grandi testi sull’ideologia del progresso e della preminenza delle forze produttive, e per di più, i classici dell’Economismo, dello Storicismo, dell’Utopismo, ecc. Ma c’è dell’altro.

Per delle ragioni che sarebbero qui troppo lunghe da sviluppare dialetticamente (ma niente è più facile), il piccolo mondo autoreferenziale degli intellettuali di sinistra ha mantenuto tutta la sua bigotteria narcisistica, e ancora dopo la secolarizzazione post-moderna della vecchia trama dogmatico-religiosa che li caratterizzano. È per questa ragione che la mia collaborazione ad una rivista terribile come quella di Alain de Benoist equivale simbolicamente a Mustapha Kemal mentre beveva alcool, ma senza disporre della forza militare che impedisca la reazione isterica dei “puri”. Bene! L’ho fatto, allo stesso piano: collaboro con Eurasia, ecc. Si tratta, sicuramente, di un atto simbolico; ma anche di qualcosa in più. Si tratta di aver preferito il rischio della ricerca alle false sicurezze dell’identità e dell’appartenenza. Può darsi che interesserà al lettore sapere come sono giunto a questa decisione. Se non fosse altro che un fatto personale, non ne varrebbe la pena parlarne. Per i narcisisti, basta lo specchio del bagno. Ma credo che il mio dilemma sia stato quello di tutta la mia generazione politica. È per questo che sarò costretto ad utilizzare l’’’io”, pronome odioso.

Dal punto di vista della storia del comunismo, i vent’anni che vanno dal 1956 al 1976 presentano una certa unità, se si considera che partono dalla cosiddetta “destalinizzazione” del XX congresso del PCUS e terminano con il colpo di stato della Banda dei quattro, un mese dopo la morte di Mao Zedong. Tuttavia, sebbene il tempo trascorso dall’epoca permetterebbe già di farne un bilancio storico convincente, delle posizioni conservatrici che esistono nella comunità degli intellettuali vi si frappongono. Mi limiterò qui a poche osservazioni, decisamente insufficienti.

In primo luogo, la rappresentazione di Stalin come “capo dei burocrati sovietici corrotti” dominava nei circoli intellettuali occidentali. Il paradosso, è che il movimento trotskista organizzato, infimo numericamente, era di fatto maggioritario nel campo intellettuale, e che per seguito, la destalinizzazione fu soggettivamente risentita dagli intellettuali (ma non certo per gli operai comunisti) come un fenomeno politico “di sinistra”. Ci son volute delle decine di anni per capire che era falso, che era tutto il contrario. Questa osservazione non comporta l’approvazione di Stalin, né del suo sistema politico; ma poiché i circoli intellettuali hanno realizzato in questo modo un errore di 180 gradi, occorre domandarsi perché tutta una cultura politica si fonda su delle illusioni così fragili e incoerenti. E’ qua che comincerebbe ciò che a suo tempo Franco Fortini chiamò “la catena dei perché”.

In secondo luogo, l’enigma storico di ciò che viene chiamato “Maggio 68” non è ancora stato risolto in una maniera soddisfacente. Nessuno sostiene ancora oggi che ciò fosse la “prova generale” di una rivoluzione democratica e socialista nei paesi del capitalismo avanzato. Ma nello stesso tempo, la sua immagine di mito fondatore “giovanilistico” di un capitalismo liberalizzato nei suoi costumi e nella sua etica sessuale (v. Boltansky, Lipovetsky) non è del tutto soddisfacente. E’ possibile che una generazione intera sia stata ingannata in quel modo? Per l’essenziale, rimane vero, è ormai storicamente verificato, che il capitalismo si è rinforzato e non indebolito nel ’’liberarsi” della vecchia etica familiare borghese, questo dovrebbe far capire una buona volta che “capitalismo” e “borghesia” non coincidono. Tuttavia, i valori libertari e comunitari della generazione degli anni sessanta non possono essere ridotti ad una pura e semplice “astuzia della produzione capitalista”. E’ realmente possibile vedere nel Maggio 68 un fenomeno di gestione della crisi da parte delle oligarchie dominanti, che sanno selezionare con cura le esigenze accettabili e inaccettabili, e di conseguenza dividono quelli che essi dominano, soddisfacendo certi e isolando gli altri.

“Uno si divide in due”. Su questo punto la filosofia cinese aveva ragione. Gli uni si sono accontentati della presunta vittoria della liberalizzazione dei costumi, gli altri, i vinti, e io lo sono – e credo di poter dire: noi lo siamo -, hanno visto respingere la loro esigenza di una società diversa.


Italia: teatro dell’assurdo

Parlerò un po’ dell’Italia, e della sola Italia. Il decennio 1976-1986 ha visto morire il comunismo nella sua tradizionale dimensione politica delle masse, anche se quella puramente elettorale ha parzialmente resistito (in gran parte inerziale, identitaria, e relativa al potere locale in certe regioni italiane); questo ha falsificato un’assenza critica di prospettive politiche.

Dal punto di vista dell’immaginario ideologico, questo decennio ha visto gli intellettuali italiani passare dallo storicismo progressista ad un disincanto post-moderno di epigoni subalterni di “nuovi filosofi” e di Lyotard. Vattimo ha rimpiazzato Gramsci, e il binomio Nietzsche-Heidegger il precedente, Hegel-Marx. Lukacs e Bloch sono stati sotterrati, ma anche Althusser, e abbiamo visto proliferare gli studi gender del femminismo differenziatore. Con la distanza di un quarto di secolo da ora, l’unitarietà di questo fenomeno è ormai evidente. Ma questo non è l’aspetto principale, perché questo aspetto ideologico-filosofico non ha riguardato altro che piccoli gruppi universitari. Il principale è stato la “riconversione ideologica” legata alla persona di Berlinguer, e che fu evidente dal 1980 circa.

Di fatto, si è smesso di parlare della superiorità del socialismo sul capitalismo, e del comunismo sull’imperialismo; ci si è messi a parlare della “superiorità morale” dei comunisti (intesi come una classe politica: il PCI diventato PDS; DS, PD, ecc.) e della ’’inferiorità morale” dei democristiani e dei socialisti. Il nemico diventava un nemico moralmente corrotto (prima Craxi, poi Berlusconi), ed è in questo modo che ci si è preparati ideologicamente ad affrontare senza dolore la rovina prossima della Casa comunista di referenza, attraverso una sorta di “colpo di stato moralistico”. La legittimazione dell’accesso al potere (non per il socialismo, ma per un capitalismo “moralizzato”) non consisteva più in una maggioranza elettorale ottenuta pacificamente, ma in una sorta di “golpismo” giudiziario per il bene, destinato a rimpiazzare persone corrotte e immorali con persone oneste.

Così cominciava lo scenario della campagna Mani pulite.
Cosa fu dunque, storicamente, Mani pulite? (Astrazione fatta dalla soggettività dei suoi attori politici e dai fatti di corruzione reali). Questo fu, nel 1992 e 1993, un colpo di stato giudiziario extra-parlamentare che mirava a distruggere il precedente sistema di potere co-associativo, basato sulla rappresentazione proporzionale dei partiti, dentro un quadro keynesiano di sovranità monetaria dello Stato nazionale. Esso era stato preparato ideologicamente nel periodo precedente attraverso questa ideologia di “golpismo moralista”, raccomandando di rimpiazzare i corrotti per delle “persone oneste”. La premessa era tutta la cultura del Partito d’azione piemontese (Gobetti, Robbio, ecc.), per cui gli “italiani” sono un popolo corrotto (il popolo di scimmie, aveva scritto Gobetti a proposito dell’adesione al fascismo). Poiché la maggioranza degli italiani vota male (Mussolini, la Democrazia Cristiana, Craxi, e ora Berlusconi, ecc.), dovrebbe esserci un supplemento di moralità venuto dall’esterno (la stampa straniera, il liberalismo inglese, ora Obama, dei giudici onesti, dei giornalisti coraggiosi, ecc.)

E’ proprio con riluttanza che devo fare una breve parentesi sul fenomeno Silvio Berlusconi. All’estero, i giornalisti e gli intellettuali francesi, inglesi e tedeschi hanno finalmente un bersaglio facile per esprimere il loro tradizionale disprezzo degli italiani. Essi trovano in Italia una sorta di “quinta colonna” nel partito detto degli “anti-italiani” (Montanelli, Scalfari, ecc.), quelli che continuano a pensare che una bella riforma protestante – ma all’inglese, e non alla francese o alla tedesca – è mancata all’Italia, e che vorrebbero che quest’ultima fosse omologata nel mondo anglosassone, e dunque in un mondo presumibilmente capitalista-liberale totale, ma dove si rispetta la fila alle poste, si intende.

I capitalisti delegano i poteri secondari alla classe politica, formata da impiegati privi di coscienza infelice e di qualsiasi preoccupazione filosofica. Tuttavia, essi sorvegliano indirettamente questa classe politica per mezzo di due specie di persone ancora più affidabili: i giornalisti e i giudici. La campagna giudiziaria e giornalistica contro la Prima Repubblica, scatenata tra il 1992 e il 1994 sarebbe piaciuta a Marx, per la natura strutturale dei fenomeni che non erano superficiali se non in apparenza.

Berlusconi è stato un risultato involontario di Mani pulite, e deve il suo potere esclusivamente a questo colpo di stato giudiziario extra-parlamentare, appoggiato da una campagna di stampa invadente e capillare, sul fondo ideologico di questo spirito di “golpismo moralistico” seminato ovunque dopo la dissoluzione del defunto Partito Comunista Italiano tra il 1976 e il 1991. I giudici hanno allontanato tutta la classe politica che aveva governato dal 1948 al 1991: Democrazia Cristiana, Partito Socialista Italiano, Partito Repubblicano Italiano, Partito Social-Democratico Italiano, Partito Liberale Italiano. L’intenzione originaria non era dare il potere a mercenari nichilisti del PCI-PDS, ma di favorire un golpismo di mafie oligarchiche (Segni, ecc.). Ma è andata diversamente. Di fatto, la sola classe politica professionalmente capace di gestire la transizione dal precedente capitalismo statico assistito fino al nuovo scenario globalizzato neo-liberale era giusto il mercenarismo burocratico e nichilista PCI-PDS, altrettanto privo di coscienza infelice, e interamente convertito allo spirito golpista moralistico-giudiziario.

Berlusconi, in quanto capitalista “privilegiato” dal precedente governo Craxi, aveva paura che il suo principale nemico (il gruppo finanziario Scalfari-De Benedetti dei giornali L’Espresso e La Repubblica) ne approfittasse per rovinarlo e farlo mettere in prigione. Egli si dispose dunque a mettersi alla testa di questo settanta per cento di elettori italiani ai quali questo golpismo moralistico giornalistico-giudiziario aveva tolto la rappresentazione politica. E’ in questo e solamente in questo che consiste la base strutturale del successo di Berlusconi. Ed è evidentemente questo che i golpisti moralisti non saprebbero riconoscere, anche ricorrendo a luoghi comuni tradizionali del partito “anti-italiano” (gli italiani sarebbero naturalmente mafiosi, con un senso della famiglia immorale, il culto mussoliniano del capo, un egoismo esclusivo, degli harem di ragazzini ambiziosi, ecc.).

Sono quindi vent’anni che siamo costretti in Italia a subire questo scenario disgustoso, dove nemmeno uno dei due partiti esistenti è degno né di un minimo di rispetto né di un minimo di preferenza.

Come se non fosse bastato questo colpo di stato giudiziario extra-parlamentare del 1992, che avrebbe messo al potere il mercenariato nichilista “metamorfico” PCI-PDS-DS-PD, ce ne fu un altro nel 1999, che portò l’Italia alla guerra contro la Jugoslavia, a dispetto della carta dell’ONU, che non lo permetteva, e anche della stessa costituzione italiana, che ben esplicitamente non lo consentiva. Oggi sappiamo perfettamente che si trattava di una guerra geopolitica manovrata dagli USA e dalla NATO, coperta dal mantello della nuova ideologia politicamente corretta dei diritti umani (benché proporzionale alla portata degli irresistibili bombardamenti). Per guidare questo secondo colpo di stato si è fatto appello a d’Alema, quel baffetto cinico, antico capo dei Giovani Comunisti del PCI. Ti risparmio i dettagli, che sarebbero pertanto interessanti (ho scritto un libro su questo, Il bombardamento etico, pubblicato nel 2000 nelle edizioni CRT, che è stato tradotto in serbo-croato).

Se ho aperto questa breve parentesi, è perché la storia dell’Italia così come l’ho vissuta io tra il 1992 e quest’anno (2009) ha preso l’aspetto di un reale teatro dell’assurdo, che ricorda la lettura di Lenin della Scienza della logica di Hegel, dove tutto si rovescia al suo contrario, e la civilizzazione in barbarie (in questo caso, la guerra del 1914). Quanto a me, ho vissuto il capovolgimento del comunismo italiano e la sua trasformazione in mercenariato cinico e nichilista dell’impero degli USA.

Di conseguenza, se il mio pensiero nasce indubbiamente dalle mie uniche capacità dialettiche personali, il “fattore esterno” si può riassumere così:
I) Rifiuto della religione capitalista-borghese trasmessa dai miei genitori, che appartenevano alla generazione fascista delusa, meno per il fascismo (al quale avrebbero applaudito con entusiasmo se avesse vinto), che per la sua disastrosa sconfitta militare e i bombardamenti del 1943-1945.

II) Adesione al comunismo ortodosso per una reazione decisamente edipica alla religione capitalista, e progressiva messa in questione critica di questa eresia dell’eresia.

III) Adesione, inizialmente vagamente trotsko-maoista, al mondo estremista e critica dell’eresia dell’eresia. Ma le eresie specificamente di sinistra (cfr. Richard Gombin, Le origini della sinistra, 1971) non mi sono mai interessate, per la loro completa illusione che l’eresia dell’eresia potrebbe finalmente costituire una religione abbastanza efficace per abbattere quella del capitalismo.

IV) Critica radicale dell’eresia di un’eresia, senza tuttavia spingerla fino all’abbandono della critica comunista del capitalismo. Questa critica radicale mi ha condotto a violare il “politicamente corretto” della sinistra, che è l’unica base del suo codice di appartenenza identitario (e ricordo qui le gesta di Mustapha Kemal). Da cui la mia critica della teologia intervenzionista dei Diritti dell’uomo, del codice politicamente corretto, della nuova religione dell’olocausto che dà consenso al sionismo e all’americanismo, dell’antifascismo mantenuto in assenza totale di fascismo, dell’indifferenza generale al “golpismo” puramente moralista del codice anti-berlusconiano degli intellettuali italiani, ecc.

V) Infine, constatazione che il mondo alla rovescia degli ultimi due decenni (e particolarmente in Italia) esige un ribaltamento adeguato del codice teorico dell’interpretazione del mondo. E credo che sia su questo punto, e precisamente su questo punto, che si sono innestati, nella storia della mia vita, la sistematizzazione e la coerenza concettuale del mio pensiero dopo dieci anni. Come si vede, tutto il pensiero è libero, ma complessivamente è storicamente determinato. E possiamo finalmente parlare di filosofia.

Arrivò un momento in cui, Mustapha Kemal si rese conto che non era sufficiente bere vino in pubblico e rimpiazzare il fez e il turbante per il cappello e il berretto (mi scuserai se insisto su questa innocente analogia: è che ho fatto anche degli studi di turcologia). Egli ha compreso che serviva anche cambiare puramente e semplicemente l’alfabeto. Ma la mia analogia non significa per niente che approvo le sue scelte (e da buon ellenofilo, preferisco invece il vecchio multinazionalismo del mondo ottomano).

Questo vuol dire solamente che finché non scriviamo il vecchio linguaggio di Marx, tuttora buono e valido, in un nuovo alfabeto, continuiamo a fare, come i miniaturisti dei manoscritti arabi, dei capolavori artistici meravigliosi, ma tuttavia nei margini degli stessi testi religiosi di legittimazione.

Decostruendo il marxismo

Cerchiamo di porre correttamente il problema fin dall’inizio. Ritengo sbagliata la terminologia di Marx ed Engels riguardante il “comunismo primitivo”. Il termine “modo di produzione comunitario” sarebbe stato migliore, benché si trattasse di una cosa che si differenzia parecchio in base al luogo. La terminologia di Hosea Jaffe è corretta: il modo di produzione comunitario all’origine senza classi, dove la divisione del lavoro si fonda sulle due complementarità uomini-donne, e giovani-vecchi, si è posteriormente trasformata in dispotismo comunitario. La legittimazione del dispotismo comunitario è di natura religiosa, non ancora filosofica. Il modo di produzione schiavistico, poi feudale (come in Europa e in Giappone) sono delle eccezioni, e non la regola, al segno del dispotismo comunitario (Jaffe), che Samir Amin chiama “società del tributo”. Ciò che abbiamo chiamato “modo di produzione asiatico”, con caste (in India) o senza (in Cina) rappresenta l’evoluzione del dispotismo comunitario.

Il comunismo secondo Marx potrebbe essere definito come il ristabilimento del modo di produzione comunitario, ma evidentemente sulla base dello sviluppo delle forze produttive industriali, e dell’irreversibile costituzione dell’individuo moderno, che non potrebbe sopportare la sua ipotetica sparizione al segno degli aggregati sociali organici pre-moderni. I due presupposti al ristabilimento di un modo di produzione comunitario restano per conseguenza delle forze produttive sociali sviluppate, e questa irreversibile costituzione dell’individuo moderno.

E il problema diviene allora, ponendolo brevemente: come liberare lo sviluppo delle forze produttive dalla loro sottomissione e incorporazione alla riproduzione capitalista, e d’altra parte liberare la costituzione dell’individuo moderno dalla sua incorporazione all’anomia individualista e atomica degli ultimi secoli?

Fin qua, quel che ho detto è ancora di fatto compatibile con il marxismo tradizionale, eccetto le notabili innovazioni terminologiche, ma che non bastano per effettuare una vera rivoluzione scientifica di paradigma (prendo questo termine nello stesso senso di Thomas Kuhn).

Se la diagnosi marxiana implicante il passaggio dal capitalismo al comunismo era esatta per l’essenziale, è evidente che non si sarebbe menzionata la comunità e il comunitarismo. Ma non è esatta, e per molte ragioni.

In primo luogo, non è vero che la borghesia capitalista diviene, ad un certo punto del suo sviluppo, parassitaria come le classi feudali e signorili, che vivono di rendita e non di profitto, e che non è più capace di sviluppare le forze produttive.

In secondo luogo, non è vero che esistono delle dinamiche interne al modo di produzione capitalistico che inducono alla costituzione di un lavoro collettivo per associazione cooperativa, dal direttore di fabbrica fino all’ultimo dei manovali.

In terzo luogo, non è vero che si forma all’interno della produzione un generale intelletto potenzialmente comunista, senza il bisogno di innestarci delle pratiche comuniste e comunitarie fondate filosoficamente.

In quarto luogo, non è vero che le classi operaie, salariate e proletarie sviluppano progressivamente una coscienza rivoluzionaria che disintegra il sistema.

Infine, è assolutamente illusorio che queste classi possano essere “rimpiazzate” da nuovi soggetti collettivi determinati biologicamente (le donne, i giovani, ecc.) o geograficamente (i paesani poveri di paesi ex-colonizzati, ecc.).

Mi sono limitato a questi cinque punti, ma avrei potuto metterne molti di più, dieci o quindici. La riforma comunitaria del comunismo parte da ciò, non da istanze reazionarie o “irrazionali”, come proclamano gli scientisti marxisti di tutti i tipi (in Italia, l’althusserismo italiano, soprattutto).

Bisogna tuttavia evitare di nascondere la testa nella sabbia come uno struzzo per non vedere che il vecchio modello marxista era capace di avanzare una deduzione scientifica (sia pure erronea) della transizione storica e politica dal capitalismo al comunismo, mentre il nuovo modello comunitario non lo è, e non ricorre che ad argomenti molto deboli e totalmente esterni al soggetto (critica del produttivismo, dell’’’orrore economico”, dell’individualismo anomico, esortazione alla solidarietà, ecc.).

Gli oppositori del modello comunitario sfruttano ovviamente questa debolezza, che essi siano sostenitori dell’individualismo capitalistico, o del marxismo ortodosso. Sarebbe dunque assurdo nasconderla. Ma il miglior modo per non nasconderla è di rivendicarla altamente, come una forza. E’ questo che non si fa, si preferisce tacere e restare del tutto confusi. Non è in questo modo che si riuscirà ad uscire dallo stallo in cui ci troviamo. Bisogna trasformare una debolezza in forza, e non ostinarsi a nasconderla con imbarazzo.

La trasformazione gestaltica è quel fenomeno della percezione visiva per la quale, guardando lo stesso disegno, si vedono le grandi orecchie di un coniglio al posto di un becco d’oca. La filosofia della critica comunista-comunitaria del capitalismo ha bisogno di una trasformazione gestaltica radicale. E’ alla fine di questa operazione che si dovrà passare al cambio dell’alfabeto, e Marx diventerà allora uno dei grandi pensatori di questa critica, e non più l’unico, e ancora meno l’infallibile. Ma a quest’ora, noi non siamo ancora in grado di proporre un cambio d’alfabeto. Non lo capiremmo, ci escluderebbe subito.

Cinque operazioni principali sono necessarie per realizzare una trasformazione gestaltica.

1) Abbandonare il cosiddetto materialismo dialettico per passare ad un’ontologia dell’essere sociale.

2) Abbandonare la teoria dei cinque stadi dell’evoluzione storica del cosiddetto materialismo storico e dirigersi verso una concezione multilineare e non più assurdamente e meccanicamente unilineare.

3) Primato esplicito della filosofia sulla cosiddetta “scienza”, non generalmente, ma esclusivamente sul campo della società e della storia, e dunque di un comunismo comunitario.

4) Cambio di prospettiva radicale sulla posizione di Marx nella storia del pensiero. Passare da una concezione “futurista” di Marx, secondo la quale Marx avrebbe proiettato Hegel nel futuro aggiungendogli il futuro comunista, ad una concezione “tradizionalista”, secondo la quale Marx è un episodio di una tradizione, nata con i pre-socratici, e che si oppone ciclicamente alle tendenze dissolutive e distruttrici dell’accumulazione, sregolata, anomica, della ricchezza individuale, delle tendenze contrarie di ritorno all’associazione e alla comunità.

5) Ricostruzione della storia universale in confronto dei popoli, sul fondamento del concetto (pressoché assente in Marx) del modo di produzione comunitario, secondo le sue scissioni e le sue ricomposizioni sempre differenti.

Ci si dirà che è inutile mettere all’ordine del giorno l’abbandono del materialismo dialettico, poiché questo è ormai un “cane morto” che nessuno difende più. Non è del tutto vero. I sistemi scolastici d’insegnamento del marxismo in Cina e a Cuba continuano a predicarlo per inerzia, questo dimostra non solamente l’inerzia, ma una mancanza totale di coraggio e innovazione. Il fatto che il materialismo dialettico, sotto forme diverse, sia stato difeso da Engels, Lenin, Stalin, Trotsky, Mao, e da numerosi altri occidentali (Sève, Geymonat, Rizakis), frena tutti quelli che credono che sarebbe impossibile pensare liberamente senza iniziare per sacrificarsi alle sacrosante autorità. Ma così non si può.

Il grande Hegel ha scritto: “Nello studio, la via maestra e suprema è di pensare da sé”. In estrema sintesi: il materialismo dialettico è una variante tardo-positivista di un codice concettuale primitivo, fondato sull’indistinzione e sulla fusione del macrocosmo naturale e del microcosmo sociale. Ma se i membri delle comunità primitive avevano tutti i diritti di pensare così, perché la loro propria sopravvivenza comunitaria dipendeva direttamente e strettamente dalla natura ed era assolutamente inconcepibile distaccarsene, i positivisti avevano tutt’altro motivo, ovvero il primato del modello epistemologico delle scienze della natura sulle scienze della conoscenza della società (e da Auguste Comte fino ad Althusser passando per Engels, c’è una continuità tragicomica). Ben pochi sostengono ancora la forma tradizionale del materialismo dialettico, è vero; ma la sua nefasta influenza dura ancora, nell’idea che la conoscenza e la trasformazione della società derivino dalla struttura concettuale delle scienze della natura, unificando tutto ciò in una maniera sbrigativa ed arbitraria sotto il termine unico di “scienza”.

Non c’è compromesso possibile tra il modello del materialismo dialettico e il modello di un’ontologia (esclusiva) del (solo) essere sociale. Una tale ontologia dell’essere sociale non è in principio né idealista, né materialista, e rifiuta per conseguenza questa dicotomia inutile basata sulla gnoseologia. Per sua stessa natura, richiede un pensiero della totalità espressiva (suo elemento idealista), completato con un metodo d’esame della struttura di tale modo di produzione (suo elemento materialista). Georges Lukacs ne ha dato un primo modello, che dev’essere a mio avviso modificato e perfezionato, perché si sforza ancora di mantenere quest’inutile dicotomia tra idealismo e materialismo, e inoltre di “salvare” sempre Marx in ogni caso, senza mai riconoscere i suoi errori, di cui “accusa” il solo Engels, ecc. Il miglior modello filosofico per un pensiero comunista-comunitario è dunque un’ontologia del (solo) essere sociale, ma noi ne siamo purtroppo ancora ben lontani.

La teoria unilineare dovuta dalla successione dei cinque stadi della storia universale (comunismo primitivo, modo di produzione schiavistico, modi di produzioni feudali e capitalistici, e comunismo come fine della storia) è oggi screditata e completamente abbandonata. Si tratta di una occidentalizzazione eurocentrica impropria, arbitrariamente estesa al mondo intero, e che doveva servire (l’ha fatto per almeno mezzo secolo), da ideologia di legittimazione dell’universalità del modello russo-bolscevico di rivoluzione socialista. Non fu difficile aggiungerci il “modo di produzione asiatico”, perché era esso stesso inserito nelle Sacre Scritture: i Grundrisse (Fondamenti della critica dell’economia politica) di Marx. Si aggiunsero quindi i modi di produzione “antico-orientali” (Egitto, Mesopotamia), “mesoamericani” e “africani”. Si parlò di “modo di produzione tributario” (Samir Amin) e di “dispotismo comunitario” (Jaffe). Gli studi storici di Perry Anderson finirono per far saltare lo schema staliniano, e si potrebbe chiaramente continuare.E comunque, benché abbia perduto la sua legittimità, la teoria dei cinque stadi ha continuato ad esercitare la sua influenza negativa, perché il sentimento comune di ciò che resta dei militanti comunisti “di base” è ancora caratterizzato dall’economismo, dal determinismo, e dalla teleologia obbligata. La costruzione dei cinque stadi è formalmente crollata, ma ne rimane l’economismo, quanto al passaggio da un modo di produzione ad un altro, e il finalismo ideologico della pacificazione finale delle lotte storiche in un comunismo comunitario senza conflitti. Lo schema di Stalin è abolito, ma resta l’idea della “grande narrazione” (Lyotard) e della secolarizzazione dell’escatologia giudaico-cristiana nel linguaggio dell’economia politica (Löwith).

Bisogna quindi portare a termine il processo di abbandono di questo schema, e dichiarare apertamente che non è la regola che ci sia una successione “progressista” evolutiva del corso della storia, che non c’è rigorosamente una scienza della storia che possa essere comparabile, anche se per analogia, alle scienze naturali e alla medicina; e che possa esistere tuttalpiù, senza che si possa mai pretendere dell’altro, una filosofia universale della storia su una base ontologica che utilizza un metodo di analisi dedotto dalla teoria di Marx e delle sue categorie. Non si può assolutamente andare oltre. Così come il cane di Esopo, che teneva tra i denti un pezzo di carne, lo lasciò per morderne il riflesso che vedeva sull’acqua, finendo per non mangiare nessuno dei due, se si rigetta la filosofia universalista e ontologica della comunità per raggiungere la cosiddetta “scienza”, non solamente non si avrà alcuna scienza, ma si perderà anche la filosofia che si aveva già.


Filosofia e scienza

Ma tutto questo chiede di essere approfondito.
Dopo una riflessione di più di quarant’anni, sono arrivato alla conclusione ben ponderata che la conoscenza filosofica è superiore alla conoscenza detta “scientifica”, e che non si deve provare alcuna vergogna di rivendicarlo apertamente. Ovvio che questo suoni come una ridicola blasfemia reazionaria e irrazionalista per i militanti detti “marxisti”, ma altrettanto da un punto di vista individualistico-capitalistico puro, il quale su questo punto (e non è un azzardo) è in generale più “marxista” degli stessi marxisti più estremisti.

Questa formulazione è comunque ambigua e incorretta; per quanto mi riguarda, appartengo alla scuola filosofica che considera che esiste una “scienza filosofica” (con Aristotele, Hegel, e Marx letto secondo i codici di Aristotele e di Hegel), la quale si oppone ai filosofi basati sulla sovranità indeterminabile delle opinioni, al relativismo, all’empirismo, al nichilismo, ecc. Ma si usa qua il linguaggio ordinario, dove la filosofia è considerata come una forma di interrogazione discutibile sul significato della totalità sociale, e la “scienza” come il metodo delle scienze naturali moderne dal XVII secolo, con tutte le transizioni e le lacune interne della medicina, della farmacologia, dell’astronomia, della fisica, della chimica, della biologia, della genetica, ecc. Si tratta di rompere un luogo comune, che si è confermato a partire dal positivismo di Auguste Comte tra il 1830 e il 1850, e che ha prodotto nel seguito, tra il 1875 e il 1895, il codice teorico del marxismo come “scienza”, che tutti i marxisti conservano come si conserva l’uniforme militare di una guerra finita dopo tanto tempo. Mi rendo perfettamente conto di tutte le ragioni della pesante inerzia di queste abitudini che sono dure a morire.

In primo luogo, sembra anzitutto che l’affermazione della superiorità della conoscenza filosofica su quella detta scientifica (elaborata ai suoi tempi per dare risposta al problema della conoscenza della natura, e solamente di quest’ultima) sia un ritorno a delle forme di superstizione, di passivismo, di conservatorismo tradizionalista, ecc. “Cosa! Non siamo nella modernità! Come si possono dire tali cose nella modernità!” Davanti simile tautologia, che si dà per argomento razionale, mi viene voglia di rispondere come fece a suo tempo Roland Barthes: “Ad un certo punto, mi è diventato completamente indifferente non essere più considerato moderno”. Non si può dire di meglio. L’ortodossia capitalista, l’eresia comunista, e l’eresia dell’eresia trotskista e maoista hanno tutte e tre in comune la stessa base dogmatica: il feticismo storicista del progresso irreversibile della modernità, preso come un articolo di fede religiosa. Ma il tempo è giunto qui a sfidare i falsi Dei.

In secondo luogo, si ha spesso una oscura paura di cadere in posizioni irrazionaliste di errore per ciò che chiamiamo “la scienza”. Ma è una paura infondata, indotta dalla pressione conformista dello scientismo che domina attorno a noi (qua citerei Marx: le idee dominanti sono quelle della classe dominante). La scienza moderna della natura è un’ideazione cognitiva meravigliosa, incomparabile per ciò che è delle scienze della natura e l’innovazione e il perfezionamento tecnologico, incomparabile nei confronti della presunta natura “separata” della sfera umana e sociale. Ma questa meraviglia diviene assolutamente inutile per quanto riguarda l’orientamento dell’uomo nel mondo, e la legittimazione di una scelta comunitaria contro l’individualismo sregolato.

La conoscenza scientifica è qua non solamente inutile, ma ancora illusoria, perché fa immaginare ciò che non è, ciò che per necessità prima o poi ci deluderà: che il metodo scientifico potrebbe orientarci, toccando non solamente ciò che chiamiamo i “valori”, ma anche la valutazione della natura della totalità espressiva della vita umana, privata e/o comunitaria.

Il fuoco di sbarramento scientista sarà terribile, si diffonderà in ingiurie e invettive (metafisica, passivismo, nostalgia, tradizionalismo, conservatorismo, anti-modernità, anti-postmodernità, irrazionalismo, ecc.). Diciamolo molto semplicemente: può essere che quelli che sapranno resistere e contrattaccare con successo a questa serie di ingiurie “moderne” saranno capaci di contribuire ad un nuovo modo di pensare. Ma colui che si spaventa ed indietreggia dimostra che non riuscirà a capire la natura del problema culturale che è davanti a noi.

Marx come problema

Si può dire che in più di un secolo, la marxologia ha lavorato bene. La grande maggioranza degli inediti di Marx sono stati pubblicati il secolo scorso. Ne restano, ma è improbabile che un’immagine completamente nuova di Marx possa uscire dalla marxologia. Certi punti sono ormai ben conosciuti.

Sappiamo che non si può trovare in Marx la giustificazione del materialismo dialettico. Sappiamo che non ci si può trovare la teoria dei cinque stadi prefissati dello sviluppo storico. Sappiamo che la teoria dell’interruzione epistemologica e della soppressione della categoria di “alienazione” non ha alcuna prova filologica.

Sappiamo che Marx non ha mai rotto con Hegel, ma che l’ha metabolizzato in diversi modi, e che nei suoi ultimi anni, andò fino a “riconciliarsi” completamente con la filosofia di Hegel. Sappiamo, in conseguenza, che un marxismo anti-filosofico e anti-hegeliano sono una leggenda nata da un tardo-positivismo.

Sappiamo ancora molte altre cose. Il segreto di Marx è tuttavia assolutamente indipendente da queste discipline necessarie, ma assolutamente secondarie e ausiliari, cui sono la marxologia, la filologia, e la citatologia giustificativa. Nell’ottica di un seminario universitario serio e ben gestito, queste sono il cento per cento del problema. In quella di un’inserzione “metafisica” di Marx dentro una percezione globale della storia universale presa come un unico concetto trascendentale riflessivo, esse non ne fanno il cinque per cento, esse non sono nulla. Si tratta in effetti di scegliere tra due immagini olistiche di Marx. Marx è un pensatore “futurista”, che proietta Hegel al futuro e apre un periodo qualitativamente nuovo della storia della filosofia (e dunque della “storia storica”), oppure un pensatore “tradizionalista”, che si rilegge in nuovi modi ad una tradizione antica rintracciabile nei presocratici greci (senza parlare dei loro equivalenti indiani e cinesi): la tradizione della reazione solidarista e comunitaria che si produce giustamente per contrattaccare la decomposizione privatista e mercatistica?

Su questo punto l’esagesi marxologica è muta, perché è possibile estrapolare dallo stesso testo di Marx tanti elementi (e interminabili catene di citazioni) per sostenere sia la tesi futurista che la tesi tradizionalista. E voglio ammettere ancora, non solamente che la tesi futurista corrisponde meglio alle intenzioni soggettive di Marx, ma che essa emerge maggiormente da tutta una lista di citazioni. E pertanto, secondo me, se non si rifiuta questa tesi, la crisi della validità e dell’utilità politica e storica del pensiero di Marx per il presente non potrà mai essere sormontata. Comprendere questo punto cruciale costituisce ormai l’ottanta per cento del problema che certi chiamano il problema di “Marx oggi”.

Sembra a prima vista che l’interpretazione “futurista” di Marx sia una semplice “futurizzazione” dialettica della filosofia della storia di Hegel (come per esempio in Ernst Bloch). Questo è solamente in parte vero, e in tutto, nella filosofia soprattutto, una mezza-verità porta ad un errore totale. In realtà, la tesi della “futurizzazione” di Hegel da parte di Marx implica una errata valutazione dello stesso Hegel, che fa di lui, in un certo senso, il coronamento supremo della filosofia dell’illuminismo. Questo non è ciò che penso. Hegel non ebbe certo un attitudine di rifiuto nei confronti della filosofia illuministica (come tutta una corrente, che va da Burke e da Maistre fino ad Horkheimer e Adorno); egli l’ha trattata secondo il suo metodo caratteristico del “Aufhebung” (superamento, dove ciò che è soppresso è conservato). Tuttavia, l’aspetto principale del suo Aufhebung illuminista fu il superamento, e non la conservazione, ovvero: la critica dei fondamenti individualisti, e del “cattivo infinito” del mito del progresso.

L’interpretazione futurista di Marx resta interamente nella sfera di una sistematizzazione sempre più dura e coerente del mito borghese del progresso, mito ideologicamente apparentato al nuovo primato del profitto (di un tipo lineare), che si sostituisce al vecchio primato della rendita (di un tipo ciclico, perché era legato alle stagioni e ai raccolti). La struttura ontologica del progresso si rapporta all’infinito e all’illimitato, esattamente come quella alla quale si contrapponevano i primi filosofi greci (Anassimandro, Pitagora, ecc.), che viravano giustamente in una tale struttura ontologica la causa della dissoluzione individualista, privatista, e crematistica della società. Inoltre, il futurismo della teoria del progresso va di pari passo con l’idea dell’accelerazione dei tempi.

Tuttavia, la filosofia di Hegel, presa nel suo insieme, dev’essere considerata come una reazione comunitarista al precedente individualismo degli illuministi (benché sia evidente che egli sia un comunitario-borghese, e non un comunitario-comunista). Se al contrario si fa di Hegel il grande continuatore e del suo pensiero la sintesi dell’illuminismo, e che Marx l’abbia (correttamente) riletto, ne consegue che il pensiero di Marx appare come la sintesi suprema degli stessi illuministi: dal mito del progresso fino all’empirismo fondato sull’individualismo: abbiamo tutte le condizioni che preparano il riassorbimento dell’eresia marxista nelle concezioni del mondo progressita-borghese; ed è così che l’interpretazione futurista di Marx conduce dialetticamente al suicidio della dialettica.

L’interpretazione tradizionalista di Marx che propongo, rovescia totalmente la prospettiva, e non è possibile che sulla base di una radicale trasformazione gestaltica. Nell’astratto, le condizioni sarebbero favorevoli, a partire da almeno due fattori storici: la deriva distruttrice senza limiti dell’attuale ipercapitalismo post-borghese e post-proletario, e d’altra parte il bilancio del fallimento integrale del marxismo storico “futurista” partecipante dell’illuminismo e del positivismo; ma in realtà non è nulla, perché l’ottantacinque percento della comunità intellettuale “marxista” non è disposto, attualmente e per tanto tempo ancora, ad abbandonare il vecchio modello. Vico avrebbe parlato della “boria dei dotti”; Ennio Flaiano avrebbe detto “La situazione è disperata, ma non seria”.

E pertanto, è nel pensiero individualista di Thomas Hobbes, apertamente anti-aristotelico, nell’empirismo di John Locke, nella critica corrosiva di Voltaire, nell’economia politica di David Hume e di Adam Smith, senza fondamenti filosofici e comunitari e infondata se non su se stessi, ecc., che risiede l’innovazione decisiva della modernità. Ed è ad una tale novità empirico-individualista (alla quale, per ultimo risultato, appartiene il criticismo di Kant), che Hegel e Marx rispondono, per un movimento conservatore e comunitario, che procede nell’ultima analisi della tradizione filosofica greca.

Se la proposta è appena agli inizi, credo che per natura sia già comprensibile.

In estrema sintesi, possiamo dire che la strategia di Marx concerne la comunità umana, e la sua tattica la classe proletaria. Ossia: il comunitarismo è la strategia, la lotta di classe la tattica. Il movimento comunista ha trasformato la tattica in strategia – ciò che era certamente inevitabile nelle condizioni di allora; è perché non intendo affatto lasciarmi andare ad una critica facile e pedantesca. L’ultima causa del suo provvisorio fallimento storico consiste precisamente nella sua dinamica dissolutrice di questa fine tattica presa per la fine strategica.

Se si comprende la società comunitaria come una radicalizzazione dispotica della lotta di classe (come Stalin, la Banda dei quattro, Pol Pot, ecc.) è inevitabile che ne nascano prima o poi dei movimenti di massa di controrivoluzione sociale restauratrice, cui i ceti medi (i vecchi e i nuovi) sono la base di classe. Il passaggio teorico della lotta di classe al comunitarismo non cancella quindi le buone ragioni storiche e sociali di quest’ultima; le inserisce solamente in una nuova concezione della storia più ciclica e meno progressista (ovvero, più greca, e meno partecipante all’illuminismo), e non mira soprattutto a rompere con la miglior parte dell’eredità di Marx. Per esempio, il concetto marxiano di modo di produzione resta valido, e finora insuperato (se ci si sbarazza delle sue deviazioni economiste, storiciste, deterministe, meccaniciste, che si riportano al modello positivista del primato di una scienza senza fondamenti filosofici, e alla sansimonista“amministrazione delle cose”).

E’ per questo che bisogna legittimare il concetto del “modo di produzione comunitario”, che prevale meglio al concetto di “comunismo primitivo” che a quello di “comunismo del futuro” – questa deriva individualista o questo incubo, della scomparsa della famiglia, della società civile e dello Stato. Nessuno l’ha ancora fatto: ciò non significa che non si possa fare, apertamente e metodicamente.

Due parole, per terminare, sul marxismo italiano.
E’ praticamente sparito dalla scena pubblica da vent’anni. Credo che all’estero, non lo si è capito a fondo, nemmeno gli italianisti, la potenza dissolutrice del vecchio PCI, che ha agito sotto forma narcisistica, con dei personaggi tragicomici e grotteschi come Armando Cossutta e Fausto Bertinotti, senza parlare della “riconversione” mediatica dei vecchi estremisti come Sofri, ecc., in propagandisti dell’impero americano e del sionismo.

Il paese di Labriola e di Gramsci è oggi uno di quelli che l’eredità di Marx è più ridicolizzata e marginale. So bene che è lo stesso in Francia, ma in misura minore, credo. Chi è oggi il più grande marxista italiano vivente? Domanda da centro commerciale, ma se dovessi rispondere, direi Domenico Losurdo. Losurdo mantiene la relazione tra Hegel e Marx (benché la presenti come del realismo politico e una giustificazione storica), la critica dell’imperialismo, la legittimità geopolitica della difesa contro l’imperialismo americano, la condanna del sionismo, ecc. Si tratta qui di aspetti “fondamentali”, e in proposito sarebbe auspicabile che si concluda l’epoca tragicomica di Bertinotti, distruttore confuso e narcisistico. E Losurdo e le sue idee sono, onestamente, le “meno peggio”.

Ciò detto, senza alcuna ipocrisia e falsa modestia, non smetto di considerarmi come un pensatore nell’insieme migliore e più profondo di Losurdo, per una migliore “radicalità” critica riguardo l’eredità filosofica del passato (i greci, Hegel, e Marx soprattutto). E’ per questa ragione che l’astrazione fatta dalla mia riconoscenza per altri (che è nulla, comunque), dovrei dire che il miglior pensatore italiano di orientamento marxista, sono io.

Capisci bene che non c’è né paranoia né megalomania in questa convinzione, ma una semplice valutazione del lavoro che ho compiuto da circa trent’anni. I testi parlano da soli, se li si vuole leggere.Tuttavia, sono condannato alla solitudine e all’esclusione. Non mi importa della diffamazione, mi è indifferente; ma ciò che, psicologicamente, non mi è indifferente, è la mancanza di difesa pubblica da parte di quelli che mi conoscono bene, come Losurdo stesso, che non ha avuto una parola in pubblico, mai una sola, per sostenermi, benché in privato, per telefono, mi abbia assicurato più volte del suo insignificante e “platonico” sostegno. Non c’è via d’uscita.

Non posso rinunciare a delle convinzioni che sono le mie, che siano giuste o erronee, per poter accedere al pubblico del politicamente corretto di sinistra. Il politicamente corretto di sinistra vuole a tutti i costi che si dica che la modernità è irreversibile, che Marx è una brava persona perché è posto all’avanguardia del futurismo, che non resterebbe più nulla dei greci se non fossero oggetto di studio per dotti con la parrucca incipriata, che Berlusconi è l’equivalente mediatico del fascismo eterno, che la dicotomia destra/sinistra è un dogma indiscutibile ed un articolo di fede, che l’antifascismo è ancora valido in evidente assenza di fascismo, che la religione non è che un imbroglio dei preti fondato sull’ignoranza dei semplici, che la geopolitica è un’invenzione dei fascisti, che sia sufficiente un contatto con Alain de Benoist per essere contaminato, ecc.

Come vedi, se accettassi questo codice tradizionale del politicamente corretto, probabilmente potrei “ritornare” parzialmente nel circo mediatico (o “le milieu”, come dicono i marsigliesi), ma dovrei suicidarmi come pensatore radicale e originale.

Mi scuserai di questo testo troppo lungo. Ma ho voluto scriverlo, caro B., per perfezionare la tua conoscenza del mio pensiero, di cui hai già un’idea poiché mi hai tradotto. Te ne sono riconoscente oltre quanto tu possa immaginare, perché, per delle ragioni personali, mi sento ancora più attaccato alla Francia che all’Italia».

da sollevAzione

* Fonte: L’intellettuale dissidente
** Corsivi e titoli dei capitoli nostri