Quando si dice la fantasia! Se i fanatici del “vincolo esterno” tornano al lessico degli anni novanta…
A volte è bello notare quanto sappia esser nostalgico il “nuovo”. E più che il ritorno di concetti mai davvero dismessi, colpisce la ricomparsa di certe parole. Quelle sì almeno in parte eclissatesi nel tempo della crisi. Adesso però riemergono, nell’umana illusione che la fine sia un inizio.
Non stiamo filosofeggiando su una sorta di “eterno ritorno” alla Nietzsche. Molto più modestamente ci stiamo solo occupando dei nostrani fanatici del “vincolo esterno”, quelli che l’Italia la vorrebbero raddrizzare facendola a pezzi a colpi d’Europa.
Abbiamo già parlato di costoro un paio di settimane fa, a proposito di quel che bolle nel grande pentolone eurista. C’è infatti in giro una nuova narrazione, quella secondo cui anche l’Unione Europea per sopravvivere ha bisogno di un “vincolo esterno”, e questo sarebbe inopinatamente arrivato con l’elezione di Trump.
Siccome – questa grosso modo è la tesi – con il nuovo presidente gli USA non considerano più l’UE come un bene da preservare, occorre che gli europei imparino a badare a se stessi. Inutile dire quanto sia razzista questa idea di popoli-bambini che abbisognano sempre di “protettori” che li mettano in riga. Ma la piramide disegnata da questi maniaci è ovviamente più insidiosa: poiché la comitiva dei ventotto (presto ventisette) rischia di disperdersi, occorre che essa marci in modo ben organizzato. Magari a “diverse velocità”, ma con un ordine ed una disciplina di livello superiore. Una disciplina teutonica, diciamo. Da qui la priorità di rafforzare l’altro “vincolo esterno”, quello che dovrebbe dettar legge fin nei movimenti involontari della respirazione dei popoli del sud Europa.
E’ qui, nel descrivere la necessità di questa forzata omologazione allo standard tedesco, nella negazione di ogni diritto politico e sociale al popolo lavoratore, che i cantori dell’antica bellezza del “vincolo esterno” tornano a dar bella mostra di sé, di quanto son fanatici ma pure sciocchi. Ed è qui che rifioriscono le parole degli anni che precedettero l’ingresso nel paradiso dell’euro.
Ma prima di passare in rassegna il loro florilegio di bestialità, diamo la parola ad uno di essi (Franco Venturini, Corriere della Sera del 26 febbraio), affinché ci spieghi la ragione della loro illusoria ossessione. Leggiamo:
«Siamo in pieno paradosso. In sessant’anni di vita la costruzione europea non era mai stata tanto vicina alla disgregazione, mai prima un grande Paese aveva deciso di lasciarla come avviene con la Brexit, mai un Presidente degli Stati Uniti aveva fatto l’occhiolino alla sua morte prevedendo nuove defezioni. Ed ecco che nell’ora del massimo pericolo, con i cosiddetti «populisti» decisi ad espugnare le urne che contano, la platea elettorale viene occupata da europeisti di ferro come Schultz e Macron. La loro ascesa è fragile, soprattutto quella di Macron che non ha un partito alle spalle. Ma senza dare per scontato quello che ancora non lo è, risulta impossibile non rilevare l’inversione di tendenza».
Ecco il colpo di coda. Dopo che negli ultimi tempi la realtà delle cose li aveva costretti a ragionare sull’intima fragilità del folle disegno europeista, eccoli aggrapparsi alla loro ultima speranza, quella che si rinverdisca come per incanto quell’asse carolingio sul cui carro vorrebbero salire. E difatti il discorso di Venturini subito si sposta sul nostro Paese: «E l’Italia? L’Italia si muove, ma in contromano», che è peraltro anche il titolo dell’editoriale in questione.
Siamo così arrivati a bomba. Secondo costoro il mito europeista potrebbe alla fine riprendersi, se non fosse per quella pesante zavorra chiamata Italia. E allora giù con il revival delle loro parole chiave. I mali del Belpaese? Secondo Venturini il proporzionale, l’ingovernabilità, i conti pubblici. Peccato che il sistema elettorale non sia affatto proporzionale; peccato che a rendere il governo più difficile sia una crisi targata Europa; peccato che anche il dissesto dei conti pubblici arrivi, via austerithy, proprio da lì. Ma tant’è. Loro mica ci propongono un ragionamento, ma solo parole in grado di tenere ben chiusa quella gabbia che amano tanto.
Parole, come quel campionario propostoci il giorno prima di Venturini da Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore (Il «fattore I» e gli esami di ammissione da superare). Ecco, con l’editorialista del giornale di Confindustria, siamo davvero ripiombati nei tristi anni novanta.
La “I” del titolo vuol dire ovviamente “Italia”, inteso come il male da estirpare. Come Venturini, Cerretelli non rinuncia agli stereotipi tradizionali del proporzionale e della ingovernabilità, ma va decisamente oltre. Benché a suo avviso ingovernabile, o magari proprio per questo, bisogna evitare a tutti i costi le elezioni anticipate «perché sono un lusso che, in questo momento, il Paese non si può permettere».
Viene da pensare che forse questo lusso andrà in qualche modo cancellato del tutto. Eh! Se potessero non ci perderebbero lo spazio di un mattino! Ma visto che almeno per ora non possono, provano almeno a sfiancarci con le loro geremiadi.
Adriana Cerretelli non ci parla però solo di politica, mettendo invece al centro l’economia. L’Italia di oggi? «Calo di produttività, emorragia di competitività, riforme lente e non sempre incisive, debito altissimo, banche fragili, montagne di crediti deteriorati…». Oh bella! Ma tutto ciò è dopo un quarto di secolo da Maastricht ed a quasi vent’anni dall’ingresso nella “seria A” dell’euro! Non è che per caso vi sia piuttosto una relazione tra le due cose?
Non sia mai detto, che qui bisogna solo sbrigarsi. Finiremmo, viceversa, nel «regime duro dei sorvegliati speciali europei». Involontariamente la povera Cerretelli finisce così per darci ragione: quella europea non è una “casa”, quanto piuttosto una prigione nella quale magari accontentarsi di un regime un po’ meno duro di quello riservato ai greci.
L’editorialista del Sole è però inarrestabile. Per lei «l’Italia non può più permettersi di vivacchiare» e deve abbandonare le proprie «devianze» (sic!). Tutto ciò, beninteso, per il suo stesso bene, per «scongiurare il rischio della propria auto-emarginazione». Perché tutto è colpa dell’Italia, e non parliamo poi degli italiani, salvo i presenti e gli editorialisti ben retribuiti!
Tutte queste raccomandazioni a tirare la cinghia, ovviamente quella degli altri, hanno però il nobile scopo di evitare «l’auto-emarginazione». Dal che si potrebbe dedurre che l’Europa è buona per definizione e gli italiani imbecilli per costituzione. Ma qui Cerretelli cade in fallo, dandoci infine l’annuncio che conta. E qual è quest’annuncio? Eccolo: «L’Europa è alla vigilia di una nuova selezione darwiniana».
Selezione darwiniana! C’è bisogno di dire altro sul mostro eurista di cui stiamo parlando? A me sembra che almeno per oggi possa bastare.
Inutile dire che la metafora utilizzata per descriverci la nuova selezione è di tipo calcistico. Per Venturini si tratta di stabilire se giocheremo in “serie A” od in “serie B“, mentre per Alberto Quadrio Curzio (vedi Convergenza obbligata per rilanciare l’Europa, sul Sole di oggi) si tratta di stabilire «in quale girone potrebbe finire l’Italia».
Davvero uno stucchevole linguaggio da anni novanta. Ed è a quell’Età dell’oro del mito eurista che ci riporta il presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei. Il quale ci dice che «per 60 anni siamo stati nel primo “girone” agganciato anche con l’ingresso nell’euro per merito del duo Prodi-Ciampi e per la motivazione di gran parte degli italiani».
Qui Quadrio Curzio ci dice tre cose di un certo rilievo. Due sono confessioni; l’altra è una verità che merita qualche precisazione.
La prima cosa che ci dice è che per molti decenni l’Italia non ha avuto problemi a stare “agganciata” all’Europa. Strano, ma non erano proprio gli anni del proporzionale, dell’instabilità politica (come loro la intendono), della crescita della spesa pubblica? Il Nostro non vi si sofferma, ma i conti del suo ragionamento proprio non tornano.
La seconda confessione riguarda il consenso, che prima c’era ma or non v’è più. Come la mettiamo con questo piccolo dettaglio? Che forse gli italiani, prima europeisti come pochi, sono improvvisamente impazziti? O non sarà che i fatti hanno la testa dura, anche se non proprio come quella di certi editorialisti?
Abbiamo detto, però, che c’è un’altra affermazione che merita qualche parola. Quella che riguarda San Carlo Azeglio Ciampi da Livorno. Se è esatto dire che egli fu protagonista – insieme a Prodi – della genialata dell’ingresso nell’euro, bisognerebbe magari aggiungere che a questa responsabilità storica se ne aggiunge un’altra: quella di aver fatto esplodere il debito pubblico italiano con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia (di cui era governatore) nel 1981.
Ci siamo infatti rotti di sentir parlare del male della spesa pubblica, delle pensioni, di un welfare che si vorrebbe eccessivo, senza capire cosa successe con quell’atto, il cui unico scopo fu quello di mettere i titoli del debito italiano nelle mani della finanza speculativa, nazionale ed internazionale. Qui bisogna far parlare i numeri. Ed i numeri ci dicono che in soli tredici anni il debito esplose dal 58,4% del 1981 al 121,8% del 1994. E quelli erano anni in cui il Pil cresceva!
Dunque, prima di certe prediche, sarebbe almeno opportuno dire qualcosa su tutto ciò. Ma questo scordatevelo, che gli editorialisti di cui ci siamo occupati non lo faranno mai e poi mai.
Essi sanno solo parlarci di quanto son fatti male gli italiani, di “gironi” e campionati, perché il peraltro incolpevole Darwin è vivo e lotta insieme a loro. Ma è proprio questo ritorno al lessico degli anni novanta – mai abbandonato, si sa, ma oggi riproposto nella sua interezza – a parlarci della loro attuale mancanza di argomenti.
Tranquilli, però, perché verrà il giorno in cui gli faremo una pernacchia. Ma ad una Cerretelli che mette tra la colpe degli italiani anche quella di vivere a sud delle Alpi – eh! «Le Alpi ci dividono dalla Mitteleuropa» – diciamo fin d’ora: Viva le Alpi!