Donald Trump e Xi Jinping si incontreranno giovedì prossimo in Florida. Sul tavolo non solo i  temi economici, a partire dall’enorme surplus commerciale cinese che la Casa Bianca mira a  ridurre in misura consistente. A pochi giorni dal vertice il presidente americano ha infatti deciso di giocare duro sulle questioni strategiche. Lo ha fatto con un’intervista al Financial Times, nella quale la minaccia di una guerra contro la Corea del Nord è pronunciata con chiarezza.

Non è questa una novità assoluta. Sono anni che a Washington lasciano intendere di essere pronti al ricorso alle armi contro Pyongyang. Poi – forse anche perché il paese un deterrente nucleare, benché modesto, ce l’ha – alle parole non sono seguiti i fatti.

Ora, però, la questione, viene a porsi in maniera diversa. Da anni, con l’amministrazione Obama, gli Stati Uniti hanno spostato il loro baricentro strategico di potenza imperialista globale dal Medio all’Estremo Oriente. Questo sia per la rilevanza economica dell’area, sia per l’emersione della potenza cinese. Adesso, con Trump, Pechino è esplicitamente nel mirino. Alla Casa Bianca si pensa di stoppare l’ascesa cinese agendo sul piano commerciale, ma quando si parla di equilibri strategici è chiaro che l’economia non è mai tutto.

Ed è guardando soprattutto l’altra sponda del Pacifico che il neo-presidente ha deciso di aumentare le già gigantesche spese militari americane di un altro 10%. Sull’interrogativo di come risponderà il governo cinese a questa sfida abbiamo pubblicato recentemente un articolo di Analisi Difesa. La tesi lì sostenuta è quella secondo cui Trump vorrebbe «indurre la Cina a una corsa al riarmo che non potrà economicamente e socialmente sostenere, specie in caso di forte flessione dell’export (lo stesso schema adottato da Ronald Reagan con l’Unione Sovietica negli anni ’80)».

E’ in questo contesto che vanno esaminate le attuali minacce di Trump, contenute in tre frasi. La prima: «Se la Cina non risolverà con la Corea del Nord, lo faremo noi». La seconda: «La Cina ha grande influenza sulla Corea del Nord. Dovrà decidere se aiutarci, o no. Se lo farà, sarà una cosa molto buona per la Cina; se non lo farà, non sarà buona per nessuno». La terza, a proposito delle possibili azioni militari: «Non posso spiegarvelo. Sono finiti i tempi in cui gli Stati Uniti annunciavano quali obiettivi si preparavano a colpire in Medio Oriente. Ma posso assicurarvi che se la Cina non risolverà la questione della Corea del Nord lo faremo noi».

Insomma, un Trump quanto mai bellicoso, che più che la Corea del Nord ha palesemente nel mirino la Cina. Un Trump che sa bene che il regime militare di Pyongyang non è una semplice marionetta di Pechino e che sa, altrettanto bene, che le atomiche di Kim Jong-un più che una minaccia per Seul e Tokio sono solo uno strumento di difesa di uno stato che si sente assediato.

Ma difesa da chi? Secondo Maurizio Riotto, uno dei massimi esperti di questioni coreane, le cose stanno assai diversamente da quel che si vuole far credere. In un suo articolo pubblicato sul n. 12/2016 di Limes ha scritto: «Comunque, anche contro lo storico fratello maggiore (la Cina, ndr) la Corea del Nord ha modificato il proprio atteggiamento, fino a considerare Pechino una possibile mortale minaccia. Solo chi è in malafede può affermare che l’atomica nordcoreana sia rivolta contro gli Stati Uniti. I più pericolosi sono sempre i vicini e la prospettiva di poter fare un giorno la fine del Tibet non ha mai arriso ai Kim e alla loro gente. L’atomica è soprattutto un mezzo per mantenere la Cina a debita distanza…».

Al tempo stesso, però, Kim Jong-un potrebbe trovarsi in un intreccio geopolitico assai più complesso. Di sicuro la Cina non lo ama, ma neppure può consentire una ulteriore espansione della presenza militare americana nell’area (vedi nota in fondo). Per cui i casi sono due: o (a) viene negoziato un accordo con Trump che, in cambio della messa in un angolo del governo di Pyongyang, preveda anche un parziale passo indietro della presenza americana nella penisola (ad esempio con la sua integrale denuclearizzazione), oppure (b) a Pechino saranno costretti, obtorto collo, a difendere in qualche modo lo scomodo vicino coreano.

Vedremo cosa accadrà. Non sempre alle minacce segue la guerra, ma alcune volte sì. E le minacce di Trump non sembrano un semplice bluff.

Nota
Giusto per dare l’idea della presenza militare americana nella zona, oltre all’attività dei 40mila uomini (tra marinai ed aviatori) della Settima Flotta, oltre al dispiegamento di armi atomiche nella Corea del Sud, occorre tener presente l’elevato numero di militari dislocati nelle basi USA dell’area. Questi, nel dettaglio, i numeri ufficiali: Giappone 38.807, Hawaii 38.268, Corea del Sud 24.189, Guam 3.879, altri paesi circa 2mila.