Il rito stanco del congresso di Rifondazione

Si svolgerà questo fine settimana a Spoleto il decimo congresso del Prc. Vista la condizione in cui versa quel partito, il rito congressuale si presenta ancor più stanco di altre volte. Lo scontro è tra due documenti figli della stessa cultura politica: quella che ha condotto non solo Rifondazione, ma l’insieme della «sinistra sinistrata» (così la chiamiamo noi), sul binario morto della storia.

Quando scriviamo «sinistra sinistrata» non lo facciamo certo con piacere. Benché sia il frutto più che meritato di scelte politiche ultradecennali, a noi quel «sinistro» dispiace davvero. E dispiace per due motivi: primo perché l’odierna battaglia anti-oligarchica avrebbe bisogno della parte migliore di queste forze; secondo – nello specifico di Rifondazione – perché nelle sue fila vi sono ancora tanti compagni che meriterebbero ben altre prospettive.

E’ per questo che ci occupiamo del congresso del Prc, anche se a dire il vero  non ci aspettiamo da questa assise nulla di nuovo, tantomeno di positivo. D’altronde è questa una condizione condivisa con l’intero campo della sinistra sinistrata. Si pensi al pittoresco congresso di Sinistra Italiana, un appuntamento che avrebbe dovuto segnare una fusione di forze e che ha invece registrato la spaccatura verticale della vecchia Sel, con i delegati attaccati allo smartphone in attesa di sapere quel che decidevano i bersaniani, un po’ come facevano i tifosi delle squadre minori di una volta che seguivano le partite dei campi principali con la radiolina.

I delegati di Rifondazione non avranno invece altri campi da cui attendere notizie, ma ciò non toglie che sarà proprio la partita della nuova operazione elettoralistica già all’orizzonte, più che la discussione congressuale, il vero terreno di gioco dove si deciderà il futuro del partito.

Ma qui ci occuperemo soltanto del contenuto dei due documenti in discussione: il Documento n. 1, proposto da Paolo Ferrero e dal grosso del gruppo dirigente; il Documento 2, sottoscritto da un’area piuttosto eterogenea, con al proprio interno una componente “comunista” (più o meno quella che al precedente congresso aveva presentato il documento dal titolo «Per la Rifondazione di un Partito Comunista», ed un’altra – decisamente movimentista – capeggiata dall’europarlamentare nonché nota euro-confusionaria Eleonora Forenza.

Ognuno di questi due documenti si differenzia poi al proprio interno con alcuni emendamenti e tesi alternative su varie questioni. Particolarmente significative le divergenze sul tema dell’euro e dell’UE sia nel primo che nel secondo documento. Ma prima di concentrarci su questi nodi, per noi decisivi, possono essere utili alcune noterelle più generali sul significato dei due testi.

Il documento n. 1

Riguardo al documento 1, quello di maggioranza (i dati dei congressi di circolo gli attribuiscono oltre il 70% dei consensi), ci limitiamo a quattro notazioni.

La prima riguarda l’insistenza sul tema della società dell’1%, collegata alla critica del paradigma della scarsità utilizzato dai dominanti come strumento di gestione della crisi. Che dire? E’ ben noto come il neoliberismo abbia prodotto la più grande disuguaglianza della storia, così com’è altrettanto noto come l’attuale sviluppo delle forze produttive consentirebbe di vivere dignitosamente all’intera umanità. Due fatti da sottolineare – ci mancherebbe! – ma che nel ragionamento ferreriano vorrebbero condurci a due conseguenze invece inaccettabili.

La prima – se vogliamo più contingente – consiste nel far credere che le politiche euro-austeritarie siano superabili solo con un po’ di volontà politica, schivando così il nodo della necessaria fuoriuscita dalla gabbia sistemica costruita attorno alla moneta unica. La seconda conseguenza, di portata strategica, dell’argomentazione del gruppo dirigente rifondarolo, sta invece nella riduzione del conflitto di classe alla sola dimensione redistributiva. Dimensione importante, ovviamente, ma decisamente insufficiente  per una forza che si vorrebbe ancora comunista.

La seconda notazione riguarda il tema della rifondazione. Tema che sta nel nome di quel partito, ma da sempre lettera morta nella sua riflessione interna. In proposito il documento parla di una «rifondazione che viviamo come processo permanente». Chiaro, siccome è «permanente», non c’è luogo spazio-temporale in cui se ne possa discutere. Certo, il tema è tosto, ma come scappatoia questa è proprio pacchiana.

Il documento lascia comunque intendere che – lungi dal misurarsi con le asprezze e le macerie della storia – questa “rifondazione” avrebbe più che altro a che fare con la cosiddetta contaminazione con altre culture (il femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo, eccetera). Peccato che sugli effetti di tali “contaminazioni”, assunte per lo più alla rinfusa ormai da decenni, si sfugga sistematicamente ad un bilancio che obbligherebbe ad una sistematizzazione teorica d’altro livello.

La terza osservazione concerne invece la politica internazionale, ed in particolare le valutazioni espresse sul mondo islamico. Parlando, con linguaggio bergogliano, della cosiddetta «guerra a pezzi», questo il lapidario giudizio sulle sollevazioni popolari del 2011 nel mondo arabo: «La stagione di quelle che erano state definite le primavere arabe, ad eccezione della Tunisia, ha visto ovunque il rafforzamento delle frazioni più reazionarie, sostenute dalle petro-monarchie del golfo tradizionalmente alleate degli Usa, finanziatrici delle forze più reazionarie e conservatrici dell’Islam politico dai tempi della guerra in Afghanistan».

Eh no, compagnucci cari! Troppo facile cavarsela così. A due domande almeno dovreste rispondere. La prima: quelle del 2011, pur con le loro differenze, sono state oppure no autentiche sollevazioni popolari? Secondo noi, sì. E ci pare difficile negarlo. La seconda: perché non c’è neppure una parola sull’Egitto? Probabilmente, pensiamo noi, perché bisognerebbe parlare di una deriva reazionaria e liberticida, ma non nell’alveo islamico come fa gioco credere, bensì proprio in contrapposizione alla Fratellanza Musulmana il cui governo è stato spazzato via da un sanguinario golpe “laico”.

In sintesi, quel che si coglie tra le righe è una certa islamofobia. Atteggiamento che spiega anche la lettura degli attuali conflitti nell’area, sui quali si parla giustamente del gioco delle potenze globali (Usa in primis), nonché di quelle regionali, ma nulla si dice dello scontro religioso in atto tra l’Islam sciita e quello sunnita. Ora, pretendere di capire le ragioni della Grande Guerra Mediorientale prescindendo dallo scontro interno al mondo islamico è davvero troppo. Ed è una rimozione rivelatrice  di quanto il cosmopolitismo di sinistra altro non sia che una copia a malapena ritoccata del tradizionale occidentalo-centrismo delle élite dominanti, una visione del mondo che non considera, o ritiene comunque ininfluenti, le culture e le religioni diverse da quelle dell’occidente.

La quarta considerazione la vogliamo fare sulla proposta politica a livello nazionale, quella della costruzione di «un soggetto unitario della sinistra antiliberista», alternativo al Pd, con un simbolo unitario per le elezioni, senza però chiedere lo scioglimento delle forze che ne faranno parte. In pratica è la riproposizione di una sorta di Izquierda Unida all’italiana. L’idea non è nuova, ma proprio per questo non si capisce perché questa volta dovrebbe avere successo. Evidentemente i fallimenti del 2008 (Sinistra Arcobaleno)  e del 2013 (Rivoluzione Civile) nulla hanno insegnato.

Aggregare le forze del piccolo mondo della sinistra sinistrata a poco serve, se non vi è la capacità di proporsi in modo nuovo, con un programma all’altezza dello scontro ed un profilo da forza popolare, capace cioè di incontrare la sofferenza ed il sentimento di una larga parte delle fasce popolari più colpite dalla crisi. E che questo sia un problemino niente male ce lo dice una banale osservazione. L’1% non è solo la percentuale della parte ricca della società descritta nel documento, l’1% è anche la quota di consensi attribuita oggi al partito di Ferrero. Ed è il residuo di una forza elettorale un tempo avvicinatasi al 10%.

Se questa è la società dell’1%, come mai il partito di Ferrero intercetta il consenso di un solo novantanovesimo della parte esclusa dai fasti del finanz-capitalismo? Ora, è vero che una volta persa la faccia (governo Prodi 2006-2008) riconquistare credibilità è assai arduo. Ma in questi anni, specie con lo scoppio della crisi, le occasioni per risalire la china non sono certo mancate. Se invece non solo non si sono colte, ma si è via via arretrati verso la situazione attuale, un motivo di fondo dovrà pur esserci. O no? Su questo, ovviamente, il documento 1 tace.

Il documento n. 2

Il documento di minoranza si caratterizza per tre cose: la critica – a tratti molto dura – dell’attuale gruppo dirigente, il tema della dicotomia basso-alto, la proposta dell’unità dei movimenti e dei conflitti al posto dell’unità della sinistra. Naturalmente, come ogni testo congressuale, il documento 2 contiene anche molte altre cose, ma queste tre ci sembrano quelle più significative da segnalare.

Il primo tema è quello del gruppo dirigente, attaccato frontalmente in diversi passaggi. Un attacco accompagnato da una descrizione apocalittica, quanto realistica, dello stato del partito: il calo dai 49mila iscritti del 2009 ai 15mila attuali, l’emorragia delle forze militanti, le riunioni degli organismi dirigenti quasi sempre prive del numero legale, la pratica dei commissariamenti delle federazioni, un gruppo dirigente unicamente impegnato a costruire scatole cinesi onde garantirsi la sopravvivenza, il pessimo clima interno dove gli esponenti della minoranza vengono non di rado apostrofati come “dementi”.

Insomma, una denuncia forte e facilmente condivisibile. Ma non sarà che tutto ciò dipenda in misura non secondaria dalla morte della politica determinata dal volersi arroccare in una nicchia identitaria – e di un’identità quanto mai flebile stiamo parlando -, figlia dell’incapacità di misurarsi con le contraddizioni dell’oggi? Così parrebbe a chi scrive. Ma se è in questo modo che stanno le cose la responsabilità non è solo dell’attuale maggioranza, ma anche di chi ne ha comunque condiviso l’impostazione di fondo in questi anni.

Il secondo
tema è invece quello della dicotomia basso-alto. Ricordando come la tesi centrale che aveva portato al successo della mozione Ferrero nel congresso di Chianciano 2008 era quella di «una “opposizione costituente”, di un’alternativa “in basso a sinistra” contro il verticismo che aveva caratterizzato Sinistra Arcobaleno, per la costruzione del partito sociale», il documento 2 denuncia come questa impostazione sia poi stata subito abbandonata.

Un errore piuttosto grave viste le novità politiche poi emerse tanto in Spagna quanto in Italia. Questo il passaggio del documento di minoranza: «Le potenzialità della svolta di Chianciano sono state disattese anche rispetto a una intuizione – la dicotomia basso contro alto – che avrebbe successivamente segnato profondamente la nascita di soggetti come Podemos e che nello spazio politico italiano è stata interpretata dal M5S».

Sante parole, se non fosse che a questa giustissima sottolineatura altro non segua che la riproposizione della più tradizionale delle concezioni movimentiste, evitando così di sporcarsi le mani con il terreno reale sul quale si svolge oggi la lotta per l’egemonia, cioè quello del cosiddetto “populismo”.

Il terzo tema è così non a caso quello della proposta politica. L’alternatività alla linea ferreriana è esplicitata già nel titolo del capitolo 9: «Dall’“Unità della sinistra” all’“unità dei conflitti”». Un’alternativa così descritta: «Ricostruire una forza politica delle lotte e dei conflitti, la loro efficacia sul terreno politico e sociale, non aggregare l’ennesima forza politica della sinistra. E’ in questa tensione che si può costruire uno spazio comune di convergenza dei soggetti politici e sociali dell’alternativa: città ribelli, esperienze di autogoverno, conflitti sociali e per la giustizia ambientale, spazi liberati, confederalità sociale, sindacalismo sociale e conflittuale».

Qui proprio non ci siamo. A parte il fatto che l’elenco dei soggetti è esattamente lo stesso propostoci da Ferrero – e questo un caso non è – ma come non rendersi conto di quanto sia più vasta e più problematica la platea alla quale rivolgersi? Se un’ammucchiata della sinistra politica avrebbe un’efficacia assai vicina allo zero, come si può pensare che il risultato sarebbe diverso con quella della sinistra sociale e dei modesti conflitti che produce?

La verità è che il mondo è assai più grande, che la sinistra potrà tornare ad avere un’utilità solo se saprà recuperare, mutatis mutandis, una capacità piuttosto banale, che un tempo aveva ed oggi non più: quella di saper parlare ai semplici, ai milioni di persone che soffrono o che comunque s’interrogano (ognuno a modo suo) su un futuro sempre più buio. E’ lì che c’è la domanda di un’alternativa. Ma è una domanda confusa, talvolta con sfumature di “sinistra”, altre con venature di “destra”, più spesso con un mix di entrambe le cose. Il tutto quasi sempre in una visione del mondo che non può aver già rotto con la narrazione neoliberista. Occorre perciò sporcarsi le mani, andare al popolo con idee forti, proposte chiare ma tanta, tanta modestia. Il “saper parlare” – che richiede comunque l’abbandono di quel gergale “sinistrismo” che è ormai inascoltabile dal 98% della popolazione – non è dunque una semplice questione di linguaggio, quanto piuttosto di atteggiamento.

Il nodo dell’euro e dell’UE nel documento 1…

Veniamo adesso alle diverse posizioni sull’euro e sull’UE, cercando di districarci tra tesi ed emendamenti. Nel documento 1, alla tradizionale impostazione della maggioranza – questa UE è irriformabile e dunque va rovesciata, ma guai al ritorno agli stati nazionali, anche perché il livello europeo è quello ideale per sviluppare la lotta di classe – si contrappone, in sostituzione dell’intero capitolo 5, la Tesi A proposta da Dino Greco, Domenico Moro ed altri. E’ questo un testo nitido e profondo che ci sentiamo di condividere totalmente e del quale consigliamo la lettura integrale.

Su questo punto, a costo di allungare un po’ troppo il testo, sono sicuramente utili alcune citazioni. Nelle tesi di maggioranza il no alla sovranità nazionale è netto. Leggiamo: «Né la prospettiva può essere quella del ritorno agli stati nazionali che per l’inefficacia del livello nazionale di incidere sui processi di accumulazione, finisce per entrare in contraddizione con gli obiettivi di recupero di sovranità popolare ed è destinata a subire strutturalmente l’egemonia della destra, in cui assume una centralità assorbente la declinazione della sovranità nei termini del controllo dell’immigrazione».

Questo no alla sovranità nazionale viene giustificato, quasi fosse una novità assoluta, dal livello sovranazionale in cui avviene l’accumulazione capitalistica: «Il livello Europeo – il più grande mercato del mondo e il più grande apparato produttivo del mondo – si presenta quindi come il livello adeguato in cui costruire quel potere politico e democratico in grado di incidere efficacemente sul capitale, mettendone in discussione la sovranità incontrastata. Il nostro obiettivo di costruire la sovranità dei popoli sull’economia e sulla finanza, per essere efficace, deve porsi al livello a cui avviene oggi l’accumulazione capitalistica. Per questo la dimensione europea è un terreno decisivo del conflitto di classe».

A questa argomentazione ribatte in maniera forte la tesi A di Greco e Moro: «Portare la lotta “al livello del capitale” non significa dunque accettare il terreno di scontro ad esso più favorevole (quello di un’eterea, inafferrabile dimensione sovranazionale, nel nostro caso europea), ma di porsi rispetto ad esso in una posizione asimmetrica, costringendolo a calcare gli stivali nella “palude” degli stati nazionali, nella dimensione territoriale, cioè nei luoghi dove è concretamente possibile – nelle forme date – organizzare il conflitto e la resistenza contro le politiche di austerity».

Ed ancora: «L’“unità minima” ove portare il conflitto antagonistico si identifica con lo Stato nazionale perché, nella situazione presente, solo esso può avere la forza di reperire – in piena coerenza con la legge fondamentale della Repubblica – i mezzi finanziari indispensabili per riattivare la mano pubblica, non in un recinto autarchico ma, al contrario, per ostacolare i movimenti destabilizzatori del capitale e aprire nuovi spazi cooperativi internazionali».

Chiaro come da queste due posizioni contrapposte sulla questione nazionale, derivino due linee del tutto  alternative tra di loro. Quella di maggioranza è ben conosciuta: la disubbidienza unilaterale ai trattati. E’ la linea, insomma, che utilizza un linguaggio altisonante – rompere questa UE, rovesciarla, eccetera – ma sempre per via interna, riformistica, sempre escludendo l’uscita dall’euro e dall’Unione. Che poi, per questa via, si pretenda di «rifiutare il fiscal compact», «ristrutturare il debito» ed addirittura costruire «un’altra BCE» è una cosa che lasciamo volentieri al giudizio dei lettori.

Questa impostazione così viene fatta a pezzi dalla tesi A:
«La nostra linea di attacco deve sapere individuare l’anello debole della catena e il punto di maggiore fragilità dell’impianto è l’euro. Trattati e moneta sono un tutto organico e l’euro svolge una fondamentale funzione di gerarchizzazione fra paesi creditori e paesi debitori, fra sud e nord, appunto attraverso la costruzione forzosa di un’unica area valutaria imposta ad economie del tutto diverse».

Per cui: «Ora, delle due l’una: o disobbedire ai trattati ha un significato concreto, e allora comporta l’uscita dall’euro, oppure la disobbedienza si traduce in un puro atto propagandistico, in attesa di una palingenesi democratica dei popoli che, più o meno all’unisono, dovrebbero ad un certo punto decidere di liberarsi dalle proprie catene. Se “noi non ci battiamo né per l’uscita dell’Italia dall’Ue, né per l’abbandono dell’euro”, la dichiarata intenzione di mettere in crisi l’Ue “attraverso forzature” si risolve in nulla perché nessun significativo atto di rottura è in realtà nella cifra della nostra politica».

Ben detto! E ben detto non solo riguardo alle insostenibili posizioni ferreriane, ma anche verso una certa tendenza presente in Eurostop, dove si preferisce parlare di “rottura” piuttosto che di “uscita”, quasi a voler marcare una maggior durezza verbale, mentre invece il quadro più realistico con il quale misurarsi non è quello di un’improbabile collasso dell’UE dovuto a lotte di piazza a scala continentale, quanto invece la rapida disgregazione dell’intero edificio eurista a seguito dell’uscita di uno o più paesi. E’ dunque l’uscita l’atto decisivo. Ed il lavoro per arrivarvi è l’attività più rivoluzionaria che oggi si possa concretamente immaginare.


…e nel documento 2

Detto dell’assoluta divergenza sul punto all’interno del documento 1, non resta che esaminare come essa si presenta dentro il documento 2. In questo caso, dopo aver detto (capitolo 4) che l’UE è irriformabile, il documento si divide tra una tesi A (Forenza ed altri) ed una tesi B (Targetti ed altri). La differenza tra queste due tesi è già evidente nei rispettivi titoli: «La nostra “rivoluzione in Occidente”, per la rottura costituente, un’altra Europa» è il titolo della tesi A; «Per la rottura dell’Unione Europea imperialista e dell’Euro» quello della tesi B.

Come già si può capire la tesi  di Forenza non si distingue da quella di Ferrero. Questo il passaggio decisivo: «L’idea di un “ritorno alla sovranità nazionale” come unica forma possibile di sovranità popolare non fa oggi i conti che la trasformazione della forma-Stato prodotta dal neoliberismo, con il livello transnazionale dei processi di produzione e accumulazione. Oggi la forma affermativa e molecolare di un processo di radicale trasformazione dello stato di cose presenti può darsi più nella istituzione di contropoteri che nel farsi-Stato o super-Stato: nella connessione di forme di autogoverno, città ribelli, nuove istituzioni del comune, lotte, conflitti sociali. Come processo di autodeterminazione di donne, uomini, popoli nello spazio europeo più che come impossibile (e forse non auspicabile) ritorno a una sovranità per linee nazionali».

Qui c’è da evidenziare un inciso assai significativo, laddove Forenza dice che il ritorno alle sovranità nazionali non è solo «impossibile» come afferma Ferrero, ma addirittura «forse non auspicabile». Difficile non vedere in questo breve inciso la piena adesione al cosmopolitismo delle élite, benché condito in salsa movimentista e da centro sociale.

Nella tesi B del documento 2 troviamo un passaggio quasi identico ad uno (già citato) della tesi A del documento 1, esattamente questo: «Trattati e moneta sono strettamente collegati: l’euro opera come una mano invisibile a dividere nazioni e popoli tra di loro ed al loro interno, avendo una funzione di gerarchizzazione tra paesi forti e paesi deboli, accentuando così le caratteristiche di un’area disomogenea sul piano sociale, economico, culturale e storico».

Il problema è che qui – a differenza della tesi Greco-Moro – a questa affermazione non segue una trattazione conseguente del tema. Si parla sì degli aspetti geopolitici, delle misure necessarie che dovranno accompagnare l’uscita, ma si tace del tutto sulla dirimente questione della sovranità nazionale.

Prevale, insomma, anche in questa area il tabù della nazione, a dimostrazione di quanto abbia scavato su questo terreno il pensiero dominante. Un pensiero che avendo di mira lo Stato, in quanto soggetto in grado di limitare, contrastare, fino a rovesciare il libero dispiegarsi del dominio del capitale, ha preso di mira la nazione al fine di ottenere la piena capitolazione della sinistra.

Naturalmente, chi scrive spera che in questa area di compagni, che quantomeno ha compreso la necessità dell’uscita dall’euro e dall’UE, vi siano riflessioni più approfondite di quelle proposte nella tesi B. Ma al momento possiamo solo registrare quanto sta scritto nei documenti.

Conclusioni

Fin qui l’esame dei documenti e delle relative tesi alternative all’interno di ognuno. C’è però un dato di fondo che dovrebbe far riflettere. In base ai numeri resi pubblici, la discussione su euro ed UE sembra appassionare decisamente poco gli iscritti al Prc. La tesi alternativa Greco-Moro al documento 1 ha riscosso solo 310 voti trai 4.996 andati al documento. Certo, ciò dipenderà in larga parte dal fatto che quella tesi sarà stata messa in votazione solo in un’esigua minoranza dei circoli. Ma anche in questo caso quel che ne viene fuori è un’imperdonabile “distrazione” del corpo del Prc su quello che è il vero nodo da cui dipende il futuro del Paese.

Un po’ meglio vanno le cose tra i votanti del documento 2. Dei 1.992 voti totali, 287 sono andati alla tesi Forenza, mentre 628 sono stati ottenuti dalla tesi B dell’area “comunista”. I restanti 1.077 si sono limitati dunque a votare il documento senza esprimersi tra le due alternative sul punto, anche questa una chiara dimostrazione del livello di trascuratezza imperante nel partito.

Ma c’è dell’altro. Il fatto che il Prc abbia scelto sabato scorso di sfilare in una manifestazione apertamente filo-eurista la dice lunga sul reale posizionamento del partito. Hai voglia di parlare di “rottura”, ma se non fai i conti con la cultura elitaria della “sinistra realmente esistente”, mera variante del cosmopolitismo delle oligarchie, inutile poi lamentarsi se il popolo va altrove.

E’ lì che dovrebbe operarsi la prima rottura, ma penso che – naturalmente con le debite eccezioni (vedi soprattutto la tesi A del documento 1) – questa operazione dolorosa non sia minimamente alla portata degli attuali gruppi dirigenti. Anzi, il fatto che (anche per responsabilità di questi ultimi) il tema della sovranità sia oggi prevalentemente in mano a forze di destra, anziché far suonare la sveglia, attiva invece una sorta di riflesso pavloviano per cui la stessa parola “sovranità”, invece che richiamare la base stessa della democrazia costituzionale, diventa una parolaccia da associare alle peggiori intenzioni.

Eppure quell’1%, quello delle urne e dei sondaggi, è lì a ricordare la realtà di una forza residuale non per caso, non per un destino cinico e baro, ma per l’assoluta incapacità di venir fuori da quel che la sinistra è diventata. Sarà il congresso che inizia oggi l’ennesima occasione mancata? Tutto fa pensare di sì.