È doloroso discutere di cosa accade in Venezuela all’interno di una sinistra più disorientata che mai. Il vecchio argomento del “campo socialista”, che tra il 1953 e il 1989 ha spiegato ogni protesta popolare (da Berlino a Budapest, da Poznan a Erevan) con le “manovre della CIA e dell’imperialismo”, torna in auge e risparmia qualsiasi riflessione sulle responsabilità dei governi “progressisti”.
Non ci si domanda come mai l’imperialismo statunitense (che non era affatto rinsavito o ammorbidito) per una decina d’anni non aveva ostacolato seriamente nessuno dei governi latinoamericani dell’area “bolivariana”, pur criticandoli a volte aspramente: aveva anzi iniziato una distensione con Cuba, sia pure ai fini di una penetrazione indolore a basso costo nella sua economia, aveva fatto affari d’oro con il Brasile di Lula (si veda quel che scrivevo già nel 2013: Brasile progressista?), e aveva beneficiato largamente del petrolio venezuelano consentendo perfino una sua distribuzione diretta negli Stati Uniti. [Sul sito, cercando nella colonnina L’America Latina si possono trovare 350 articoli sulla situazione nei paesi chiave].
E non ci si domanda invece se le ragioni di una ripresa relativamente offensiva della politica dell’imperialismo (già prima della presidenza Trump) non siano legate piuttosto alla debolezza e alle contraddizioni del campo progressista, e al netto indebolimento dello schieramento popolare in difesa dei governi sotto attacco. In Argentina la liquidazione dell’esperienza dei due Kirchner è stata facile e inizialmente quasi indolore, in Brasile la mobilitazione delle piazze in difesa di Lula e Dilma non solo è stata largamente al di sotto delle necessità, ma è stata confermata dal risultato catastrofico delle elezioni amministrative, che hanno escluso dalla maggior parte dei ballottaggi il partito di Lula.[vedi Brasile: il secondo turno conferma il crollo del PT].
Solo dopo molti mesi si è arrivati a uno sciopero generale, ma la prospettiva di una vera controffensiva politica è stata bruciata dai risultati delle inchieste che hanno confermato la partecipazione dei dirigenti del PT al grande banchetto offerto dalla Odebrecht e altre multinazionali a tutto il ceto politico corrotto e corrompibile che riempie il parlamento brasiliano. Certa sinistra “campista” residuale continua a definire “colpo di Stato” il più che naturale e prevedibile voltafaccia della parte più corrotta della maggioranza che sosteneva (non gratuitamente) i governi di Lula e Dilma, e a parlare di suggerimenti o regia dell’imperialismo per il voto parlamentare che ha imposto Temer al posto di Dilma. Ma la spiegazione è ben più semplice: il crollo del prezzo del petrolio e il ridimensionamento di quello della soia e di altre materie prime destinate all’esportazione, soprattutto in Cina, ha ridotto i margini per le varie forme di corruzione, da quelle ai partiti clienti, a quelle basate sui bonus che garantivano la gratitudine e la fedeltà degli strati più poveri della popolazione senza intaccare il potere delle multinazionali.
Ma di questo indebolimento generale della capacità di mobilitazione della sua base da parte del campo “progressista” abbiamo scritto abbastanza. È sul Venezuela che ho esitato finora a intervenire nell’ultima fase, tanto è duro quel che si deve dire sul comportamento di Nicolás Maduro.
Da un mese e mezzo il Venezuela sembra affondare in un caos, che ha già provocato una quarantina di morti. A chi vuol chiudere gli occhi di fronte a quel che accade, basta denunciare che un morto che la MUD aveva presentato come suo, era invece sostenitore del governo. Come se non sapessimo che in un conflitto così aspro c’è sempre chi usa qualsiasi argomento per la sua propaganda.
In realtà è difficile giudicare una crisi politica dal numero delle vittime di ciascuna parte. Il primo dato su cui riflettere è che per protestare contro il governo bisogna ricorrere alle armi. E la protesta, ancorché gestita da una coalizione in cui non mancano personaggi squallidi e cinici, parte da un fatto che è impossibile ignorare: l’Assemblea Nazionale ha una maggioranza antichavista di due terzi. Maduro ha prima fatto annullare l’elezione di tre deputati nella provincia periferica di Amazonas, invalidando in blocco l’Assemblea invece che organizzare nuove elezioni per i tre contestati. Ogni votazione dell’Assemblea è stata contestata e annullata dal presidente, che non ha neppure per un istante pensato di valutare le ragioni della catastrofe elettorale del partito di governo PSUV (dovuta non a un aumento dei voti della coalizione di opposizione MUD, ma a tre milioni di voti chavisti venuti a mancare per astensioni o schede bianche).
Inoltre direttamente o utilizzando organismi come la Commissione elettorale o la Corte di Giustizia nominati a suo tempo dal parlamento quando il chavismo era maggioritario, Maduro ha bloccato un referendum revocativo previsto dalla costituzione voluta da Chávez e a cui lo stesso Chávez si era sottoposto senza paura; lo ha fatto allungando la verifica dei milioni di firme raccolte per far scadere i termini. Al tempo stesso sono state bloccate tutte le elezioni amministrative previste, e si è tentato perfino di sostituire l’Assemblea Nazionale con il Tribunale supremo di Giustizia, proposta che confliggeva con la lettera e lo spirito della costituzione chavista. Questo tentativo è fallito, ma solo perché la Fiscal General Luisa Ortega, chavista nominata da Maduro, ha sconfessato la proposta, che aveva suscitato perplessità all’estero anche tra diversi paesi amici. Ma in cambio lo stesso Tribunale ha decretato ben quindici anni di ineleggibilità per Henrique Capriles, capolista della MUD nelle ultime due tornate elettorali.
Intanto, semplicemente non rispondendo per mesi alle richieste di iscrizione nei registri elettorali, è stata esclusa la lista di Marea Socialista, l’organizzazione trotskista che al tempo di Chávez era inserita nel PSUV, mentre al vecchio Partito Comunista Venezuelano che aveva sostenuto Chávez ma è diventato sempre più critico, sono state poste condizioni impossibili per essere ammesso nuovamente alle elezioni (che per la presidenza dovrebbero essere nel 2018).
Quindi non di un “colpo di Stato contro Maduro” si tratta, ma di una sua aperta violazione di ogni norma democratica, comprese quelle sancite dalla costituzione chavista. In ogni caso, indipendentemente dalla conta dei morti delle due parti, non si può dimenticare che la maggior parte dei morti e gli oltre 700 feriti o contusi lo sono stati nel contesto di manifestazioni che esercitavano il legittimo diritto alla protesta.
Il livello più basso è stato raggiunto da Maduro nelle ultime settimane
Mentre facilita la corruzione e affida a società miste tra militari “bolivariani” e spregiudicati imprenditori cinesi l’ulteriore sviluppo di un’economia basata sullo sfruttamento selvaggio delle risorse del sottosuolo, ha inventato la convocazione di un’assemblea costituente, annunciata con grande clamore il primo maggio senza discuterne le caratteristiche con nessuno: dovrebbe essere composta per metà di delegati nominati dai partecipanti alle misiones, o dalle comunas, che erano un’idea dell’ultimo Chávez ma non sono mai decollate davvero e non raccolgono una percentuale significativa della popolazione, e solo per l’altra metà sarebbe eletta regolarmente. L’assenza di ogni rispetto della lettera e dello spirito della costituzione voluta da Chávez è confermata dalla demagogia con cui Maduro dopo aver elencato alla rinfusa le categorie di cui la nuova Costituente dovrebbe essere non si sa come espressione (dagli operai ai musicisti, dai pensionati ai giovani e agli indigeni…) ha annunciato non solo che avrebbe firmato già il giorno dopo il decreto di convocazione di queste strane elezioni, e ha designato già in diretta la “commissione presidenziale” guidata dall’ex vicepresidente e attualmente ministro dell’educazione Elías Jaua, affiancato da una ventina di esponenti dell’ex partito di maggioranza, che dovrà “spiegare” al popolo la nuova trovata che dovrebbe assicurare al paese la pace e la prosperità.
Per avere un’idea dell’indifferenza di Maduro per le forme giuridiche, vale la pena di ascoltare l’annuncio con cui il presidente ha semplicemente ignorato l’esistenza di un’assemblea regolarmente eletta in base alla costituzione voluta ed emendata proprio da Chávez, oltre a sorvolare sullo stato catastrofico dell’economia, limitandosi ad annunciare un nuovo aumento del salario minimo (che come i precedenti sarà mangiato subito dall’inflazione), e a promettere un controllo dei prezzi “se il popolo scende nelle strade”.
Difficile prevedere l’esito di questa operazione propagandistica, che fa appello a un potere di soviet inesistenti per non fare i conti con il distacco dal presidente di molti che avevano sostenuto Chávez, compresi diversi ex ministri. Certo non può essere passata sotto silenzio solo perché nella maggioranza parlamentare (che ci si ostina a chiamare “opposizione”) ci sono anche esponenti della vecchia borghesia venezuelana, ansiosa di recuperare la disponibilità della rendita petroliera. Bisogna domandarsi piuttosto come ha potuto conquistare i consensi di più della metà della popolazione votante, approfittando della delusione di tanti che avevano creduto a un “socialismo del XXI secolo”, che aveva coperto con la retorica e la demagogia il consolidamento di uno strato di “boliborghesia” sorretta da militari non disinteressati. E approfittando anche dell’amarezza per la crisi impressionante del sistema di alleanze bolivariane che era uno dei risultati più importanti dell’azione di Chavez.