Da 3 settimane la Guyana francese(1) è teatro di un imponente movimento sociale che paralizza tutto il territorio. Lunedì 20 marzo, le strade sono state sbarrate da numerosi blocchi, sono stati organizzati presidi sulle diverse rotonde che portano a snodi economici strategici del territorio (porti marittimi di commercio e centro spaziale).

Per giorni vengono chiuse tutte le scuole (e lo sono tutt’ora), la benzina scarseggia e i voli con la Francia sono annullati. Persino i lanci dei razzi dal centro spaziale “Ariana space” vengono cancellati  per via di un blocco davanti al centro e dello sciopero indetto da una società in subappalto Endel.

Per placare il movimento, giovedì 23 marzo la ministra “dell’Oltremare” (che si occupa delle ex-colonie) propone un incontro a Parigi con alcuni rappresentanti a condizione che i blocchi cessino. Ma i manifestanti rifiutano di recarsi nella capitale, e soprattutto di levare i blocchi. Chiedono invece che siano i ministri a venire in Guyana.

Il governo francese cede quindi a a questa richiesta. Il giorno dell’arrivo di una prima delegazione, il sindacato di maggioranza in Guyana (UTG, “Union des travailleurs guyanais”) indice uno sciopero generale e illimitato dal lunedì 28 marzo in poi. Uno sciopero immediatamente sostenuto da LKP, il collettivo che ha guidato lo sciopero generale del 2009 nelle Antille.

Lunedì i blocchi sono quindi aumentati, chiudono anche i negozi in cui comunque scarseggiano le merci ormai da giorni, non c’è più nessun volo né interno né verso l’estero. Il giorno dopo sono organizzati due grossi cortei a Cayenne (la capitale) e St Laurent. Più di 40.000 persone scendono in strada (per una popolazione complessiva di 250.000 abitanti) al grido di «Nou Gon Ké Sa» (“Basta!”) con bandiere guianesi verde gialle e rosse. I cortei sono organizzati dal collettivo Pou Lagwiyann dékolé (“Per un decollo della Guiana”) che raggruppa le diverse tendenze del movimento.

Mentre la stampa francese discute dell’opportunità o meno di “aiutare” questo dipartimento d’Oltremare (un dibattito che sicuramente non si sarebbe nemmeno aperto se si fosse trattato di un dipartimento della metropoli ad essere in sciopero…), mentre certi candidati alla presidenza confondono la Guyana con un’isola, mentre la delegazione del governo si siede al tavolo solo con alcuni gruppi cercando di rompere l’unità del movimento, i guianesi – sempre all’appello di Pou Lagwiyann dékolé – marciano verso Kourou, la città nei pressi della quale è costruito il centro spaziale, che viene occupato martedì 4 e mercoledì 5 aprile.

Intanto viene strappata una prima promessa da parte del governo di sbloccare un miliardo di euro per la Guyana ma ciò non placa la mobilitazione; i blocchi vengono ricostituiti. Questo venerdì, nuovi scontri tra polizia e manifestanti davanti alla prefettura dove una delegazione doveva avere un appuntamento con le autorità. I giornali riportano che la delegazione non è stata accolta per paura di una nuova occupazione, come al centro spaziale. I manifestanti dicono essere stati accolti con i gas lacrimogeni quando invece avevano appuntamento per una tavolo di trattativa. Dagli ultimi aggiornamenti, sembra che i blocchi siano stati levati per la giornata di domenica e saranno ripristinati da lunedì in poi.

Le rivendicazioni del movimento contro le disparità sociali ed economiche

Ci troviamo quindi davanti a un movimento ampio, la cui capacità di bloccare realmente l’economia del territorio supera di gran lunga il movimento in Francia metropolitana dell’anno scorso contro la “Loi travail”.

Colonia schiavista francese poi colonia penale con l’instaurazione dei “bagni” sotto Napoleone III e dal dopoguerra “dipartimento di Oltre mare”, la Guyana è grande quanto l’Austria (84.000 km2) e conta 250 000 abitanti. Come altre ex-colonie francesi ancora legate alla metropoli, la regione è vittima di forti diseguaglianze economiche e sociali legate alla sua storia coloniale e all’attuale economia post-coloniale.

Il divario con la Francia metropolitana è impressionante. La disoccupazione è due volte più importante rispetto alle regioni francesi in Europa e il tasso di scolarizzazione è molto più basso. Ci sono meno infrastrutture di trasporto e quelle esistenti sono tutte orientate al commercio verso la Francia o l’estero. Gli ospedali sono vecchi e difficili da raggiungere (per certi abitanti ci vogliono ore di viaggio tra piroghe e taxi), ci sono due volte meno medici che nella “metropoli” in proporzione alla popolazione e bisogna viaggiare fino a Parigi per cure specializzate. Lo stesso vale per il sistema educativo, non ci sono scuole, mezzi e professori, e per andare all’università l’espatrio è quasi obbligatorio. La criminalità è altissima e il livello di reddito è molto più basso che in Francia, nonostante il costo della vita sia più alto – del 12% in media, ma si arriva fino al 45% per i beni alimentari. Questa situazione è dovuta alle tasse d’importazione imposte dalla madrepatria e al sistematico sotto-sviluppo dell’agricoltura destinata all’alimentazione, una situazione comune a tutte le ex-colonie francesi.

Davanti a una situazione così catastrofica, le rivendicazione del movimento sono molto varie: dalla sicurezza, alla salute, l’educazione, lo sviluppo economico, l’energia, l’accesso alle terre, il riconoscimento dei diritti dei popoli autoctoni ecc.

I media mainstream e i politici si sono concentrati soprattutto sulle rivendicazioni su sicurezza e lotta contro la criminalità. Già dai primi giorni del movimento Bernard Cazeuneuve, il primo ministro, prometteva la costruzione di una nuova prigione e l’aumento delle forze di polizia.
Seguendo questa linea, i giornali danno a un collettivo (detto “dei 500 fratelli”) un ruolo di direzione del movimento e fanno del loro leader, un poliziotto, la figura carismatica della lotta. Questo collettivo, nato dopo l’uccisione di un ragazzo per un furto da pochi soldi, chiede l’aumento dei mezzi per la polizia, una nuova prigione e una diminuzione dell’immigrazione. “Incappucciati ma pacifici”, il gruppo fa la delizia dei media che cercano così di ridurre le questioni sociali poste dal movimento a una questione di sicurezza. Venerdì, durante gli incidenti davanti alla prefettura sembra che i 500 fratelli abbiano tentato di difendere i poliziotti dalla rabbia degli altri manifestanti e sono poi andati ad incontrare un agente ferito.

A poche settimane dalle presidenziali, ogni candidato cerca di usare il movimento in Guyana per la propria campagna. Marine Le Pen riprende gli argomenti anti-migranti e pro polizia, Melenchon (il candidato di sinistra – NdR) dice di lottare per una Francia indivisibile anche nelle sue ex-colonie.

Nonostante le dimensioni eccezionali del movimento di queste settimane, in realtà la Guyana è periodicamente scossa da rivolte. L’ultima, nel 2008, aveva portato a uno sciopero generale e a blocchi stradali contro l’aumento del prezzo della vita e soprattutto del prezzo dei carburanti. Di fronte a queste rivendicazione, i vari governi metropolitani hanno risposto da decenni con una serie di leggi e promesse, dal “Pacte d’avenir”, alla “Loi d’orientation économique” o la “Loi d’égalité réelle”, che non hanno mai cambiato nulla.

Vecchie ragioni, nuove vertenze?

C’è qualcosa di diverso in questo movimento sociale?  È difficile da capire e prevedere. Tuttavia una prima differenza notevole sta nella presenza della componente amerindiana. Infatti prima dell’immigrazione recente dei paesi vicini (brasiliani, surinamesi, haitiani), o dell’arrivo dei coloni e dei schiavi afro-discendenti – che siano le popolazione creola e i bushinengés(2)– in Guyana si trovava un’importante comunità di nativi. Tuttora nella regione, organizzati in sei nazioni con diverse culture e lingue. Gli amerindiani chiedono la fine dell’estrazione dell’oro, una pratica illegale ma molto corrente e che inquina fortemente l’Amazzonia e lottano contro i progetti di “sviluppo economico” che implicano l’estrazione mineraria nella foresta. Queste rivendicazioni vanno in parte contro le posizioni di altre parti del movimento, ma la partecipazione della popolazione amerindiana sta facendo evolvere le rivendicazioni della piattaforma Pou Lagwiyann dékolé. Anche i nativi chiedono più mezzi per la sanità e più scuole, pretendono però la possibilità di insegnare le proprie lingue. Soprattutto lottano per la ridistribuzione delle terre, rivendicando ciò che lo Stato francese si è accaparrato durante il periodo coloniale.

La presenza di questa componente è sintomatica di un cambiamento più generale del movimento, visibile nella trasformazione delle rivendicazioni: all’inizio erano incentrate sul chiedere più mezzi e investimenti alla Francia ma ormai si parla sempre di più della questione dell’autodeterminazione. Al di là della forte presenza della bandiera guianese (ma si vede anche quella francese…) e del ruolo del sindacato UTG, storicamente indipendentista, le prese di posizione di certi porta-voce riguardo lo status della Guyana fanno scalpore. David Rimane, uno dei leader del sindacato UTG, ha pubblicamente chiesto di “aprire un dibattitto chiaro e trasparente, con l’obiettivo di fornire al nostro paese, troppo lontano dai centri decisionali francesi, uno statuto specifico”. Anche un altro ex-membro dell’UTG, Olivier Goudet, ha dichiarato domenica che bisogna ormai dibattere di questo tema. Nel 2010 c’era stato un referendum per cambiare lo statuto della Guyana. Il referendum era stato però rifiutato al 70% anche se con il 50% di astensione. Forse le posizioni della popolazione stanno cambiando?

[1] Ex-colonia francese, la Guayana è oggi un “DOM”, cioè “dipartimento d’oltre-mare” come la Guadalupa, la Martinica, l’Isola della Riunione e Mayotte. Le altre ex-colonie francesi ancora legate alla metropoli sono dei “Territori d’oltre-mare” e benificiano di uno statuto più autonomo dei DOM.
[2] Gli schiavi che si sono liberati, che hanno vissuto lontano da i centri urbani e che hanno creato una cultura diversa da quella creola.

da Infoaut