A proposito della «Dichiarazione di Roma»
Abbiamo letto e riletto la «Dichiarazione di Roma» 2017, un testo che non vale la carta sulla quale è stato scritto. Letto e riletto non perché ci aspettassimo chissà che cosa, ma giusto per provare a capire cosa frulla nella testa di chi l’ha promosso e sottoscritto.
Lasciamo dunque perdere le tonnellate di retorica profusa a piene mani con affermazioni propagandistiche del tipo «siamo orgogliosi dei risultati raggiunti dall’Unione europea». Lasciamo perdere i successi vantati in materia economica e sociale, come se il degrado crescente di questi anni potesse essere nascosto ai popoli europei. Lasciamo perdere il «coraggio e la lungimiranza», che governanti quanto mai scadenti hanno deciso di auto-attribuirsi fin dall’incipit di questo testo destinato al cestino dei rifiuti.
Lasciamo perdere tutto questo, come pure la pittoresca affermazione secondo cui «l’unità europea… è diventata la speranza di molti», che detto a pochi giorni dall’attivazione della Brexit fa leggermente sorridere.
Quel che invece vorremmo capire è dove questi venditori di sogni scaduti pensano di andare a parare. E qui è buio fitto.
Essi ci dicono che vogliono rendere «l’Unione europea più forte e resiliente». E perché mai visto che nel loro componimento tutto sembra andare per il meglio? Chissà. In ogni caso ci ammoniscono che «agendo singolarmente saremmo tagliati fuori dalle dinamiche mondiali». Dunque, bisogna andare avanti, ma come e per quali obiettivi?
In verità gli obiettivi elencati sono sempre i soliti. Si dice di volere «un’Europa sicura… prospera… più forte». E visto che tanto le parole non costano niente si azzarda perfino «un’Europa sociale» (pare che questo sia stato il “successo” di Tsipras), peccato che sul punto non si avanzi la benché minima ideuzza.
Ma qual è l’unico punto, invece, dove si scende nel concreto? Eccolo. I 27 vogliono «un’Unione pronta ad assumersi maggiori responsabilità e a contribuire alla creazione di un’industria della difesa più competitiva e integrata; un’Unione impegnata a rafforzare la propria sicurezza e difesa comuni, anche in cooperazione e complementarità con l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico». Insomma, più spese militari e più guerre, stando sempre sull’attenti davanti ai generali della NATO ed ai loro superiori d’oltreoceano.
Più atteso – specie dopo le parole della Merkel sulle «due velocità» – era il discorso sul “come” la leadership europea pensa di rilanciare l’Unione. Sul punto la formula di questi azzeccagarbugli a dimensione continentale è davvero spassosa: «Agiremo congiuntamente, a ritmi e con intensità diversi se necessario, ma sempre procedendo nella stessa direzione, come abbiamo fatto in passato, in linea con i trattati e lasciando la porta aperta a coloro che desiderano associarsi successivamente. La nostra Unione è indivisa e indivisibile».
Come non notare alcune divertenti contraddizioni: se l’Unione è «indivisa e indivisibile» perché ipotizzare «ritmi e intensità diversi»? Cosa vuol dire poi il lasciare «la porta aperta a coloro che decidono di associarsi successivamente» se l’Unione nel frattempo non si è di fatto divisa?
E’ evidente come il testo del vertice romano sia il frutto di un grottesco compromesso. Nessuno voleva rovinare la festa del sessantesimo anniversario, ma nessuna idea degna di questo nome è presente nel documento conclusivo.
Tra i commentatori, anche tra gli euristi in servizio permanente effettivo, la delusione è palpabile. Va bene che vendere balle rende assai, ma a tutto c’è un limite. Franco Venturini, che pure sembra piuttosto convinto delle “due velocità”, e che ci assicura che quella di Roma non è stata «festa ipocrita», ammette sulla prima pagina del Corriere di domenica che: «E’ accaduto così che ieri qualche testa venisse infilata nella sabbia unitaria, che dissensi assai vivi e assai noti venissero taciuti, che fosse preservata la tradizionale usanza celebrativa di dar fiato alle trombe».
E Massimo Giannini, sulla Repubblica di oggi, sia pure in un articolo di attacco ad M5S, parla del vertice UE come di «liturgia laica di una élite in deficit di legittimazione che affida a un documento vagamente “doroteo” le sue flebili speranze di ricongiungersi a un popolo in deficit di rappresentanza».
Per una volta – che Dio ci perdoni! – dobbiamo dire bravo a Giannini. L’etichetta di doroteo è proprio azzeccata. Ma, si chiederanno almeno i più giovani, chi erano i dorotei? Non volendo allungare troppo il discorso rimandiamo gli interessati a Wikipedia, ma quel che qui è importante comprendere è che il felpato linguaggio doroteo era uno degli strumenti di una concezione e di una gestione del potere basata sulle furberie e l’intrallazzo, laddove più che le grandi scelte di fondo contava il controllo del sottobosco clientelare ed affaristico.
Ma che c’entra tutto ciò con le odierne vicende dell’UE? Apparentemente nulla, dato che la caratteristica fondamentale dei dorotei era quella di navigare prudentemente, ma profittevolmente, nelle tranquille acque di una situazione economica abbastanza florida; mentre oggi la cricca eurocratica ha il problema di provare ad uscire da una crisi ormai decennale. Una crisi, non solo economica, che ben difficilmente potrà essere affrontata con la metodologia dorotea. Ma siccome la crisi è anche di prospettiva, e lorsignori non sanno ancora bene cosa fare, ecco che intanto del doroteismo adottano il linguaggio.
Naturalmente, è assai probabile che dalle parti di Berlino si abbiano idee decisamente più chiare sul da farsi. Ma si tratta evidentemente di idee ancora indicibili. In attesa che la nebbia si schiarisca spunta allora il linguaggio doroteo, adottato stavolta su scala europea. Non sappiamo quanto durerà questa fase – sicuramente fino alle elezioni tedesche, più probabilmente fino a quelle italiane – ma intanto anche questo periodo “doroteo”* è lì a parlarci di un’Unione sul viale del tramonto.
* La corrente dorotea della Dc, certo non casualmente, fu la prima a disgregarsi quando il partito venne travolto dal crollo della prima repubblica. Questo per dire che nei momenti topici della politica il linguaggio ipocrita ed iper-controllato, adatto alla mera gestione di un potere indiscusso, non solo non è un vantaggio, ma è la più lampante dimostrazione dell’incapacità di affrontare i problemi. E questo, palesemente, riguarda molto da vicino l’Unione Europea e i suoi attuali 27 leader.