«Ecco la liberalizzazione, ecco la non concorrenza che i tassisti temono e che, forse, dovremmo temere anche noi»
Dopo avere letto l’articolo di un giovane lettore su Uber e sharing economy in cui mi si cita, ho voluto aggiungere due parole pedanti sul tema, che propongo nel seguito ai lettori.
Il dibattito sulla sharing economy si rappresenta mediaticamente lungo l’asse dialettico vecchio-nuovo, conservazione-rivoluzione, paura-sfida. I critici di questo modello sarebbero arroccati e impauriti, nemici del futuro. L’idea della novità è prima di tutto nel nome, dove un rodato processo di ridenominazione esterofila innesca una percezione di progresso legata al doppio filo della presunta arretratezza nazionale e della presunta modernità angloamericana.
È poi nell’elemento telematico, il web che ancora a distanza di vent’anni mantiene viva l’aspettativa di una rivoluzione antropologica di cui non si ha traccia. È infine in una più generale e mai sopita speranza di adattare i modi di produzione alle politiche macroeconomiche in corso, di trovare una quadra che possa avverarne le promesse di benessere e che ci salvi dall’umiliazione di rinnegarle e di rinnegare, con esse, un investimento politico e ideale che ha conquistato i cuori dei più.
Sicché non stupisce che la sharing economy susciti la simpatia dei consumatori. Stupisce invece, e anzi suscita pena, che tra i suoi cantori più infoiati si annoverino anche accademici ed economisti. Al di là delle esigenze di marketing, dove tutto ha da proporsi nei panni del nuovo per meritare la dignità del mercato, dove starebbe la novità? Economicamente si tratta di un’operazione di abbattimento dei prezzi via abbattimento dei costi.
Nell’estendere l’attività di trasporto di persone a chiunque possegga un’automobile (Uber, blablacar) e alberghiera a chiunque abbia una casa o una camera da letto (Airbnb) si monetizza lo scarto regolatorio tra settori professionali e non professionali. Tutto qui. Si investe cioè sul principio che ciascuno a casa propria, sulla propria automobile e forse domani nella propria cucina (airrestaurant.com?) o con la propria cassetta dei farmaci (airhospital.com?) possa più o meno fare quel che gli pare, mentre se decide di offrire quei servizi ad altri, a pagamento, debba soddisfare certi requisiti.
È certo possibile che alcune regolazioni siano eccessive, infondate o anche vessatorie. O che siano legate al passato. In quei casi andrebbero cambiate. Ma la loro ratio fondamentale e al di là delle applicazioni particolari è quella di estendere garanzie e standard di qualità non negoziabili a tutti e non solo a chi se li può permettere. Quegli standard sono poi la linea del fronte tra paesi sviluppati e terzo e quarto mondo, dove pure si possono affittare elicotteri e limousine mentre la popolazione viaggia sui carretti per un soldo arrugginito, e dove si può soggiornare nei resort a cinque o più stelle mentre la popolazione dorme negli slum.
Ecco il progresso. Se una casa Airbnb costa meno è perché, ad esempio, non deve avere l’impianto antincendio di un albergo. Ciò che non si riceve in sicurezza lo si risparmia in quattrini, eventualmente lo si baratta con una vasca idromassaggio o un pianoforte a coda in soggiorno. Ecco la rivoluzione virtuosa. Se poi – udite udite – un esercizio paga meno tasse, può praticare prezzi più bassi. Ecco l’innovazione. È un gioco a somma zero: tanto ti tolgo, tanto ti do. Con anzi un possibile retrogusto di impoverimento medio, come osserva il mio lettore: di chi compra, che rinuncia alla ricchezza reale di determinate tutele in cambio di un piccolo risparmio monetario, cioè virtuale, e di chi vende, che rinuncia al pieno godimento di un bene per non doverlo cedere. Un’alternativa – o un’anticamera – soffice all’ipoteca e alla liquidazione.
Resta naturalmente un punto irrisolto. Se il vantaggio regolatorio e fiscale della sharing economy poggia sulla natura non lucrativa delle attività coinvolte, la loro professionalizzazione implica un cambio di statuto che non può non abbattersi su quel vantaggio. Se e quando i tassisti saranno messi in minoranza dai volenterosi part-timer di Uber, per quale fantasiosa ragione l’erario non dovrebbe recuperare il mancato gettito aggredendo i ricavi dei secondi? E per quale misteriosa mutazione un regolatore feroce e opprimente con gli uni diventerebbe mite ed etereo con gli altri?
Ai ragliatori della deregolamentazione dispiacerebbe sapere che tra le grandi città che hanno pesantemente normato e limitato l’home sharing si annoverano già noti ricettacoli di marxisti come San Francisco, New York, Londra e Amsterdam. E che in Inghilterra le toghe rosse (red gowns) hanno recentemente obbligato Uber ad applicare i minimi salariali riconoscendone l’implicito ruolo di datore di lavoro. E che il servizio è addirittura interdetto in una lunga serie di oasi comuniste e tecnologicamente arretrate come Texas, Alaska, Nevada, Paesi Bassi, Finlandia, Sud Corea, Vancouver (Canada), Queensland (Australia), Barcellona, Francoforte e altri.
Ma se anche riuscissero a ragliare così forte da indurre le amministrazioni ad allentare la morsa regolatoria che protegge cittadini e lavoratori (ipotesi perfettamente in linea con lo Zeitgeist), nulla potrebbero contro il backlash regolatorio auspicato proprio dai nuovi entrati. Perché questo sfugge sempre ai detti ragliatori: che la regolazione è un profondo fossato che circonda e protegge i mercati. E che la sospensione delle regole coincide con un furtivo abbassamento del ponte levatoio sì da consentire l’ingresso degli assedianti, dopodiché saranno questi ultimi, impadronitisi della fortezza, a sbarrare in tutta fretta gli accessi per escludere la concorrenza.
In questa strategia di attacco la sharing economy vuole essere il cavallo di Troia, il dono di un (finto) risparmio da pochi euro per spalancare mercati da miliardi. Poi le nuove regole, cioè i nuovi fossati, saranno naturalmente informate alla tutela dei vincitori, secondo un pattern già illustrato su questo blog a proposito di tutt’altro servizio, la distribuzione del gas naturale. Lì la liberalizzazione serviva a scalzare il monopolio pubblico per aprire la strada al monopolio privato, mentre la concomitante regolazione provvedeva a blindare il vantaggio finanziario dei nuovi monopolizzanti.
Per finire vogliamo spendere una parola sul concetto di sharing, di condivisione che presta il nome a questa rivoluzione nominale. Sul piano giuridico ed economico la qualifica è irrilevante. Chi presta un bene dietro compenso lo affitta, chi lo utilizza per vendere un servizio lo sfrutta. In entrambi i casi non condivide un bel niente. La scelta del lessico intende piuttosto capitalizzare una prossimità semantica con le costellazioni valoriali in cui gravitano socialità, generosità e apertura all’altro, ma anche ottimizzazione delle risorse e rinuncia ai lussi individuali per il bene di tutti.
Quella del cum-dividere è un’azione collettiva, un antidoto all’egoismo e all’ingordigia dei singoli che strizza l’occhio alla sinistra ecologica e comunitaria, ai decrescisti, ai democratici dal basso. Purtroppo nei fatti sembra però accadere il contrario, che quella piramide si manifesti piuttosto come una confluenza dalla base al vertice, dall’imprenditorialità diffusa dei tassisti, delle compagnie di trasporto e degli albergatori indipendenti o in franchising a un operatore unico che detiene le chiavi telematiche per accedere al mercato, detta unilateralmente le condizioni retributive (tutt’altro che generose, stando alla sentenza dei giudici inglesi), delega ai lavoratori la responsabilità dei mezzi di produzione e, una volta abbarbicatosi al vertice, fissa i prezzi senza l’assillo dei competitori. Ecco la liberalizzazione, ecco la non concorrenza che i tassisti temono e che, forse, dovremmo temere anche noi.
da Il Pedante