Una critica ai partigiani dell’euro e del gigantismo economico

Che la moneta unica, dopo averla scampata per un soffio nel 2011, sia prossima al trapasso ce lo attestano vari segnali: la recente uscita di Draghi, lo studio di Mediobanca, quello fresco fresco di Unicredit, ed infine, udite udite, la cancelliera Merkel in persona che al vertice di Malta del 2 febbraio ha, senza peli sulla lingua, prospettato “un euro a due velocità” — con ciò gli amici che considerano i “due euro” come una soluzione “antagonista”, sono serviti.

Malgrado tutti questi segni premonitori i partigiani dell’euro — nel senso schmittiano di “gesuiti della guerra”, di combattenti caratterizzati da una dedizione cieca alla loro causa politica —, si accaniscono nel difendere il loro simulacro, vedendosi così costretti ad utilizzare argomenti al limite dell’assurdo.

Prendiamo Federico Fubini. Sul Corriere della Sera del 31 gennaio — dopo aver segnalato che “… nell’Eurobarometro di Bruxelles l’Italia presenta la quota di favorevoli alla moneta unica più bassa dopo Cipro” e che “…Quello che un tempo era uno dei paesi più europeisti si è trasformato nel suo contrario” —, prova ad indicare cosa accadrebbe “in concreto” se l’Italia uscisse dall’Unione e tornasse alla sovranità.

C’è da mettersi le mani tra i capelli. 
Lasciamo stare l’argomento davvero ridicolo dell’immigrazione — “fuori dalle Ue ci troveremmo esposti senza difese né veri alleati”. E’ noto che  invece di un “aiuto” la Ue ha risposto sospendendo Schengen lasciando alcuni paesi, tra cui il nostro, completamente soli. Sorvoliamo poi, per carità di patria, sul discorso sconclusionato secondo cui con il protezionista Trump alla Casa Bianca verrebbe “minacciato il nostro export verso l’America che oggi fattura 40 miliardi di euro l’anno” — come se restare nella Ue allacciati alla Germania non fosse peggio.

Due sono i piatti forti contro il cosiddetto “salto nel buio dell’uscita”.
Il primo è quello del debito estero. Sentiamo che ci dice il Fubini:
«… c’è un enorme debito estero pubblico e privato di almeno mille miliardi, che gli italiani dovrebbero a quel punto saldare in euro avendo una nuova moneta svalutata».

FERMI TUTTI!

Fubini non può non conoscere il principio della Lex Monetae — in Italia scolpito negli articoli 1277 e 1278 del nostro Codice civile —, per cui uno stato sovrano, stante la moneta avente corso legale, determina, in base alle proprie leggi, quale debba essere il tasso di conversione tra la precedente e la successiva moneta. Che significa? che una volta tornati a moneta sovrana lo Stato rimborserà — nel caso che voglia rimborsare — i suoi creditori esteri (ad oggi 780 miliardi sui 2.229 totali) con la nuova valuta, nient’affatto in euro.[1] Principio che vale in barba alle Clausole di azione collettiva (CACs) sui titoli di stato introdotte dal Governo Monti in seguito alle direttive Ue. [2]

Fubini obietterà che diverso è il caso dei debiti su estero contratti da privati, anzitutto banche (220 miliardi in obbligazioni, prestiti ecc.). Ciò è vero, ma solo nei casi dei contratti di debito attivati sotto giurisdizione non italiana — che supponiamo siano una parte molto piccola del totale.

Fubini, rendendosi conto che la pistola era caricata a salve, passa all’artiglieria pesante:
«Questa Europa sarà piena di carenze e contraddizioni ma è un sistema strettamente integrato: per un’Italia che uscisse dall’euro, svalutasse e di fatto minacciasse di non saldare il suo debito estero in euro, le porte dell’Unione si chiuderebbero quasi subito. Tornerebbero le barriere doganali verso i primi due mercati di sbocco: la Germania, verso la quale esportiamo per oltre 50 miliardi l’anno; e la Francia che assorbe 40 miliardi di made in Italy (con un forte surplus commerciale a nostro favore)».

La balistica Fubini, la balistica!

Il Nostro sa bene che: (1) in caso di uscita dall’euro dell’Italia le probabilità che l’Unione europea resti in piedi sono prossime allo zero — lo scenario che prende in considerazione è quindi del tutto aleatorio; (2) l’integrazione economica esistente tra paesi europei ha radici storiche ed economiche profonde, che non verrebbero meno con la fine dell’Unione; (3) in caso di ritorno a regimi di moneta sovrana i paesi a subirne conseguenze pesanti, tanto più in caso di adozione di misure doganali protezionistiche, sarebbero quelli in surplus commerciale — quindi, in primis, proprio la Germania visto che detiene l’avanzo commerciale più alto del mondo — visto che la loro valuta subirebbe una pesante rivalutazione, rendendo meno appetibili sui mercati esteri le loro merci.

L’arrivo dell’euroscettico e nazionalista Trump alla Casa Bianca, essendo un potente fattore esogeno di dissoluzione della Ue, spinge i partigiani dell’euro — ovvero del “vincolo esterno” per raddrizzare il legno storto italiano — ad usare l’arma di ultima istanza: quello dell’italietta e della liretta. Sentiamo ad esempio quanto scrive il pennivendolo Antonio Polito sul Corriere della Sera del 1 febbraio:

«Che cosa ci possa guadagnare in un mondo tale [quello del ritorno al balance of power, ovvero riarticolato sugli stati nazionali, Ndr]» la nostra piccola Italia, sia dal punto di vista dei commerci che del peso politico, a gareggiare da solo in competizione con i giganti del pianeta senza più nessuna speranza di proteggere i suoi interessi sotto il manto di una dimensione continentale, è un mistero che i fautori dell’addio all’Europa un giorno magari ci spiegheranno».

Qui se c’è un mistero è solo quello del presunto “manto” dell’Unione che proteggerebbe il nostro Paese. Che la Ue abbia accresciuto gli squilibri tra i paesi che ne fanno parte, e che l’Italia ne sia forse la principale vittima, non lo diciamo noi, lo dicono i fatti. Si vede che Polito non legge nemmeno quanto scrive la testata per cui lavora, tra cui proprio lo stesso Fubini. [3]

Siamo in presenza del vero e proprio dogma dei corifei neoliberisti della globalizzazione, quello secondo cui un singolo paese che non abbia dimensioni gigantesche non ha speranze di competere quindi di sopravvivere nel contesto della globalizzazione.

Il fatto è che questo dogma è condiviso anche da chi sostiene di essere  antiliberista e/o addirittura anticapitalista. Facciamo riferimento, ad esempio, a coloro che si riconoscono nelle diverse varianti del “piano B”, segnatamente le due principali componenti, quella di Lafontaine e quella di Varoufakis — la corrente lafontaniana proponendo sì un ritorno alle monete nazionali ma ripristinando la forma dello Sme, quella di Varoufakis difendendo l’idea della moneta comune europea.

Tre sono gli argomenti “forti” che questi compagni sollevano per condannare ogni ritorno alla sovranità nazionale, quindi conservando una qualche forma di Unione economica e monetaria.

Il primo è che un singolo paese, tanto più se con alto debito, finisce più facilmente in pasto alla finanza predatoria internazionale.

Il secondo è quello che alcuni economisti francesi eterodossi chiamano “escalisme” (scalismo, che sta per gigantismo), cioè l’idea che in un mercato globale liberoscambista, si può sopravvivere solo con “grandi economie di scala”.

Il terzo è che nell’economia oramai globalizzata ogni paese sarebbe afferrato in un’inestricabile “catena di produzione del valore” che non consente alcuno sganciamento e reale indipendenza economica.

Non abbiamo qui lo spazio per una contestazione rigorosa e scientifica di questi argomenti. Ci limitiamo ad alcune telegrafiche considerazioni, politiche e fattuali.

Il primo errore dei globalisti di sinistra è teorico: quello di ritenere la mondializzazione come un processo economico irreversibile — quindi, di converso, considerare impossibile ogni sganciamento dalla globalizzazione neoliberista. Assistiamo invece al suo tramonto, cosa che ripropone la centralità degli stati nazionali, quindi delle decisioni politiche sovrane su quelle determinate dai mercati. L’arrivo di Trump alla Casa Bianca è la prova più clamorosa di questa tendenza.

Il secondo errore dei globalisti di sinistra è assiologico: quello di considerare la mondializzazione capitalistica un “progresso necessario”, un avanzamento della civilizzazione — quindi, di conseguenza, considerare “un andare indietro” ovvero un processo reazionario il de-globalizzare su basi nazionali.

Il terzo errore dei globalisti di sinistra è quello di utilizzare il criterio delle “economie di scala” in riferimento alle dimensioni degli stati nazionali, mentre esso vale semmai per singole aziende o filiere produttive dove i fattori dimensionale e della capitalizzazione evidentemente contano per ridurre i costi di produzione. [4] Uno Stato sovrano che ritenga necessario sostenere le proprie filiere produttive e i settori economici nazionali ha mezzi e risorse affinché le aziende possano avere alti livelli di produttività — rendendo relativo il fattore grandezza — e quindi emanciparsi dalla gran parte dei vincoli e delle concatenazioni delle cosiddette  “catene di valore” internazionalizzate. [5]

Come detto non pretendiamo, con queste brevi considerazioni, di chiudere il confronto con i globalisti e gli europeisti di sinistra. Ci sia solo consentito, a mo’ di conclusione, segnalare che certe tesi sono contraddette da ogni evidenza empirica.

Ci sono com’è noto svariate economie nazionali tutt’altro che titaniche le quali, malgrado il marasma mondiale, sono più che floride, non fanno parte di alcuna unione, né economica né tantomeno monetaria, la cui sovranità è anzi fattore primario di successo. Tanto per fare degli esempi la Corea del Sud, Taiwan, Singapore e, per venire in Europa, la Svizzera o la Norvegia — paesi a cui infatti non passa per la testa di entrare nella Ue tantomeno nella Uem.

Perché mai un’Italia sovrana, in un contesto di tendenziale de-globalizzazione, dato il suo enorme patrimonio di forze produttive, con la politica e l’interesse generale messi al primo posto, non potrebbe risorgere e fare addirittura meglio dei paesi sopra citati?

NOTE

[1] In base all’ultima rilevazione ufficiale della banca d’Italia del gennaio 2016 la quota del debito pubblico italiano in mano a investitori stranieri nel novembre 2015 era pari al 39% del totale. Nell’ultimo anno si è ridotta al 35%, per un totale di 780 miliardi sui 2.229 totali.
«Non esistono dati ufficiali puntuali, aggiornati e certi. Ma in base a stime attendibili, il debito pubblico italiano in forma di bond è detenuto per il 65% da detentori italiani di cui banche (20%) , compagnie di assicurazione (17%), Banca d’Italia (11%), fondi comuni (3%), famiglie (6%) , altri italiani (8%) e per il rimanente 35% da un’istituzione straniera, la Bce , (9%) e poi da investitori esteri (26%). Le istituzioni e gli investitori istituzionali italiani, che sono mani forti, non vendono in massa, non svendono, non speculano contro l’Italia in tempi di crisi»
Isabella Bufacchi. Il Sole 24 Ore del 7 dicembre 2016

[2] Introduzione delle Clausole di azione collettiva

[3] Vedi l’articolo sugli squilibri delle bilance dei pagamenti nella Ue scritto non più tardi di cinque mesi fa.

[4] Economie di scala: Diminuzione dei costi medi di produzione in relazione alla crescita della dimensione degli impianti e sono quindi realizzate dalle grandi imprese per ragioni organizzative e tecnologiche. In relazione a un dato livello di dimensione degli impianti, la riduzione dei costi unitari al crescere della quantità prodotta può realizzarsi in conseguenza sia della maggiore efficienza della direzione e delle maestranze, sia della riduzione e dispersione dei rischi, sia della maggiore facilità di finanziamento e della possibilità di un più largo ricorso alla pubblicità. Inoltre le economie di s. sono connesse con la ricerca di migliori metodi di produzione e con lo sviluppo di nuovi prodotti. Alle e. di s. fanno però riscontro anche le diseconomie di scala, ossia le difficoltà crescenti di organizzazione e di amministrazione collegate con l’aumento delle dimensioni delle imprese.

[5] Un utile abstract sulle Catene di Valore.