La situazione in Venezuela è gravissima e sta lentamente scivolando verso un’aperta guerra civile. Nel nostro piccolo non abbiamo mai fatto mancare il nostro sostegno alla rivoluzione bolivariana, segnalando però al tempo stesso i limiti e le contraddizioni del cosiddetto “socialismo bolivariano”.

Ripubblichiamo di seguito un articolo di Moreno Pasquinelli su questi temi – articolo di 7 anni fa ma estremamente attuale alla luce degli avvenimenti in corso.


Forza e limiti della rivoluzione bolivariana

di Moreno Pasquinelli (28 settembre 2010)

Mentre celebra il dodicesimo anniversario dell’avvento al potere, Chavez festeggia il suo ennesimo, seppure zoppo, successo elettorale. Le elezioni parlamentari svoltesi domenica scorsa (la percentuale dei votanti è stata del 66,45%, la più alta mai registrata) hanno assegnato al PSUV 95 dei 165 seggi, ovvero la maggioranza relativa, mentre le opposizioni del MUD (Mesa de Unidad Democratica, un’accozzaglia che va dalla sinistra all’estrema destra) ne hanno conquistati 64 (ben più di quanto sperava). Non fosse stato per il sistema elettorale (che assegna il 60% degli scranni  con meccanismo uninominale e il restante 40% col proporzionale) il MUD avrebbe vinto, avendo conquistato, in termini assoluti, il 52% dei voti. Per questo le opposizioni hanno festeggiato con gran baccano la loro “vittoria”.

Il PSUV ha sì vinto, ma la sua è una vittoria a metà. Dopo la sconfitta nel Referendum costituzionale del dicembre 2007, Chavez aveva bisogno di almeno due terzi dei seggi per introdurre nuove pillole di socialismo. Non lo potrà fare, e si deve preparare alla più lunga e decisiva delle campagne elettorali, le presidenziali del 2012.

I media occidentali da dodici anni ci assillano sul carattere populista e autoritario dello chavismo. L’accusa è che il Venezuela bolivariano non sarebbe un regime democratico. Occorre una bella faccia tosta per affermare una simile stupidaggine. Se si dovesse usare un parametro marxista classico infatti, il chavismo dovrebbe essere bollato come un vero movimento social-democratico, visto che da dodici anni si sottopone al vaglio del consenso elettorale, affermando che il passaggio al socialismo dovrà avvenire, non con un atto di forza rivoluzionario, ma appunto nel quadro del sistema democratico-costituzionale e nel rispetto di regole che non possono essere definite altrimenti che liberali.

La determinazione con la quale l’Occidente imperialistico sostiene l’opposizione antichavista, la dice lunga sulla protervia della borghesia venezuelana, sul suo carattere sordidamente reazionario e classista. Non è alla democrazia, o ai principi liberali in quanto tali (e che sempre, fino all’arrivo di Chavez, esse hanno sistematicamente calpestato) che le vecchie e oligarchiche classi dominanti sono affezionate, ma ai loro interessi, ovvero al loro predominio sociale. Ça va sans dire.

Altre volte abbiamo avuto modo di esprimere, parallelamente alla solidarietà alla rivoluzione di velluto chavista, tutti i dubbi sulla plausibilità di un passaggio al socialismo per via costituzionale e parlamentare, ovvero evitando ogni “traumatica” rottura rivoluzionaria. Sarebbe in effetti la prima volta nella storia che ciò accadrebbe. Saranno gli avvenimenti futuri ad emettere la sentenza, ovvero se il Venezuela invaliderà o confermerà la tesi marxista per cui solo attraverso un atto di forza, ovvero distruggendo il vecchio apparato statale e costruendone uno a loro misura, le classi subalterne potranno effettivamente emanciparsi e fuoriuscire dal capitalismo. Che ci auguriamo? Che il tentativo venezuelano abbia successo. La fretta dissolvitrice, o «furia del dileguare» come l’avrebbe chiamata Hegel, non è che nel novecento abbia dato prova di grande successo.

Tuttavia non si possono nascondere tutti i limiti e le palesi contraddizioni del cosiddetto “socialismo bolivariano”, addirittura pomposamente chiamato “del XXI secolo”. Se Chavez è ancora in sella lo si deve infatti, non tanto grazie ad un’autentica democrazia rappresentativa, quanto piuttosto alla democrazia plebiscitaria, ovvero ad un sistema presidenzialistico importato bell’e fatto dagli Stati Uniti. Solo i ciechi possono non vedere la stridente antinomia tra l’appello al potere popolare dal basso e la “democrazia partecipativa” di cui il PSUV si fa vanto, e il carattere verticale e bonapartistico del sistema istituzionale preso in eredità e grazie al quale Chavez resta presidente. E non può non destare perplessità (usiamo un eufemismo) che Chavez, per restare Presidente, abbia dovuto ricorrere, nel febbraio del 2009, ad un referendum costituzionale affinché fosse abolito il limite di due mandati.

La stessa vicenda dell’altro referendum costituzionale, quello del dicembre 2007, è esemplare. Il fronte chavista subì una cocente sconfitta, proprio grazie al fatto che le opposizioni poterono apparire come campioni di democrazia. Chavez chiamò i cittadini ad approvare ben 69 dei 359 articoli della Carta Cosituzionale (la stessa che egli fece adottare nel 1999). Accanto a regole sinceramente democratiche che implicavano la devoluzione dei poteri verso il basso, ve ne erano altre che rafforzavano i poteri unilaterali e verticali del Presidente, tra cui, ad esempio, quello di rimuovere i governatori provinciali. Una contraddizione lampante, una contraddizione nella quale il chavismo continua a dimenarsi e continuerà a dimenarsi fino a quando il perno del processo di cambiamento sarà appeso alla sua figura carismatica.

In questo senso non sono solo plausibili ma veritiere le critiche velenose al caudillismo e/o al peronismo impliciti nei meccanismi di costruzione del consenso e di amministrazione del potere da parte di Chavez. E’ dunque da condividere la spocchia di certa sinistra-occidentale-con-la-puzza-sotto-il-naso? Per niente! Il caudillismo è certo un fardello, ma non un orpello delle società e delle tradizioni latino-americane. Si tratta al contrario di una forma, per quanto deplorevole, profondamente radicata in America Latina, una forma che ha permeato a fondo la società civile e la stessa sinistra. Se non la si può spazzare via per decreto, occorre farci i conti. Di qui l’ibridazione tra il presidenzialismo istituzionale di marca nord-americana e il populismo anticapitalista di Chavez.

Sarà la storia, dicevamo, ad emettere l’ardua sentenza, ovvero se il passaggio al socialismo potrà avvenire nel quadro della democrazia liberale (possiamo immaginare quanto entusiasta sarebbe uno come il nostro Gobetti davanti alla sfida chavista).

Fidel Castro, in un commento dei risultati delle elezioni di domenica, ha parlato di “grande vittoria”, una vittoria tanto meno incerta a causa “… della fedeltà al Presidente delle Forze Armate venezuelane, che sostengono la rivoluzione”. Castro, che di rivoluzioni se ne intende, ha messo il dito nella piaga. Tra un’elezione e l’altra, tra un referendum e l’altro, l’ago vero della bilancia è stato e resta la forza armata, l’esercito. Fino a quando Chavez conserverà la fedeltà dei militari, il processo democratico sarà salvo, appunto grazie a questa sentinella. Ove Chavez perdesse il controllo delle forze armate, è fin troppo facile pronosticare un colpo di stato — di cui quello fallito nell’aprile 2002 e sostenuto dagli USA fu solo una prova generale.

A quel punto una guerra civile sarà pressoché inevitabile, e tutto sarà deciso dai rapporti di forza, dall’uso della forza. Il punto non è tanto che Marx e Lenin si saranno presi la loro rivincita di dottrina, il punto è se le forze socialiste venezuelane saranno pronte, ovvero se si stanno già preparando all’evenienza, o se si dimostreranno prigioniere delle speranze di un passaggio al socialismo a dosi omeopatiche, ovvero di quella che la storia ha invalidato come una pia illusione.