Le vittime sono state condannate ieri per l’uccisione (presunta) di tre poliziotti nel 2014. Tensione altissima nella monarchia sunnita: scontri con la polizia nei villaggi sciiti. Manama: “Facevano parte di un gruppo illegale”. Le ong: “Un oltraggio”. L’Occidente tace
Tensione altissima in Bahrein dove alcuni manifestanti avrebbero dato fuoco ad un palazzo governativo negli scontri divampati ieri notte contro la polizia. A dare la notizia dell’incendio è stato oggi il ministero degli Interni bahrenita che però non ha voluto fornire alla stampa ulteriori dettagli.
La situazione è tesa nel Paese da ieri mattina da quando cioè Manama ha giustiziato tre shiti condannati per l’uccisione di 3 poliziotti nel 2014. Le esecuzioni di Sami Mushaima, (42 anni), Ali al-Singace (21) e Abbas al-Samea (27) – le prime dopo sei anni – hanno esacerbato di nuovo gli animi tra la componente shita del Paese (maggioritaria, ma che è duramente repressa) e la monarchia sunnita degli al-Khalifa.
Proteste e violenze si sono registrati in diversi villaggi shiiti dove, stando ai video caricati in rete dagli attivisti, i manifestanti avrebbero bloccato le strade con dei pneumatici a cui avrebbero dato fuoco e si sarebbero scontrati con la polizia che avrebbe risposto facendo ampio uso di gas lacrimogeno. Il condizionale è d’obbligo perché le notizie non possono essere verificate indipendentemente: le autorità locali non permettono alle agenzie di stampa internazionali (né a quelle locali di opposizione) di seguire quanto sta accadendo.
Sulle esecuzioni di ieri dei tre uomini è stato duro il commento della direttrice dell’ong britannica Reprieve, Maya Foa: “E’ un oltraggio, è una violazione vergognosa del diritto internazionale”. Le sentenze di morte sono state implementate “nonostante le forte preoccupazioni che alla base delle loro condanne ci siano confessioni ottenute sotto tortura” ha aggiunto Foa. Sconsolato Sayed Ahmed al-Qadaei, il direttore dell’Istituto del Bahrein per i diritti e la democrazia: “Questo è un giorno nero nella storia del Paese: è un crimine odioso compiuto dal governo bahrenita ed è una vergogna per i suoi governanti”.
Una posizione condivisa anche da decine di uomini e donne che erano scese per strada a protestare due giorni fa non appena avevano saputo che le famiglie dei tre condannati erano state convocate in prigione per incontrare i detenuti. Una prassi che solitamente in Bahrein precede le esecuzioni. La tensione è andata aumentando di ora in ora: nella serata di sabato, secondo la versione fornita dalle autorità, un poliziotto è rimasto ferito da un proiettile sparato contro la sua pattuglia nel villaggio di Bani Jamra.
In una nota, il gruppo fuorilegge Bridade ash-Shtar aveva rivendicato prontamente l’attacco definendolo una “operazione storica”, un avvertimento rivolto al governo a non “implementare le sentenze di morte”. Così non è stato: per Manama le tre vittime, insieme ad altre 7 persone che hanno ricevuto l’ergastolo, sono affiliati ad un gruppo illegale che ha compiuto vari attacchi bomba nel marzo 2014.
Di diverso avviso il gruppo sciita Hezbollah che legge l’uccisione dei 3 “innocenti” all’interno “del grande crimine commesso dal regime [degli al-Khalifa] contro i bahreniti”. “È chiaro che le esecuzioni distruggeranno ogni possibilità di uscita dalla crisi politica locale e condurranno il Paese ad un incerto futuro che minaccerà la stabilità interna del Bahrein e dell’intera regione” si legge in un comunicato della formazione libanese. Il direttore della ong statunitense “Difensori dei diritti umani”, Brian Dooley, aveva chiesto sabato agli Usa di usare tutta la loro influenza affinché non fossero messe in atto le sentenze di morte contro i tre uomini.
Ma Washington (che nel Paese ha la Quinta Flotta) è rimasta a guardare come sempre: dalle proteste del 2011, la monarchia ha arrestato e messo in carcere centinaia di attivisti dell’opposizione nel silenzio delle cancellerie occidentali. L’impennata della repressione operata da re Hamad si è registrata lo scorso giugno: nel giro di due settimane per futili motivi o per capi d’accusa mai provati è stata tolta la nazionalità all’importante guida religiosa sciita Shaykh Isa Qassim, è stato bandito il principale partito di opposizione (al-Wefaaq), è stato arrestato il noto attivista dei diritti umani Nabeel Rajab ed è stata costretta all’esilio la dissidente Zeinab al-Khawajah perché minacciata di essere nuovamente arrestata per un periodo di tempo indefinito. Si tenga presente poi che Ali Salman, il leader di al-Wefaaq, è in prigione dove sta scontando una pena di nove anni.
Senza dimenticare, poi, i tanti casi di oppositori meno noti che non fanno notizia e che, da un giorno all’altro, si ritrovano dietro le sbarre a scontare pene ingiuste (spesso per reati non commessi) nell’indifferenza della comunità internazionale.
Ma se boia e carcerieri parlano arabo ad assisterli ci sono occidentali, soprattutto di madrelingua inglese. Lo scorso ottobre, infatti, la già citata organizzazione non governativa britannica Reprieve ha affermato che la compagnia Northern Ireland Co-operation Overseas (NI-CO) avrebbe ricevuto almeno un milione di sterline nel 2015 per collaborare con il ministero degli interni del Bahrein. Secondo i dati offerti dalla ong, due anni fa sono stati più di una dozzina gli esperti del NI-CO che hanno lavorato nelle carceri bahrenite per formare circa 400 guardie.
Harriet McCulloch, la vice direttrice della organizzazione britannica, ha puntato il dito contro il Regno Unito perché insabbierebbe i casi di tortura che avvengono nel piccolo arcipelago arabo. Downing Street finge di non vedere: in ballo c’è l’apertura ormai prossima di una base militare britannica in Bahrein. E, soprattutto, fiumi di denaro pronti a entrare nella casse di Londra: il recente tour della premier May nel Golfo lo ha confermato.
da Nena News