Ovviamente nessuno crede che la fiammata di proteste iniziate il 28 dicembre a Mashad e subito estesasi in diverse città del Paese — Qom, Rasht, Kerman, Kermanshah, Qazvin ed altri capoluoghi di provincia —, sia stata una  “cospirazione orchestrata dalla Cia, dai sionisti e dall’Arabia saudita”. Non ci credono, ovviamente, nemmeno le massime autorità della Repubblica Islamica dell’Iran, anche se questa è la loro versione ufficiale.

Ci credono tuttavia alcuni complottisti nostrani uno dei quali, facendo eco alla narrazione iraniana ufficiale, ha scritto ad esempio:
«La ‘”rivoluzione colorata” iraniana – come avevo previsto – non è durata più di tre giorni; i provocatori e i teppisti sono stati identificati e isolati. Di chi si trattava? Dei soliti noti, dall’MKO ai servizi d’intelligence israeliani e sauditi, cellule ‘’dormienti’’ che da anni attentano alla sicurezza nazionale della Republica Islamica».

Nei tempi andati c’erano infatti i filosovietici, e all’altro lato i filocinesi, che giunsero a sostenere e giustificare le peggiori porcherie di Mosca o Pechino col motivo che si trattava di paesi socialisti. Oggi c’è chi ha sostituito la categoria di “paese socialista” con quella ancor più aleatoria di “stato antimperialista”. Nel nostro caso, si sostiene, l’Iran è uno “Stato antimperialista”. Per cui, chiunque sia al governo in Iran, esso sarebbe nel giusto e ogni opposizione, peggio ancora sommossa sociale, è di sicuro istigata e pilotata dagli imperialisti. Ci viene in mente quanto ebbe a dire Mao riferendosi ai filosovietici in seno al partito comunista cinese: “Per certi compagni le scoregge dei russi profumano”. No, le scoregge non profumano, tantomeno quelle che vengono da Tehran dopo l’ascesa al potere di Hassan Rohani e la defenestrazione di Ahmadinejad.

Consigliamo così a questi complottisti di leggere quanto dichiarato dal partito comunista iraniano Tudeh:
«Contrariamente alle affermazioni di alcuni leader dei riformisti favorevoli al regime che tali proteste sono “cospirazioni”, crediamo profondamente che la maggior parte della gente della nostra nazione sia delusa e frustrata dagli slogan di coloro i cui unici obiettivi sono apportare lievi modifiche al regime attuale, e ora chiedono cambiamenti fondamentali nella governance del paese».

Se fosse vero che le recenti proteste in Iran sono state fomentate da “Cia, Israele e Arabia Saudita”, come mai (notizia gravissima di ieri mattina) è stato arrestato, su ordine della Guida suprema Ali Khamenei l’ex-presidente della Repubblica islamica Mahmoud Ahmadinejad? Forse che Ahmadinejad è diventato nel frattempo un agente di “Cia, Israele e Arabia Saudita”? Ovviamente nessuno crede a questa accusa, nemmeno quelli che lo hanno messo agli arresti. Delle due l’una: o la sollevazione è una recidiva della molto borghese “onda verde” del 2009 (infatti spalleggiata dai “riformisti” alla Rohani e che noi non sostenemmo, vedi QUI e QUI), oppure è stata scatenata dall’ala più radicale, giustizialista e antimperialista del campo islamico-shiita.

Il dato di realtà è che la Republica Islamica dell’Iran, al netto della sua politica estera di potenza regionale — che non sempre è antiamericana, basta ricordare il semaforo verde dato all’aggressione del 2003 all’Iraq di Saddam Hussein, e più indietro, il sostegno in combutta con Washington allo squartamento della Iugoslavia — è un paese capitalista, con tutto il corollario di corruzione sistemica, diseguaglianze e discordie sociali che il capitalismo si porta appresso. E dove c’è il capitalismo, tanto più quello bazarista-predatorio persiano, c’è la lotta di classe.

Le ciniche dichiarazioni americane e israeliane di sostegno alla sommossa — che il regime si vanta di aver sedato: una ventina di morti e centinaia di arresti — nulla tolgono al suo carattere di rivolta popolare. Legittima aggiungiamo, la cui scintilla sono state le recenti misure di tipo liberista adottate dal governo di Rohani: aumenti di alcuni generi di prima necessità, tagli ai sussidi sociali, nuove privatizzazioni di aziende pubbliche. Al fondo c’è l’indignazione contro un sistema che mentre conosce un aumento del Pil del 4-5% annuo registra non solo un’altissima disoccupazione ma conosce un aumento senza precedenti delle diseguaglianze sociali. Capitalismo di stato, così si definiva il sistema iraniano post-1979. E’ discutibile se questa definizione sia oggigiorno corretta.

L’arresto del “populista” Ahamadinejad in quanto principale figura dell’opposizione interna (figura detestata in alto quanto amata in basso) dimostra che la rivolta ha avuto un più profondo carattere politico.

Sulla natura politica della rivolta scrive il direttore dell’Institute of Global Studies:
«Molti piccoli episodi hanno contribuito a determinare la rabbia della popolazione, spingendola poi nelle strade e nelle piazze. Tre finanziarie private, ad esempio – la Samen Alhojaj, la Caspian Financials e la Aman Financial Institution – sono di fatto fallite nelle scorse settimane, e i risparmiatori chiedono oggi la restituzione delle somme investite, accusando il governo di collusione con i vertici delle istituzioni finanziarie. Tutte e tre le finanziarie offrivano ritorni sugli investimenti a dir poco esorbitanti, attraendo in tal modo migliaia di risparmiatori in quella che sembra delinearsi a tutti gli effetti come una truffa sul modello delle ben note “piramidi finanziarie”. Ciononostante, i risparmiatori truffati non accettano accuse di dabbenaggine e chiedono al contrario alle istituzioni pubbliche di far fronte ai debiti accumulati dalle finanziarie.

Nelle aree recentemente colpite dal terremoto la protesta prende invece corpo intorno alle migliaia di persone che hanno perso la propria abitazione in conseguenza del sisma, e che oggi accusano il governo e le società immobiliari che hanno realizzato gli immobili (alcune riconducili alla struttura economico-finanziaria della Sepah-e Pasdaran) non solo di inefficienza nei soccorsi, quanto soprattutto di frode nelle modalità di realizzazione degli immobili, rivelatisi non anti-sismici.

In buona parte delle città settentrionali interessate dalle proteste, invece, la popolazione ha soprattutto accusato il governo Rohani di inefficienza, corruzione e abbandono, dopo anni di promesse che non si sono mai concretizzate. È la disoccupazione il principale motore del malcontento, che soprattutto nelle città di provincia e nelle fasce giovanili raggiunge percentuali elevatissime, ormai difficilmente sostenibili.

A questo si aggiunge il malcontento per la dilagante corruzione, per i numerosi scandali che interessano le èlite politiche ed economiche del paese, attraverso un susseguirsi di scandali che una stampa articolata ed eterogenea non manca di commentare e condannare, nel perenne dualismo tra le forze conservatrici e quelle di ispirazione pragmatico-riformista.

Ultimo, ma non certo meno rilevante, ad alimentare la protesta e il malcontento verso la gestione politica e amministrativa del presidente Rohani [la cui elezione noi non salutammo] possono essere individuati alcuni centri del sistema politico più conservatore. In questo ambito trovano quindi spazio sia figure dell’apparato politico-economico, interessate a screditare le politiche di apertura alla comunità internazionale e soprattutto il JCPOA, sia esponenti del sistema clericale come ad esempio l’Ayatollah Hossein Noori Hamedani, che ha prontamente sostenuto i manifestanti nell’ottica di indebolire il programma politico del presidente.

Attraverso questo meccanismo di propagazione, quindi, la protesta è arrivata ben presto nelle strade della capitale, interessando anche in questo contesto gruppi molto diversi tra loro per estrazione ed approccio ideologico. Le motivazioni che spingono quindi anche un numero non indifferente di abitanti di Tehran alla protesta sono essenzialmente connesse ad una vasta quanto eterogenea radice, genericamente riconducibile al generale malcontento per la crisi economica, la perdurante stasi del JCPOA [Joint Comprehensive Plan of Action, ovvero l’accordo sul nucleare del 2015, NdR] e la contestuale aspettativa sugli investimenti stranieri che non arrivano in Iran, la dilagante corruzione e una generale inquietudine sul piano della politica estera e soprattutto regionale».

Sì, come ogni sollevazione popolare spontanea, in essa confluiscono molti rivoli, generando una piena che convoglia istanze anche molto diverse. Se è risibile la tesi della “cospirazione Cia, sionisti e Arabia Saudita”, non è quindi credibile neanche quella che sarebbe stata una rivolta a comando ordita dalla confraternita di Ahamadinejad. Così, mentre abbiamo notizie di manifestanti che protestavano contro l’ingente impegno militare e finanziario dell’Iran nei conflitti in Medio Oriente (anzitutto in Siria) “mentre i poveri muoiono di fame”, altre ci indicano che in alcune città si gridava contro Rohani perché in cambio dei cedimenti agli Stati Uniti sul nucleare, avrebbe avuto in cambio solo un pugno di mosche — accordi del JCPOA che noi al tempo criticammo: vedi QUI e QUI.

I media occidentali oltre ad aver tentato di sputtanare la rivolta come una recidiva della cosiddetta “onda verde” del 2009, tentano nuovamente ed in modo maldestro quanto patetico di usare l’icona della “eroica” ragazza senza chador, per mettere il loro cappello sul malcontento popolare, facendola insomma passare per una rivolta filo-occidentale. Niente di più lontano dalla realtà.

Peggio, c’è chi, ubbidendo a primordiali impulsi sionisti e imperialisti, giunge addirittura, col pretesto di “non tradire gli iraniani”, a sostenere la politica bellicistica di Trump. Scrive ad esempio il direttore de LA STAMPA Maurizio Molinari:
«Se tutto questo mette alla prova l’Occidente è perché quando nel giugno del 2009 l’Onda verde della protesta iraniana sfidò il regime, contestando i risultati della riconferma alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad, gli Stati Uniti e l’Europa si voltarono dall’altra parte. Moltitudini di iraniani credettero che l’Occidente li avrebbe ascoltati e sostenuti. Ricevettero invece solo un tradimento, morale e politico, il cui primo – ma non solo – responsabile fu il presidente americano Barack H. Obama che, anziché sostenere le loro grida di libertà, scrisse in segreto a Khamenei, offrendogli un dialogo che sei anni dopo avrebbe portato all’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano corredato dalla fine delle sanzioni con imbarazzanti dettagli segreti che solo ora iniziano ad affiorare: dalla spedizione con un aereo militare di un miliardo di dollari in contanti ai pasdaran al blocco delle indagini dell’Fbi sui traffici illeciti degli Hezbollah fino all’avvertimento a Teheran che il generale Suleimani rischiava di essere eliminato da Israele. Scegliendo il silenzio davanti alla repressione dell’Onda verde Obama indirizzò l’America, e trascinò l’Europa, verso l’appeasement con lo stesso regime che oggi gli iraniani tornano a contestare a viso aperto, rischiando le proprie vite. Da qui l’importanza della scelta dell’amministrazione Trump di schierarsi subito dalla parte dei manifestanti e l’interrogativo se la Casa Bianca riuscirà a far seguire alle parole i fatti. È un bivio che riguarda anche l’Europa: dopo le prime timide dichiarazioni da Berlino e Bruxelles ha l’occasione per invertire drasticamente la rotta rispetto agli errori compiuti con gli ayatollah negli ultimi otto anni!».

La solidarietà con i manifestanti persiani non ci impedisce di dichiarare sin d’ora che difenderemo la Repubblica Islamica dell’Iran davanti ad ogni aggressione americano-sionista. Di converso, questa minaccia reale, non ci spinge a sostenere un regime politico la cui politica antipopolare indebolisce il Paese rendendo quella minaccia ancor più temibile.

Libertà per Ahmadinejad!
Libertà per tutti i manifestanti arrestati!