Voluto dagli americani fin dai tempi dell’occupazione del 2003, sostenuto con forza da Israele, il distacco del Kurdistan iracheno dal resto del Paese è ormai all’ultimo miglio. Il passaggio decisivo sarà con ogni probabilità il referendum del prossimo 25 settembre. Scontata la vittoria del sì all’indipendenza, resta da vedere quale sarà la risposta del governo di Baghdad.

Ma la nascita di uno stato curdo in Iraq, avrà inevitabili ripercussioni  anche in Turchia ed Iran. Per non parlare della Siria, dove i curdi del Rojava – forti del pieno appoggio statunitense – sembrano intenzionati a giocare la stessa carta referendaria tra qualche mese.

Difficile non vedere come le legittime aspirazioni nazionali del popolo curdo, oltre ad essere (come nel caso iracheno) nelle mani di potenti cosche affaristiche locali, siano sempre più spesso giocate dall’imperialismo americano e dal suo alleato sionista per spezzettare al massimo il Medio Oriente. Divide et impera è il loro motto. Dal loro punto di vista, nel caso iracheno come in quello siriano, ben venga la contrapposizione tra arabi e curdi, da aggiungere su una scala solo più piccola, a quella più generale e devastante tra sciiti e sunniti.

Qui sotto due recenti articoli, di Michele Giorgio e di Nena news, sul referendum del 25 settembre.

Netanyahu campione dell’indipendenza curda
di Michele Giorgio (15 settembre)

Il premier di destra offre il sostegno di Israele alla creazione di uno Stato curdo. Sa che la frantumazione dell’Iraq e, in futuro, forse anche della Siria, indebolisce gli avversari nella regione e mette in difficoltà anche Turchia e Iran

I riflessi del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno, previsto a fine mese, continuano ad infiammare il dibattito regionale e a tenere in fibrillazione gli Stati coinvolti direttamente, l’Iraq, e indirettamente, Siria, Turchia e Iran. La consultazione però interessa anche gli Stati Uniti – artefici della “piena autonomia curda” quando al potere in Iraq c’era il nemico Saddam Hussein – la Russia e diversi altri Paesi. Tra questi Israele, da sempre vicino alla causa dei curdi iracheni.

Così mentre sono in corso intensi negoziati e movimenti dietro le quinte per affondare il referendum – l’alleanza che la Turchia di Erdogan sta provando a stringere con l’Iran ne è una dimostrazione – o per imporre il rinvio della consultazione, il premier israeliano Netanyahu è stato il primo leader “occidentale” a pronunciarsi apertamente a favore della proclamazione di uno Stato curdo. I palestinesi sotto occupazione israeliana invece dovranno aspettare, forse per sempre. L’uomo alla guida del governo più a destra della storia di Israele ha tuttavia precisato che per lui il Pkk di Abdallah Ocalan è un’organizzazione «terroristica», prendendo le distanze dalle affermazioni di senso opposto fatte di recente dall’ex vice capo di stato maggiore Yair Golan.

Tanta passione per i diritti dei curdi si spiega con la lettura israeliana dell’attuale quadro politico e strategico della regione. Il referendum curdo, se il voto come si prevede sarà a favore della separazione dall’Iraq, avrà un effetto domino a partire dalla Siria. Qui i curdi, con l’appoggio americano, di fatto già controllano e governano gran parte del nord del Paese, ed è opinione diffusa che subito dopo il Kurdistan iracheno sarà il Rojava a votare per l’indipendenza, forse la prossima primavera. Non sorprende che negli ultimi mesi Damasco abbia usato toni più duri nei confronti delle intenzioni dei curdi siriani, anche perché sono sostenute da Washington.

La nascita di entità separate in Iraq e in Siria va nella direzione auspicata dal governo Netanyahu che punta all’indebolimento degli avversari di Israele, a cominciare dalla Siria. Senza sottovalutare che l’indipendenza curda in Iraq metterebbe in difficoltà anche il “nemico numero uno”, l’Iran. Israele ha tutto da guadagnare dall’acuirsi della crisi tra curdi e arabi e il suo premier gioca sui tavoli della diplomazia tutte le carte che ha in mano. In questi giorni sta riallacciando buone relazioni in America latina dove, fino a qualche tempo fa, si tifava apertamente per i diritti dei palestinesi. Netanyahu è stato accolto con entusiasmo dal presidente argentino Mauricio Macri e ha rafforzato i legami (storici) tra Israele e Colombia.

L’attivismo diplomatico del premier israeliano punta molto anche sullo sport. Israele ora aspetta il Giro d’Italia 2018 che per la prima volta nella sua centenaria storia partirà al di fuori dell’Europa, grazie anche ai milioni di euro che gli sponsor israeliani hanno messo sul piatto. La corsa prevede tre tappe in Terra Santa e sarà presentata lunedì prossimo a Gerusalemme, alla presenza di due campioni: Ivan Basso e Alberto Contador. Obiettivo principale è fare in modo che il ciclismo internazionale celebri a Gerusalemme i 70 anni dalla nascita dello Stato di Israele.

Netanyahu non raccoglie solo successi. Ufficialmente è solo un rinvio eppure la decisione del presidente del Togo, Faure Gnassingbè, di rimandare a data da destinarsi il vertice Africa-Israele che si sarebbe dovuto tenere dal 23 al 27 ottobre prossimo a Lomè, rappresenta un duro colpo per il premier israeliano. Al rinvio ha contribuito in maniera decisiva l’opposizione al vertice da parte di alcuni Stati africani-arabi, in particolare l’Algeria, la Mauritania, il Marocco e la Tunisia (esplicitamente ringraziati dall’Olp). Netanyahu – che nel 2016 aveva visitato Ruanda, Kenya, Uganda, Etiopia – punta al riavvicinamento con diversi Paesi africani per sottrarli al sostegno alla causa palestinese, soprattutto in sede Onu. E per questo potrebbe organizzare il vertice in Israele nel 2018 con gli Stati africani che non fanno parte della Lega araba.

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Il parlamento iracheno vota: “Incostituzionale l’indipendenza curda”
di Nena news (13 settembre)

No secco dei parlamentari al referendum del 25 settembre nel Kurdistan iracheno. Ma Erbil tira dritto e con il suo presidente Barzani annuncia la legittimità del voto anche nella contestata Kirkuk. A sostenerlo è Israele

Il parlamento iracheno ha votato ieri contro il referendum sull’indipendenza del Kurdistan previsto per il prossimo 25 settembre autorizzando il premier al-Abadi a “prendere tutte le misure” necessarie per preservare l’unità del Paese.

“Questo referendum non ha base costituzionale, è una minaccia all’integrità dell’Iraq garantita dalla costituzione, alla pace civile e alla sicurezza regionale” si legge nella risoluzione approvata ieri. Di “incostituzionalità” ha parlato anche al-Abadi che ha chiesto alla leadership curda di venire a Baghdad per discutere della questione referendaria. Una delegazione curda aveva per la verità già incontrato alcuni ufficiali iracheni ad agosto per un primo round di incontri sull’indipendenza della loro regione. Una rappresentanza irachena sarebbe dovuta poi recarsi a Erbil (capitale del Kurdistan iracheno) a inizio settembre per un secondo vertice, ma la visita non ha ancora avuto luogo.

Ecco perché l’ennesimo invito al dialogo del primo ministro cozza con la realtà e appare solo una dichiarazione tampone priva di alcuna efficacia. Il governo autonomo del Kurdistan, infatti, è consapevole di avere il sostegno della popolazione e della maggioranza dei suoi parlamentari (solo la sinistra con Gorran e gli islamisti si oppongono) e perciò tira dritto per la sua strada infischiandosene di quello che pensa Baghdad. Emblematico quanto accaduto ieri quando i deputati curdi hanno abbandonato polemicamente gli scranni del parlamento dove si sarebbe di lì a poco votato per la legittimità del referendum. Una legittimità che ieri il presidente del Kurdistan iracheno, Masoud Barzani, ha ribadito anche nella contestata città di Kirkuk: “Kirkuk resterà al sicuro come lo è ora grazie ai peshmerga [forze curde, ndr]”. “Noi – ha aggiunto – non faremo compromessi con l’identità della città. Preferiremo rinunciare ai nostri diritti che fare concessioni su quelli delle minoranze etniche che vivono lì”.

Proprio Kirkuk è tra i punti più caldi dello scontro Erbil-Baghdad: rivendicata da entrambe le parti, è la città de-kurdizzata negli anni ’80 da Saddam Hussein e oggi de-arabizzata da Barzani dopo la vittoria contro l’autoproclamato Stato Islamico (Is). Al momento le sue immense ricchezze petrolifere sono in mano al governo regionale del Kurdistan che ne ha assunto il controllo dopo che l’esercito iracheno, nel 2014, si diede alla fuga all’arrivo delle milizie del “califfato”.

Il referendum ha inasprito le tensioni tra le due parti quando il Krg (il governo della regione autonoma curda) ha deciso di includerla nel voto. Una mossa che non solo ha scatenato le ire di Baghdad, ma anche aumentato le preoccupazioni delle potenze occidentali. Proprio quest’ultime temono che il risultato (scontato) a favore dell’indipendenza del Kurdistan possa esacerbare lo scontro tra il governo centrale e la regione autonoma mettendo così in secondo piano la lotta contro l’Is che, pur nettamente ridimensionato, continua a mietere vittime con devastanti attentati suicidi. Ad opporsi fortemente al voto referendario sono, manco a dirlo, Turchia, Iraq, Iran e Siria che temono che l’indipendenza del Kurdistan iracheno possa avere ripercussioni dirette anche sui loro territori incoraggiando i desideri separatisti delle popolazioni curde presenti nei loro paesi.

Unica voce fuori dal coro è ufficialmente Israele che, con il premier Netanyahu, ha annunciato di sostenere l’indipendenza di Erbil con cui Tel Aviv da anni intrattiene ottime relazioni commerciali. In una nota rilasciata stamane dall’ufficio del primo ministro, Netanyahu ha detto di “appoggiare i legittimi sforzi del popolo curdo ad avere un proprio stato” dichiarando però la sua opposizione ai “terroristi” del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk).