Un interessante articolo di Vittorio Emanuele Parsi, sul Sole 24 Ore di oggi, sulle prospettive strategiche del dopoguerra in Siria

Non c’è solo il dittatore siriano tra gli spettatori interessati a verificare gli esiti del vertice tripartito di Mosca tra i ministri di Esteri e Difesa di Russia, Turchia e Iran. in realtà anche il governo di Israele si interroga con partecipe curiosità sulle chances di una pax russa ai suoi confini settentrionali.

Nelle speranze di Tel Aviv, Mosca non dovrebbe infatti solamente patrocinare e garantire la restaurazione del potere di Assad su quel che resta della Siria, ma anche spostarlo sotto la propria tutela, allentando la presa del regime degli Ayatollah su Damasco e, così facendo, privando gli Hezbollah del sospirato trionfo politico.

Nella guerra civile siriana Israele ha sostenuto le milizie sunnite ribelli in chiave anti Assad, occupandosi anche dell’evacuazione e dell’ospedalizzazione dei combattenti di Jabhat al Nusra (oggi Fatah al Sham), considerate un’emanazione di al Qaeda.

Proprio questo tipo di condotta, nel corso del 2015, provocò tensioni tra le autorità governative israeliane e le popolazioni druse: sia quelle dei villaggi del Golan occupato sia quelle interne a Israele. I drusi infatti accusavano Jabhat  al Nusra di aver compiuto violenze contro i loro villaggi e ci furono persino episodi di vero e proprio linciaggio dei feriti sottratti a forza dalle ambulanze con la stella di Davide. Da segnalare che i Drusi, insieme ai beduini, sono i soli non ebrei ammessi a prestare servizio con Tsahal (l’esercito di Israele).

Israele non era tanto preoccupata della possibile vittoria di Assad in sé per sé: quest’ultimo si era sempre dimostrato il più docile dei nemici possibili, garantendo per anni la sicurezza del confine tra i due Paesi da qualunque possibile attacco.

Ciò che toglieva il sonno a Netanyahu non era la prospettiva di un Assad “forte”; bensì quella di un Assad “debole”, dipendente in maniera pressoché assoluta dalla protezione accordatagli da Iran ed Hezbollah. Fino a tutto il 2015, infatti, era stato proprio l’intervento militare della milizia sciita libanese a dare ossigeno a un Assad stretto nella morsa della ribellione dilagante e a garantire la sopravvivenza del regime, a partire dalla decisiva battaglia di Qusayr, nella primavera del 2013.

Le cose cambiano per Israele dall’ottobre 2015, quando Mosca inizia una campagna di bombardamenti sempre più massicci ed estesi, che segneranno l’inversione di tendenza nell’inerzia della guerra civile che, nel corso degli ultimi 15 mesi volge sempre più a favore del regime.

Fin dalla comparsa dei primi jet russi sui cieli siriani, Netanyahu e Putin stabilirono un accordo per evitare che tra aerei russi e israeliani si potessero avere scontri fortuiti.

Col progredire e l’intensificarsi dell’offensiva aerea russa veniva a manifestarsi la relativizzazione dell’appoggio di Hezbollah e dell’Iran sul piano militare. Ma era soprattutto sul piano politico che si palesava il divario abissale tra “l’internazionale sciita” e la Russia, perché era evidente che solo Mosca poteva ottenere il risultato fino a poco tempo prima impensabile di rilegittimare internazionalmente il regime siriano, legandolo così in maniera definitiva al suo carro.

Del resto Hezbollah è ancora considerato in Occidente una organizzazione terroristica e l’Iran è uscito dalla lista degli “Stati canaglia” solo a seguito dell’accordo sul nucleare (Jcpoa), peraltro molto in bilico dopo la vittoria di Trump. Di qui l’opportunità per Israele, che inizia a intravedere uno scenario post-guerra civile perfino migliore di quello precedente.

In prospettiva, non sarà solo più l’opportunismo politico di Assad a garantire la sicurezza israeliana, ma un ben più solido accordo con Mosca. Una prospettiva, quest’ultima, che faceva infuriare Obama, ma che sembrerebbe gradita invece al presidente nominato Trump e al suo segretario di Stato.

Il punto è ora cercare di capire se la trojka, evocata con trionfalismo dal ministro degli esteri russo Lavrov come “la soluzione” per la guerra civile siriana sarà in grado di funzionare davvero.

Non è tanto da Ankara che potrebbero venire i problemi. Erdogan ha troppi nemici interni ed ex amici esterni per poter far altro che reggere riconoscente la coda di Putin. Ma Tehran ben difficilmente potrà rassegnarsi a una perdita secca di influenza nel Levante in cambio di non si capisce bene cosa. Dissimulerà le sue reali intenzioni, ma farà di tutto per sabotare le ambizioni egemoniche russe in quello che considera il suo cortile di casa.


Articolo pubblicato sul Sole 24 Ore del 24 dicembre 2016