
Jean Baudrillard, nel descrivere quella che chiamava “epoca postmoderna”, oltre a sostenere che il reale era sostituito (falsificato aggiungo io) con i “segni del reale”, disse, ricorrendo ad una delle sue figure immaginifiche, che si vive in un contesto pieno di eventi ma dove non succede mai un cazzo.
Aveva ragione? Sì e no. Sì se per eventi s’intendono quelle grandi fratture, per loro natura palingenetiche, destinate a invertire il corso della storia dato, riconoscibili quindi per l’irruzione sulla scena di forze nuove, rivoluzionarie, fino a quel momento sotterranee. No se per grandi eventi vogliamo dire anche quei salti, quelle accelerazioni che forze potenti imprimono alla catena degli eventi e che quindi la storia la segnano nel profondo.
La riunificazione delle due Germanie del 1990 — la seconda Deutsche Einigung, ovvero l’annessione della Germania socialista dell’Est che poi ha trascinato nel baratro l’Unione Sovietica — venuta dopo il cosiddetto “crollo del Muro di Berlino”, è stato uno di questi eventi colossali di secondo tipo. Nessuna rivoluzione sociale, anzi, una controrivoluzione, per quanto dai “guanti di velluto”.
In occasione della riunificazione Giulio Andreotti, argutamente, ebbe a dire: “Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”. Ciò che forse ci aiuta a capire “mani pulite”, ovvero la liquidazione della élite politica della Prima repubblica da parte del nascente “partito tedesco” italiano, che poi prenderà il sopravvento in Italia, che ebbe nel governo di Mario Monti il suo apice.
Ecco, quella riunificazione-annessione è ciò che gli storici chiamano “data periodizzante”. Quel fatto ha segnato la storia europea e mondiale. Lì la spinta verso la nascita dell’Unione europea (1991-92); lì stanno le vere radici dell’attuale supremazia tedesca [1], supremazia che spiega la crisi irreversibile dell’Unione europea, quindi il fallimento della visione francese che riteneva, con la moneta unica, di ingabbiare il latente imperialismo tedesco.
Morale della favola, come ebbi modo di scrivere mesi addietro in LA GRANDE GERMANIA MERKELIANA, GLI STATI UNITI D’AMERICA E IL NOSTRO DESTINO:
«Senza la riunificazione prima e la fondazione dell’Unione dopo, la Germania non avrebbe mai potuto assurgere al rango che oggi occupa, quello di prima potenza europea. E’ diventata così forte che a giusto titolo si deve parlare, come facciamo da anni, di €uro-Germania. Berlino ha saputo utilizzare il cataclisma della grande crisi venuta da oltre oceano per trasformare l’Unione europea in una sua dependance. Ad eccezione della Francia, socio in affari, la grande crisi ha spinto tutti gli stati a cedere quote decisive di sovranità, diventando essi dei protettorati. Di qui, sia detto en passant per i finti sordi ed i finti ciechi, la centralità ed i nuovi termini della questione nazionale per questi Paesi, tra cui il nostro. I fatti sono lì a dimostrare che una volta risorta la Grande Germania avremmo dovuto fare nuovamente i conti con il Grande Imperialismo Tedesco».
Tuttavia, quella tedesca, malgrado non avanzi sulla punta delle baionette ma grazie alla potenza del suo Moloch industriale, non solo segue le tradizionali linee geopolitiche espansioniste germaniche, ma è anche stavolta una supremazia senza egemonia, destinata quindi a collassare su se stessa, a meno che, in fretta, non si doti della necessaria potenza militare. Scrivevo nel 2014:
«Può sopravvivere l’Unione europea alla tendenza tedesca ad assumere un ruolo di potenza mondiale? No, non può resistere. Ciò che fa traballare l’Unione non è solo la gravissima crisi economica dei suoi paesi “periferici” e l’insostenibilità della moneta unica, è anche la spinta espansionistica tedesca. Per comprendere come potrebbe andare e finire si studi attentamente la storia europea degli ultimi 200 anni, a partire dalla fine guerre napoleoniche che fecero uscire la Germania dallo stato di minorità seguito alla Pace di Westfalia. Il lepenismo in Francia, così come l’avanzata di diverse forze nazionaliste nei paesi europei, possono essere compresi solo alla luce della storia, ovvero come indicatori della resistenza di nazioni che si sentono minacciate dall’espansionismo imperialistico tedesco e non vogliono essere satellizzate».
Domani i tedeschi vanno alle urne. Come spiegare che malgrado la sua supremazia economica (disoccupazione al 3,8%, bilancio in surplus, primazia mondiale nell’export) Alternative für Deutschland — AfD, che non è più quella delle origini visto che ha subito una impressionante metamorfosi in senso nazionalista e sciovinista — è data nei sondaggi in grande avanzata diventando il terzo partito con 80-100 deputati?
Il successo di AfD si spiega per il concorso di due fattori, uno sociale e l’altro ideologico.
Il malcontento degli strati sociali che stanno in basso i quali, subendo il dogma dei sacrifici, lavorano come bestie in cambio di salari e redditi più che modesti o, come all’Est, sono disoccupati o sottoccupati (mentre in un decennio è aumentato il numero dei milionari e delle loro rendite: la Germania merkeliana vede una concentrazione tra le più alte di patrimoni nel 10% delle famiglie più ricche). Sul versante ideologico AfD sta riuscendo a far passare l’inganno che queste ingiustizie sociali dipendono non dai meccanismi intrinseci alla dottrina ordoliberista bensì ai lacci ed ai lacciuoli dell’Unione europea. Rimuoverli quindi, et voilà, benessere generale grazie ad una dispiegata potenza tedesca.
Una miscela esplosiva, che nasconde, per chi voglia vedere, l’incipiente e risorgente idea della Grande Germania, ovvero del Quarto Reich.
In conclusione. L’Unione può crollare sotto l’attacco combinato di due forze opposte: i risorgenti nazionalismi nei paesi europei che mal sopportano la supremazia (senza egemonia) della Germania; oppure di quelle revanchiste che proprio questa supremazia tedesca alleva nel suo grembo.
Sventata per il momento la minaccia francese, le urne tedesche potrebbero domani, in caso di avanzata dell’AfD, suonare per la Ue e per gli attuali equilibri europei e mondiali (se Putin è guardingo, Trump non dorme sonni tranquilli) un ancor più minaccioso campanello d’allarme.
NOTE
[1] «La realtà dei dati
I numeri di Eurostat, l’agenzia statistica europea, raccontano in effetti una storia lontana dalle narrazioni dei politici. L’enorme successo del made in Germany sui mercati mondiali e il surplus negli scambi con l’estero oggi più vasto al mondo devono molto di più alla seconda riunificazione: dopo quella tedesca del 1990, quella continentale del 2004 con l’ingresso nell’Unione europea di gran parte dell’ex blocco di Varsavia. La Merkelomics, il modello economico della cancelliera, si regge più sulla catena di scambi intrecciata con l’Europa centro-orientale che sul culto dei sacrifici o il dogma dello Schwarze Null, il bilancio in surplus. La Germania ha trovato sul confine orientale la sua «Cina interna», un’area a basso costo inclusa nella sua stessa area politica, giuridica, di mercato e in parte anche monetaria (Slovacchia, Slovenia e i Baltici adottano l’euro). In questi anni l’industria tedesca è riuscita come nessun’altra a trasferire in Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca o nella stessa Slovacchia gran parte della produzione delle componenti che le servono; queste poi vengono reimportate e assemblate in Germania, in vista dell’export del prodotto finale che monetizza solo all’ultimo stadio gran parte del valore aggiunto dell’intera filiera.
Vincenti e perdenti
I dati lasciano pochi dubbi. La Repubblica federale ha un surplus negli scambi di beni manufatti con tutto il mondo, eppure è in deficit con i 10 Paesi dall’Estonia alla Slovenia. Nel 2016 da queste economie la Germania ha comprato 69,6 milioni di tonnellate di beni industriali e ne ha vendute loro solo 53,6 milioni. Nell’import da Est spicca tutto ciò che serve a fare auto: manufatti di gomma, metallo, altri «equipaggiamenti per il trasporto, parti e accessori» (gli acquisti tedeschi di questi pezzi dall’Europa centro-orientale sono raddoppiati dal 2006). I dati finanziari relativi a queste partite industriali rivelano poi l’altro lato della storia: qui i saldi sono in equilibrio; anche se la Germania compra da Est molte più tonnellate di beni di quante ne venda. Il prezzo d’acquisto da Oriente riflette sistemi nei quali le fabbriche lavorano al salario minimo e questo non supera mai i 500 euro al mese. Il prezzo di vendita del prodotto finale made in Germany, sempre caro, riflette invece salari da 30 euro l’ora negli impianti tedeschi di assemblaggio, oltre alla forza dei marchi come Bmw».
(Federico Fubini, Corriere della Sera 22 settembre 2017)