Nel cantone di Afrin, all’interno della regione curda del Rojava siriano, si combatte. I carri armati di Ankara, con l’appoggio delle milizie dell’Els, hanno l’obiettivo di creare una “zona cuscinetto” larga 30 km in territorio siriano. Nel caos mediorientale siamo di fronte ad un nuovo sviluppo, certo non imprevisto. Ai curdi non è servito granché fare il lavoro sporco per gli americani… Di seguito un articolo di Pier Francesco Zarcone.

La decisione statunitense di addestrare specificamente circa 30.000 uomini di una milizia curda alla frontiera turco-siriana era considerabile un’iniziativa avventata e dalle conseguenze catastrofiche – e tale si è subito rivelata – ma, paradossalmente, è anche comprensibile nella globale situazione siriana. Lasciamo stare i profili di violazione della sovranità dello Stato siriano, giacché gli Usa il diritto internazionale lo fanno e lo disfanno a loro piacimento e i media presentano tali fatti come se fossero normali.

I motivi del giudizio di avventatezza sono facilmente individuabili. Il minore di essi sta nella notoria inaffidabilità delle organizzazioni politico-militari curde, accompagnata da un opportunismo pasticcione e tuttavia di continuo strumentalizzato e tradito dai loro stessi alleati di turno. Era peraltro ovvio che – significando l’iniziativa in questione il rafforzamento della presenza curda nel nord siriano, cioè sotto il confine turco – il governo di Ankara non avrebbe mai lasciato correre un tale precedente in favore di un nucleo armato che considera affiliato al Pkk di Turchia. Se si vuole essere davvero realisti, anche a costo di sembrare brutali, è ormai assodato che esclusivamente in presenza di particolari condizioni storiche – come è accaduto in Iraq – risulta possibile per una popolazione curda conseguire forme di autonomia all’interno dello Stato in cui risiede. Ma di indipendenza non se ne parla: lo si è visto con la misera fine del referendum indipendentista curdo-iracheno messo in non cale dall’immediata posizione di blocco attuata dai governi di Baghdad, Ankara e Teheran.

Non era quindi difficile prevedere che per i Curdi di Siria la positiva risposta alle lusinghe statunitensi li avrebbe esposti alla reazione turca. E non pare che Washington li stia aiutando, così come rimase silente quando il referendum indipendentista del Kurdistan iracheno provocò le predette reazioni.

L’ulteriore profilo di avventatezza (e di lesionismo per i Curdi), se davvero negli Usa si pensava di rafforzare un’autonomia curda nella Siria settentrionale, riguarda il fatto che – anche a prescindere dall’inevitabile reazione turca – l’ostilità di Damasco, Ankara e Baghdad di fronte a questa iniziativa imposta da Washington avrebbe portato ancora una volta al blocco militare-economico dell’area di cui trattasi, la quale non avrebbe potuto sopravvivere più di tanto.

Inoltre – e non di poco conto – c’è da notare che ancora una volta gli Stati Uniti hanno impacchettato un bel regalo alla politica estera russa. La Turchia sarà pure un’alleata nella Nato, ma non da ieri cura in proprio i suoi interessi politici ed economici. Oggi di specifico c’è il fatto che la reazione militare turca costituisce una vera e propria sfida agli Usa, che attualmente nella zona controllata dai Curdi siriani hanno cinque basi militari (alla faccia del governo di Damasco), tanto più che Washington aveva sollecitato il governo turco a non intervenire in armi contro le milizie curde. Forse Ankara avrebbe chiuso un occhio sul mero progetto statunitense di utilizzare le zone siriane controllate dai Curdi come punto di partenza per ulteriori azioni in Siria e Iraq, ma rafforzare militarmente questa enclave significa anche creare una base di appoggio per i separatisti curdi in Turchia – e sotto ombrello statunitense.

Intanto si registra che il capo di Stato maggiore delle Forze armate iraniane, il maggior-generale Mohammad Hossein Bagheri, nel corso di una telefonata col suo omologo turco, Hulusi Akar, ha chiesto garanzie sull’integrità territoriale siriana e circa la salvaguardia dei negoziati di pace di Astana.

Che Damasco protesti per l’azione turca è più che naturale, ma è probabilissimo che Assad e Putin resteranno a guardare il corso degli eventi: in fondo Erdo?an lavora anche per loro. Non solo il deterioramento dei rapporti Ankara-Washington va benissimo a Damasco e Mosca, ma soprattutto se la Turchia schiacciasse le milizie curde siriane la conseguenza sarebbe la necessità per gli Stati Uniti di ritirarsi fisicamente dalla Siria.

Anche Teheran gongolerebbe, giacché in quest’eventualità si indebolirebbe assai il piano statunitense-israeliano contro l’Iran. Ancora una volta staremo a vedere, ma se la Turchia riuscisse a sferrare colpi pesanti agli alleati curdi di Washington in Siria, Trump & C. riceverebbero un duro colpo d’immagine. Intanto Ankara continua tranquillamente a cooperare con Mosca nella preparazione del Congresso per il Dialogo nazionale siriano (fra rappresentanti governativi e dell’opposizione), previsto a Sochi tra il 29 e il 30 gennaio.

Ci troviamo di fronte a un’iniziativa al tempo stesso disperata e comprensibile. Infatti, nella situazione determinata dal deciso e decisivo intervento russo, ormai agli Stati Uniti non restava che “attaccarsi ai Curdi” pur di mantenere una presenza física in Siria. La scelta di privilegiare un fantomatico Esercito Libero Siriano si era rivelata fallimentare, a motivo dell’inconsistenza militare e politica di quest’opposizione – perdipiù pseudo-“moderata” – rapidamente travolta dai jihadisti di varia tendenza e infine dall’Isis; e anche lo sdoganamento di an-Nusra (affiliata ad al-Qaida!) si è risolto in un nulla di fatto, essendo state le sue milizie conciate male dall’azione dell’esercito di Assad e dai colpi dell’Isis.

In astratto la convergenza verso i Curdi sarebbe potuta essere una carta utilizzabile, senza dubbio pericolosa, ma non priva di qualche utilità se giocata accortamente, vale a dire senza strafare. Così non è stato, e ancora una volta gli Stati Uniti si sono comportati come se al mondo esistessero solo loro.

da Utopia Rossa