Perché ci siamo sbagliati sulla data delle elezioni
Ormai è quasi certo: salvo incidenti, non impossibili ma al momento improbabili, si voterà nel 2018. In diversi articoli, a partire dalla fatidica data del 4 dicembre, avevamo invece sostenuto il contrario. Cosa è cambiato nelle ultime settimane? Esaminare le ragioni che portavano alla previsione delle elezioni anticipate, e quelle che oggi vanno invece in direzione opposta, può essere utile per mettere a fuoco alcuni elementi di novità.
Perché, ben sapendo che forze non indifferenti stavano lavorando per il rinvio, ritenevamo comunque probabili le elezioni a giugno? Essenzialmente per quattro motivi:
Primo, perché questo avrebbe consentito di risolvere la questione del governo prima della prossima legge di bilancio. Legge che potrebbe rivelarsi assai pesante, in termini di consenso, per le forze della maggioranza governativa, ed innanzitutto per il Pd.
Secondo, perché il gruppo di potere che si raccoglie attorno a Renzi aveva tutto da guadagnare nell’anticipo e tutto da perdere nel rinvio. Pur uscita sconfitta e ridimensionata dalle urne referendarie, questa cricca manteneva infatti una notevole forza nel Pd e nella compagine governativa.
Terzo, perché il governo Gentiloni era nato con il dichiarato scopo di arrivare al voto una volta definita la questione della legge elettorale. Ora, siccome è stato subito chiaro, fin dalla sentenza della Corte Costituzionale del 25 gennaio, che (salvo qualche possibile “manutenzione” a quanto uscito dalla Consulta) l’attuale parlamento non è in grado di varare una nuova legge, veniva meno la stessa ragion d’essere ufficiale dell’attuale esecutivo.
Quarto, perché il voto a giugno avrebbe colto il Movimento Cinque Stelle in difficoltà per le vicende romane, la destra in uno stato di rara disorganizzazione, gli scissionisti del Pd impreparati allo scontro elettorale anche solo per una banale questione di tempo.
Evidente come la somma di tutti questi fattori avrebbe dovuto condurre al voto anticipato. Vero che Mattarella remava in senso opposto, così come altri palazzi del potere, ma il governo e il parlamento di questa legislatura hanno un unico dominus, il Pd. E l’interesse del Pd, e più ancora quello del suo capo, proprio non lasciava adito a dubbi.
Poi, ad un certo punto, le cose sono cambiate. La scissione dei bersaniani ha preso forma ed il partito dei “frenatori” interno al suo partito (vedi la vicenda della data delle primarie) ha costretto Renzi a più miti consigli. Inutile dire che quei frenatori erano certamente al corrente di quel che stava per capitare al loro ormai ex segretario.
La mia opinione è che l’elemento decisivo di questa svolta sia stata infatti l’inchiesta sulla Consip, che ha toccato non solo il “Giglio magico”, ma pure la famiglia dell’ex presidente del consiglio. Ovviamente, sappiamo bene come lo sviluppo delle inchieste sulla politica dipenda da tanti fattori. Ed esse vanno in genere a segno quando il bersaglio è già indebolito per altri motivi. Detto in altro modo, un Renzi che avesse disgraziatamente vinto il referendum ben difficilmente sarebbe stato poi colpito così da vicino dalla magistratura. Insomma, in questi casi un’inchiesta non è solo un fatto giudiziario, quanto piuttosto il segno di equilibri di potere che stanno rapidamente cambiando.
Così descrivevamo la nuova situazione il 4 marzo scorso: «Dunque il “fenomeno” Renzi volge al tramonto. L’esperienza lo insegna. Quando le sconfitte elettorali si incrociano con le inchieste sul malaffare è quasi sempre troppo tardi per recuperare la china. E se poi ti si è spaccato il partito, ed i vecchi amici son diventati dei probabili traditori, la partita è praticamente chiusa. Mettiamoci pure il coinvolgimento della famiglia ed il quadretto è completo».
Questa fotografia ci dice appunto quanto le cose si intreccino nel momento del declino di un fenomeno politico. Un declino che ha il suo punto centrale nell’eclissarsi di quella narrazione renziana che era stata vincente: il nuovo, il giovane, la rottamazione, la velocità, il decisionismo, la forza dell’uomo solo al comando. Tutto ciò si è praticamente dissolto. Il grigiore ed il déjà vu di quel “ricominciamo” visto nei giorni scorsi alla convention del Lingotto, che tanto ricorda l’eterna “ridiscesa in campo” dell’ammuffito Buffone di Arcore, più che di un nuovo inizio ci parla di un partito e di una leadership in crisi profonda.
Tuttavia, dal punto di vista sistemico, pare ancora impossibile prescindere dal Pd per trovare la quadra di una maggioranza di governo nella nuova legislatura. Al tempo stesso Renzi è a tutt’oggi il candidato che ha più probabilità di vincere le primarie. Quali sono dunque i nuovi scenari ai quali sta lavorando il blocco dominante?
Breve precisazione. Parlare di “blocco dominante” ci serve per descrivere il raggruppamento dei poteri oligarchici tenuti insieme dai comuni interessi di classe. Ma tale comunanza non comporta che esso sia sempre unito sulle scelte da adottare. In altri termini, mentre esiste il sistema, non esiste ovviamente il “signor sistema” che decide per tutti.
La domanda di cui sopra può essere perciò così riformulata: a cosa puntano quei settori – adesso rivelatisi vincenti – che mirano ad arrivare in fondo alla legislatura?
La prima risposta, banale ma non per questo errata, è che di fronte alle difficoltà essi abbiano intanto pensato a prendere tempo. Ma questa scelta si giustifica solo con un certo utilizzo del tempo guadagnato. Viceversa, le forze sistemiche incasserebbero solo gli svantaggi del rinvio che abbiamo descritto all’inizio.
Cosa hanno dunque in mente lorsignori? Quali operazioni politiche dobbiamo aspettarci? Proviamo a ragionarci un po’.
E’ chiaro come il piano A, basato su un neo-bipolarismo favorito da una nuova legge elettorale maggioritaria (tipo il Mattarellum proposto dal Pd e dai bersaniani), ha ormai ben poche possibilità di riuscita. Non solo perché in parlamento non potrebbe esserci un accordo sufficientemente largo su una tale proposta, ma anche perché a questo punto – dato l’approfondirsi della crisi del Pd – nessuna può sapere con certezza chi ne sarebbe davvero avvantaggiato.
Non resta dunque che il piano B, quello delle larghe intese, che detto così sembra cosa facile, ma che semplice invece non è.
Larghe intese. Quanto larghe è facile a dirsi: quanto serve per raggiungere almeno il fatidico 50%+1 dei seggi. Ma intese tra chi? Qui il discorso si complica, dato che tradizionalmente si usa questa formula intendendola come coalizione di governo tra le due forze politiche principali, vedi l’attuale modello tedesco. Ma in Italia questo significherebbe un accordo tra Pd e M5S, un’ipotesi che qualcuno ritiene possibile, ma che personalmente giudico del tutto improbabile, data l’assoluta instabilità di una simile alleanza, che peraltro condurrebbe ad una spaccatura certa nel campo pentastellato.
Altri, quasi fossimo ancora nel cuore della seconda repubblica, parlano di larghe intese riferendosi ad una maggioranza Pd-Forza Italia, trascurando due fattori invece decisivi: che Forza Italia non è più egemone sull’insieme della destra, che la somma dei seggi di questi due partiti non arriverà di certo alla maggioranza assoluta in parlamento.
Chi scrive, già agli inizi di febbraio, parlando dell’imminente scissione piddina, si interrogava sulla possibilità che si stesse lavorando ad una coalizione Franceschini-D’Alema-Berlusconi nella prossima legislatura. Naturalmente in quella formula, solo apparentemente provocatoria, i nomi erano la cosa meno importante, volendo solo rappresentare il primo un Pd sostanzialmente post-renziano, il secondo un’area di sinistra pienamente integrabile in una tale coalizione, il terzo una destra ben felice di rientrare al governo anche allo scopo di difendere i privati interessi del proprio leader.
Perché una simile ipotesi? Per una sola ma decisiva ragione: perché altrimenti nessuno avrà i numeri per governare. Se questa tesi è valida, ciò significa che ci attende una energica ristrutturazione dell’intero sistema politico. Ed è a questo che i dominanti stanno senz’altro lavorando, con l’obiettivo di rafforzare le forze sistemiche – e cioè euriste quanto variamente liberiste – sia nel campo della destra quanto in quello della “sinistra”.
Considerando evidentemente ormai troppo indebolito il cavallo renziano, è per dare concretezza a questo nuovo scenario che lorsignori hanno infine deciso di prendere tempo fino al 2018. E’ chiaro come in questa prospettiva le non dismesse ambizioni di Matteo Renzi rappresentino per i poteri oligarchici più un problema che una risorsa. Come andrà a risolversi una simile contraddizione chi scrive di certo non lo sa, ma sicuramente qualcosa accadrà nei prossimi mesi.
Al tempo stesso, l’abbiamo già detto, si andrà ad intervenire sia a destra che a “sinistra”. A destra isolando sempre più le velleità di Matteo Salvini, a “sinistra” dando il massimo spazio ad operazioni subalterne come quella del servitor cortese Giuliano Pisapia.
E’ palese che stiamo parlando di manovre politiche già abbondantemente in corso. Ma vediamo meglio cosa sta avvenendo nei due campi suddetti.
A destra le intenzioni di Berlusconi sono chiare, mentre discreti scricchiolii si odono nella componente lepenista. Giorgia Meloni ha apertamente proposto il listone unico per le amministrative come viatico per la sua presentazione alle politiche. Un’ipotesi che non può trovare favorevole Salvini, a meno che non venga incoronato come leader della coalizione. Ma questo è praticamente da escludere. Sta di fatto che lo stesso capo della Lega ha pensato bene di mandare un segnale a chi di dovere, schierandosi a difesa dei voucher e contro il referendum della Cgil. Nella prospettiva di un partito populista e nazionale, un indubbio segno di debolezza.
Hai voglia di sbraitare, ma non è facile accreditarsi come forza di opposizione quando si governa nell’interesse dei poteri oligarchici due grandi regioni del nord (più la Liguria) e, anche per questo, non si vuol rompere l’alleanza con l’ex cavaliere. Quale sia lo scontro interno alla Lega ce lo dice del resto assai bene il suo fondatore, Umberto Bossi, in un’intervista al Corriere della Sera di due giorni fa («La Lega nazionale morirà – Salvini al Sud crea solo caos») nella quale il senatur afferma che «non si vince raccattando i voti di quattro fascistoni». Insomma, per il progetto di Salvini le cose non sembrano proprio in discesa come pensano alcuni.
Quale forza avrà alla fine una destra disposta alle larghe intese ancora non possiamo saperlo, ma affinché l’operazione vada in porto di sicuro servirà anche l’aggiunta di un puntello a “sinistra”. Un’architettura indubbiamente un po’ spericolata – ma così richiedono i tempi – che avrebbe anche il pregio di consentire al Pd l’assunzione di un ruolo centrale in tutti i sensi. Roba da far leccare i baffi ad uno come Franceschini…
Nel campo “sinistro” le manovre sono per certi aspetti ancor più visibili. Del carattere sistemico dell’operazione dalemiana si è già detto. E del resto, cosa aspettarsi da una formazione che si presenta come la più fedele sostenitrice del governo Gentiloni? Ma il campo della sinistra è più vasto della riesumazione diessina di costoro. Ecco allora la super-sponsorizzazione assegnata da chi conta al Pisapia. Avete in mente cosa propone costui? Dal punto di vista dei contenuti il nulla assoluto, eppure i media ne parlano ad ogni sospiro. Ma i media non agiscono a vanvera, quantomeno non in casi del genere. Evidentemente chi sta in alto valuta che questa nullità, magari proprio perché tale, possa risultare alquanto utile.
Il perché è presto detto. Essendo il “populismo” variamente declinato il nemico delle èlite, è ovvio che si pensa di poter recuperare nell’ambito della sinistra globalista non pochi consensi che sfuggirebbero sia al Pd che ai suoi transfughi.
Riusciranno queste operazioni nell’intento di fermare M5S da un lato e la Lega salviniana dall’altro? Credo che nei prossimi mesi ne vedremo delle belle, ma di certo non abbiamo la sfera di cristallo. Verosimilmente la loro riuscita sarà solo parziale, ma probabilmente basterà a far nascere un altro governo eurista quanto liberista. Che poi un esecutivo basato su una simile coalizione, in un contesto come quello attuale, possa reggere il tempo di una legislatura, questo non lo crediamo proprio. Ma intanto lorsignori cercheranno di prender tempo una volta ancora.
Se potranno farlo, sarà anche a causa della debolezza intrinseca delle attuali forze di opposizione. Tralasciando qui la pencolante Sinistra Italiana, sul cui futuro non scommetteremmo un cent della moneta che amano tanto, né M5S né la Lega – fatte le dovute differenze – riescono a porsi all’altezza della situazione. Ragion per cui avranno magari la soddisfazione di un buon risultato elettorale, ma non quella di rovesciare davvero gli attuali assetti politici.
Un compito questo che non può essere assolto né da un populismo di marca lepenista, né da uno d’impronta meramente giustizialista; entrambi ancora interni ad una visione liberista della società. Un compito – quello della rottura dell’attuale sistema politico – che richiede un’autentica rivoluzione democratica, e dunque la discesa in campo di tante altre forze disposte ad unirsi, con una grande mobilitazione popolare ispirata ad un populismo democratico e costituzionale. E, per quanto ci riguarda, socialista.