In Italia non sono pochi coloro che si sono innamorati del’indipendentismo catalano. Come spesso accade l’infatuazione fa a pugni con la ragione. Ciò vale anzitutto per certa estrema sinistra che ha scambiato l’attuale indipendentismo catalano con la Catalogna eroica della guerra civile degli anni ’30.

Un errore pacchiano visto che non solo le circostanze storiche sono del tutto differenti, sono completamente diversi i protagonisti della vicenda e neanche lontanamente paragonabili con quelle di ieri le forze motrici che oggi sono alla guida del secessionismo catalano.

Manolo Monereo ci offre una efficace istantanea sulla situazione e di come essa è mutata, tenendo conto della marcia indietro di Puigdemont il quale, dopo avere accettato di correre ad elezioni indette dal nemico, ha fatto una clamorosa marcia indietro sulla secessione.

Le crisi disvelano la realtà, ma la rendono più complessa, più polisemica. A questo punto sappiamo due cose; per meglio dire, si chiariscono due cose che sono state precedentemente ignorate o si volevano ignorare. La prima è evidente: che la nazione o la nazionalità spagnola esiste; e la seconda, che il movimento indipendentista catalano mobilitato, audace e forte, continua ad essere una minoranza in Catalogna.

Non mi piace entrare molto in dibattiti filologici. Esiste un’identità forte, eterogenea e diffusa di persone che si considerano spagnole. Lo fa in un modo laico, non escludente e sentendosi parte di una pluralità di esseri umani. Quello che voglio dire è che il nazionalismo spagnolo è minoritario. Lo è al punto che, per cercare l’egemonia, deve camuffarsi nel costituzionalismo nazionale e incorporare irrevocabilmente il PSOE. È vero che ci possono essere molti cittadini spagnoli che sono nazionalisti senza saperlo; ma, in ogni caso, sono una minoranza. Lo dico in modo diretto per evitare equivoci: l’identità spagnola, nei suoi vari gradi e motivazioni, non significa l’esistenza maggioritaria di un nazionalismo escludente e autoritario.

Alcuni di noi lo hanno detto fin dall’inizio, in verità senza molta fortuna. Il passaggio del nazionalismo catalano all’indipendentismo avrebbe causato, prima o poi, l’ingresso sulla scena di una grande minoranza spagnola e persino spagnolista. La pluralità di culture esistenti in Catalogna ha coesistito in un quadro autonomo perché nessuno sarebbe stato sottoposto a una scelta tra Catalogna e Spagna. Questo è stato un salto che avrebbe avuto conseguenze perché i catalani che si sentono con naturalezza anche spagnoli sentono in pericolo, non solo la loro identità, ma cominciano a vivere in modo drammatico una “condizione post spagnola” che li rende estranei nella propria terra che, detto di passata, molti l’hanno costruita con le proprie mani in condizioni di eccessivo sfruttamento e, paradossi della vita, difendendo i diritti nazionali della Catalogna.

La realtà ha mostrato cose che non dovremmo dimenticare ora che siamo già in piena campagna elettorale. Il movimento indipendentista ha trasformato le ultime elezioni autonome catalane in un plebiscito. Non hanno vinto, o meglio, hanno avuto una maggioranza parlamentare, ma non hanno ottenuto la maggioranza dell’elettorato. I partiti di maggioranza avevano diverse possibilità e ne scelsero una particolarmente rischiosa: rompere con la legalità costituzionale e avviare un processo di secessione. Si deve dire che sono riusciti a mobilitare una parte significativa della Catalogna e che questa mobilitazione è stata sostenuta nel corso del tempo in una dialettica molto ben congegnata di azione/reazione che ha posto il governo spagnolo davanti a molte difficoltà.

Il calcolo strategico è stato reso esplicito nel tempo. Il punto di partenza era, in linea di principio, potente: il controllo delle istituzioni statali in Catalogna, in particolare, dei funzionari e dei Mossos, e dei media pubblici. Il regime puyolista ha creato una “trama” tra poteri politici, economici e di comunicazione che, solo nella fase finale, è entrata in crisi. Tutto questo — è bene insistere su questo — con una mobilitazione molto significativa (centinaia di migliaia) che ha incontrato nell’indipendenza della Catalogna la sua “utopia concreta”, trasversale e liberatoria.

Non penso che sia sbagliato dire che nei calcoli strategici del nucleo dirigente indipendentista c’era, in primo luogo, l’idea che l’Unione europea (confondere l’Unione Europea con l’Europa è sempre rischioso) sarebbe stata neutrale o che avrebbe anche potuto sostenere il processo di indipendenza. Immagino che questo nucleo dirigente sapesse qualcosa che il resto dei mortali non sapeva. Un secondo elemento porterebbe a pensare che il movimento indipendentista avesse ritenuto che lo Stato spagnolo non avrebbe avuto abbastanza forza per bloccare o ostacolare il processo secessionista. Ci sarebbe infine un terzo elemento che non sappiamo se sia stato preso davvero in considerazione al momento dell’avvio del processo. Mi riferisco alla capacità del governo Rajoy di costruire un’ampia maggioranza parlamentare, forte del sostegno quasi unanime dei mezzi di comunicazione, quindi l’appoggio, più o meno esplicito, di una parte significativa della popolazione spagnola.

La strategia di Mariano Rajoy è stata, per molti aspetti, intelligente. Alla “guerra di movimento” condotta dal governo della Generalitat catalana ha risposto con una “strategia di logoramento”, che ha sì lasciato l’iniziativa all’avversario, ma gli ha permesso di guadagnare tempo, raccogliere le forze e rendere evidenti le contraddizioni dell’avversario.

Rajoy ha giocato duro sin dall’inizio. La prima cosa era ottenere l’appoggio dell’amico americano, oggi particolarmente complicato data la figura di Donald Trump. Quindi, intrecciare accordi con l’Unione Europea, i suoi governi e le sue istituzioni e, più avanti,  neutralizzando una campagna internazionale del governo catalano particolarmente efficace.

Rajoy ha lasciato fare, ha permesso agli indipendentisti di avanzare spingendo il governo indipendentista fosse sempre più audace e rompesse con una parte della popolazione catalana, facendo così emergere tutte le loro contraddizioni. L’ipotesi di una direzione plebea del processo che avrebbe confermato l’autonomia del movimento in Catalogna, alla fine non si è materializzata. Quando il presidente Puigdemont, all’ultimo minuto, ha cercato di concordare un’uscita che avrebbe impedito l’applicazione dell’art. 155, era troppo tardi. Rajoy si era reso conto di aver vinto la partita e di essere in grado di consegnare al presidente della Generalitat la decisione finale. La proclamazione della presunta indipendenza è stata così un fiasco. Lo sbandamento è stato generale e siamo già pienamente impegnati in una campagna elettorale che, a mio parere, potrà produrre sorprese significative. L’imprigionamento del governo della Catalogna e il mandato di cattura internazionale del resto, è stato l’inizio di una repressione applicata con un gradualismo calcolato. Si sente dire, addirittura, che non ci saranno prigionieri il giorno delle elezioni.

Penso si possa dire che la lotta contro la repressione abbia di nuovo prodotto un movimento che aveva perso la bussola e che manca di una solida direzione politica. Ora siamo nel “si salvi chi può” elettorale e, da qui, riorganizzare le forze e riformulare una strategia che ha mostrato enormi carenze.

Tutto suggerisce che le elezioni del 21 dicembre saranno particolarmente complicate. I sondaggi parlano di una mappa elettorale molto simile alla precedente, senza grandi novità. Ho l’impressione che ci possano essere delle sorprese e che ci ritroveremo con un parlamento catalano diverso con una composizione più eterogenea. L’importante, secondo me, è in procinto di accadere. La cosiddetta crisi catalana è anche quella della Spagna come Paese e come Stato. Si può evitare, e persino ignorare, ma la crisi del Regime del ’78 rimane aperta; si potrebbe sostenere che la restaurazione ha avanzato e che le forze della rottura democratica hanno perso influenza, si sono divise e hanno difficoltà nella definizione di un progetto di società, di governo e di Stato diversi.

Finisco come ho iniziato: il problema è la Spagna; Catalunya è causa ed effetto. Dimenticare questo è ingannarsi e ingannare. La questione Federale, prima o poi, arriverà, non come un surrogato o un ennesimo trasformismo politico-istituzionale, ma come un progetto per cambiare il tipo di stato ed i suoi rapporti con la società. Inoltre sopraggiungerà la questione sociale, con tutte le sue implicazioni e, soprattutto, più prima che poi, emergerà la madre di tutti i dibattiti: la necessità di un processo costituente per attivare il sovrano della nostra Costituzione, il popolo.

Fonte: El Diario
Traduzione a cura di SOLLEVAZIONE