Il 1° luglio Eurostop svolgerà la sua “assemblea costituente”. Da coordinamento di organismi politici e sindacali prova a diventare un vero e proprio movimento politico unitario. Pubblichiamo il documento con cui Programma 101, spiega perché non aderisce al nuovo soggetto politico.

Perché i nostri compagni non confluiranno in Eurostop

Cari compagni di Eurostop,
ci sembra doveroso, alle porte dell’assemblea costituente del 1 luglio che sancirà la nascita di Eurostop come nuovo movimento politico, spiegarvi perché non ne faremo parte.

Il nostro non è un commiato, al contrario. Nelle forme che insieme dovremo concordare ci auguriamo di conservare con il nuovo movimento politico, ai livelli locali ed a quello nazionale, relazioni fraterne e di mutua collaborazione, a partire dalla battaglia per riconsegnare al nostro Paese e al suo popolo la loro sovranità costituzionale, quindi per l’uscita dall’Unione europea.

Le ragioni che ci impediscono di confluire nel nuovo Eurostop sono di natura politica e programmatica, ma c’è un dissenso sul metodo sin qui seguito su cui vogliamo spendere due parole.

Riguardo al metodo

Sappiamo bene che è difficile trovare punti alti di consenso programmatico e assetti organizzativi inclusivi viste le numerose soggettività politiche che diedero vita al coordinamento  Eurostop. Il gruppo dirigente ristretto raccolto attorno a Giorgio Cremaschi non c’è riuscito. Si poteva fare molto meglio. Un gruppo che si trova alla guida di un coordinamento tra più organizzazioni, alle quali si chiede infine di cedere quote di sovranità da devolvere ad un unico e nuovo movimento politico — passaggio simboleggiato dalla norma dell’adesione individuale in stile SYRIZA — , deve dimostrare non solo di maneggiare pensieri complessi e dimostrare saggezza politica, deve considerare tutte le voci, tanto più quelle critiche, rifuggire da ogni spirito burocratico. Ciò non è accaduto.

Le nostre proposte — sulla “identità” e la forma del soggetto nascente, sulle alleanze, sul programma di fase per un largo blocco sociale anti-liberista e anti-oligarchico — non sono state accolte e, quel che è peggio, non sono state nemmeno prese in considerazione. Nessuna risposta, nessun commento, niente di niente — ci riferiamo in particolare, oltre ai tanti interventi, orali e via mail, alle note sul programma di Leonardo Mazzei del 19 aprile ed alla Lettera aperta di Moreno Pasquinelli del 13 maggio. Neanche altri contributi, non meno argomentati dei nostri, hanno ricevuto una risposta. A questo punto è per noi del tutto irrilevante se ciò sia dipeso da noncuranza teorica o da spocchia burocratica. In tutti e due i casi questo metodo è sbagliato e non c’è traccia di correzioni in vista.

Ma veniamo al merito politico e programmatico.

Cominciamo dalla “identità”

Se la “identità” tratteggia i fattori che distinguono un soggetto da un altro e ne consentono dunque l’individuazione, quella che risulta dalla Carta è riassumibile nella prima riga e mezzo del testo, dove si legge: “La piattaforma sociale Eurostop è un movimento sociale e politico anticapitalista, antifascista, antipatriarcale ed antirazzista”. Il resto della Carta, al netto di un conflittismo d’antan, è tutta un’ascesa nell’empireo dei cosiddetti “valori”, che tanto vanno di moda nella sinistra radical-chic.

Che ne viene fuori? Che ci si congeda dalla tradizione antica del movimento operaio ma per riciclare molta paccottiglia della nuova sinistra post-moderna, con tratti di sindacalismo sociale e contestuale sottostima della centralità del Politico. Una “identità” che si pensa forte ma non lo è. Il fatto è che quei cinque aggettivi “identitari” sono al contempo troppo e troppo poco. Troppo per un fronte sociale che voglia oggigiorno diventare di massa, troppo poco per un’entità che pretende di raccogliere l’eredità del vecchio movimento operaio.

Vorremmo sbagliarci ma il salto in avanti di Eurostop a noi sembra piuttosto un passo indietro, una ROSS@ 2.0, che immagina Eurostop non come leva per un fronte di massa, ma come strumento per anzitutto strappare egemonia nel recinto della sinistra antagonista, e che quindi in quel camposanto resta imprigionato. C’è tuttavia un’aggravante: il socialismo, che prima era elemento identitario e stava nell’acronimo, scompare come fine e viene buttato lì accidentalmente, con imperdonabile superficialità.

A ben vedere era meglio non cadere nell’equivoco della “identità”, lasciarla alle singole organizzazioni, che ognuna ha la sua propria, e fare della Piattaforma programmatica di fase la vera e propria carta d’identità.

E qui siamo ad alcuni punti dolens.

Cos’è un Piattaforma?

Tre cose in una. (1) Una leva per mobilitare larghe masse e configurare un blocco sociale maggioritario; (2) un disegno che descrive il tipo di società e di Paese una volta usciti dall’attuale marasma neoliberista, non quindi nell’al di là; (3) infine, certo, un ponte verso il fine strategico del socialismo — se non è questo quale?

Il Documento inviato il 13 giugno dal titolo “Eurostop punti di programma”, in barba ai contributi circolati, fallisce tutti e tre gli obiettivi. La commissione che avrebbe dovuto trovare la quadra, oltre a snobbare molte delle proposte giunte, ha licenziato un Documento smorto, sintatticamente pasticciato (frutto di un frettoloso e poco logico copia e incolla), impreciso, addirittura vago su alcune questioni fondamentali.

Prendiamo l’uscita dall’euro

Dopo anni di discussioni, simposi scientifici e di indagini rigorose sull’uscita e il suo impatto economico e sociale, nulla si dice sull’importanza decisiva della sovranità monetaria. C’è di peggio, il concetto (della sovranità monetaria), è assente. Sì, proprio così nel Documento non c’è. Non è un’amnesia, è la conseguenza del tabù “nazione” — lemma mai usato da nessuna parte. Morale: pur di esorcizzare la sovranità nazionale non si dice che l’euro sarà sostituito dalla nuova lira. Cosa dunque propone Eurostop al posto dell’euro? Citiamo: “una moneta comune dell’Europa mediterranea”. L’assurdità della moneta comune mediterranea (ve la immaginate una moneta unica con Tunisia, Libia, Egitto, Turchia?), è rimpiazzata dall’idea solo meno strampalata della moneta unica con Spagna, Grecia, Cipro, Malta — la Francia chissà… Un’area valutaria che dati i differenziali strutturali tra questi paesi sarebbe una schifezza ancor più disfunzionale dell’euro.

Una scemenza, una variante del Piano B di fassiniana memoria, la cui sola plausibilità è quella di evitare l’accusa di… “nazionalismo” da parte delle sinistre cosmo-internazionaliste. L’impressione che ne ricava un lettore attento è quella che Eurostop non crede affatto all’uscita dall’euro, visto che pare prevalere la tesi maldestra che malgrado tutto, l’Unione europea è destinata a rafforzarsi — è ovvio che se questa è la visione l’uscita sarebbe del tutto aleatoria. E la tanto invocata “rottura”? Una frase vuota, che sposta tutto alle calende greche… alla rivoluzione socialista.

Prendiamo la nazione e lo Stato

Dicevamo che sovranità nazionale, per certa teologia politica, è condannata come un’idea del diavolo. Così, per non commettere peccato, si ricorre a questo mostruoso guazzabuglio: “sovranità che il popolo può e deve fare nel suo territorio, comunale, locale, regionale, statuale”. Ovviamente ognuno che non sia tarantolato dell’idea imperiale di Negri sa che statuale vuol dire nazionale, sa che la nazione è il demos, un luogo geograficamante circoscritto da confini in cui un popolo (che può essere composto da diversi ethnos e/o nazionalità) ha preso forma storica statuale. Nel guazzabuglio il rango dello Stato nazionale è equiparato a quelli comunale, locale, regionale. Ci mancano le province, i rioni ed i condominii. Un mix di proudhonismo, leghismo e resipiscenze municipaliste in stile Disobbedienti. La dimensione nazionale viene qua e là accennata, ma alla togliattiana, non per segnalare che l’Italia è oramai un protettorato euro-tedesco —Germania è altro lemma che non compare mai, malgrado sia il dominus della Ue. La Grecia pare non abbia insegnato nulla. La rimozione della subalternità del nostro Paese in questa Unione a trazione tedesca serve appunto per rimuovere la dirimente questione nazionale.

La conseguenza inevitabile di questa impostazione è una imperdonabile fumosità riguardo al ruolo che si attribuisce allo Stato (per quanto sia al punto 1 del Documento) una volta fuoriusciti dall’Unione europea e rotti tutti i ponti con l’economia neoliberista. Sembra che la sua precipua funzione sia quella di mero agente socialdemocratico di re-distribuzione del reddito, non anzitutto lo strumento per rimodellare la società alle fondamenta sottraendo al mercato le decisioni macroeconomiche e quindi arma principale per pianificare, proteggersi dalla scorribande dei grandi monopoli stranieri, quindi deglobalizzare.

Siamo molto al di sotto del keynesismo — un’altra parola proibita. Si scrive sì di nazionalizzazioni, investimenti, piena occupazione, ma a causa del pregiudizio vetero-marxista contro il keynesismo, il tutto risulta privo di una connessione logica, di una visione politico-strategica d’insieme. Ne vien fuori un listone della spesa in classico stile sindacalistico.

Veniamo infine al populismo

Analisi, studi, idee, contributi, venuti da ogni parte, anche nel nostro campo, anche in questo caso, da un’orecchio sono entrati e dall’altro sono usciti. Si passa sopra alla questione con candida leggerezza. Eppure il nostro Paese è stato, visto lo sfondamento di massa del M5S che ha oramai un decennio, il primo grande laboratorio europeo del fenomeno populista. Anche qui scatta la rimozione, forse per non rompere i ponti con gli imbecilli che han bollato i Cinque Stelle come reazionari, fascisti e via sclerando, e che fanno spallucce riguardo al populismo alla stessa stregua delle élite liberali. Nessun ragionamento sul fenomeno Podemos, men che meno su quello di France Insoumise — di qui una sottovalutazione suicida dell’importanza del terreno elettorale. Ma col populismo vengono al pettine diversi nodi: linguaggi, simboli, metodi, idee ed esempi nuovi da fornire. Per che cosa tutto questo? Per dare forma politica adeguata e direzione al blocco sociale dei globalizzati contro i globalizzatori che oggi è solo incipiente, proteiforme, acefalo.

Si vede che si ritiene che quella populista sia solo una brutta e passeggera parentesi (non quindi la forma che il Politico ed il conflitto di classe hanno assunto in questa concreta fase storica —, si vede che si ritiene che presto il conflitto di classe riacquisterà la centralità, riabilitando tutto il vecchio armamentario simbologico dei comunisti. Tragica illusione. La società in cui viviamo non è solo figlia di una sconfitta strategica del movimento operaio, è frutto di trasformazioni oggettive ben più profonde, durevoli, per certi versi irreversibili. Anche ove, come noi riteniamo, un nuovo chock fosse alle porte, l’Unione andasse gambe all’aria, e maturassero sconquassi geopolitici, i popoli e le nazioni che si solleveranno seguiranno nuove piste, piste che i populismi delineano, a patto di volerlo riconoscere. Ma non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere.

Il Consiglio nazionale di PROGRAMMA 101
Roma, 21 giugno 2017

da Programma 101