L’attacco turco ai curdi di Siria

Si tratta di un’iniziativa militare e politica appartenente alla categoria del quod erat demonstrandum. Imputarla a Recep Tayyip Erdogan in quanto tale sarebbe senza senso, perché chiunque si fosse trovato alla presidenza della Turchia avrebbe fatto lo stesso (non si dimentichi quanto celermente, in termini militari, agì a Cipro il primo ministro turco, il laico Bülent Ecevit, dopo il colpo di stato fascista contro Makarios negli anni ‘70), e con la medesima disinvoltura.

Solo un pazzo avrebbe potuto pensare che si sarebbero limitate al campo diplomatico le conseguenze della decisione statunitense di rafforzare le milizie curde nella Siria settentrionale e addirittura di affidare loro il controllo del confine turco-siriano, tanto più essendo collegate col Pkk di Turchia. La mossa degli Usa è stata per la Turchia l’equivalente della virtuale apertura di un secondo fronte coi Curdi. Di qui l’avvio di un’operazione militare cinicamente – o ironicamente – denominata «Ramo d’ulivo».

L’IRRISOLVIBILE PROBLEMA CURDO

Ritorna in primo piano il problema curdo, nato dalla spartizione dell’Impero ottomano dopo la Prima guerra mondiale, secondo i voleri di Gran Bretagna e Francia, e dalla vittoria in Anatolia dei nazionalisti turchi di Mustafa Kemal Atatürk. Di conseguenza, i Curdi si trovarono – da sudditi ottomani quali erano (esclusi quelli della Persia) – cittadini poco o per niente amati di Iraq, Siria e ovviamente Turchia. L’illusione di un non meglio precisato Kurdistan autonomo o indipendente, accolto dagli Alleati nel trattato di Sèvres, si dissolse rapidamente a motivo del nuovo assetto dell’area dovuto alle imprese di Atatürk.

Tanto la Turchia quanto i nuovi Stati di lingua araba costruiti a tavolino avevano e hanno problemi di omogeneità e solidità di vario ordine e grado, ma tali da sconsigliare aperture alle rivendicazioni curde. Si tratta di un mero dato di fatto. Così i vari governi interessati dalla questione curda, oltre a mettere in atto una politica interna ostile, si sono collocati in una fascia di oscillazione che va dalla strumentalizzazione contingente dei Curdi di casa d’altri al blocco interstatuale, quando certe pretese puntano a oltrepassare una determinata e proibita linea rossa; come è accaduto nel caso recente del referendum indipendentista del Kurdistan iracheno: sulla linea rossa antistante l’indipendenza si sono schierate compatte Baghdad, Teheran e Ankara. Va sottolineato che le circostanze storiche cui si deve la formazione dell’autonomia curda in Iraq siano rimaste del tutto eccezionali.

In un Vicino Oriente dove ciascuna entità pensa cinicamente solo ai propri interessi, i Curdi non sono stati da meno, ma con risultati per loro devastanti in quanto oggettivamente privi della possibilità di effettuare il gioco degli opportunismi a proprio vantaggio: il tutto si è risolto nello scegliere di volta in volta il partner straniero ritenuto più idoneo – un domani però – a favorirne l’indipendenza. E ogni volta il fallimento è dietro l’angolo. In buona sostanza si tratta del classico modo di agire cui si deve se il Vicino Oriente è diventato quel che è. Basti ricordare la rivolta di Mustafa Barzani contro il governo di Saddam Husayn negli anni ‘70. In base alla garanzia statunitense di appoggio iraniano in armi e rifornimenti, i Curdi iracheni si ribellarono: alle prime difficoltà non solo lo Shah rifiutò l’intervento diretto in loro favore, ma quello stesso Henry Kissinger – che inizialmente aveva fornito ai Curdi la predetta garanzia – patrocinò un accordo fra Teheran e Baghdad a seguito del quale lo Shah cessava ogni aiuto agli uomini di Barzani in cambio della cessione di alcune porzioni territoriali dall’Iraq all’Iran. Si potrebbe aggiungere che nel 2006 gli interessi momentanei fecero sì che Washington fornisse ad Ankara servizi logistici nella lotta contro i ribelli del Pkk. E oggi i Curdi di Siria si sono messi incoscientemente al servizio degli interessi statunitensi nell’area illudendosi di fare anche i propri, col risultato di rimanere soli allo scatenarsi della tempesta.

I CURDI

I Curdi di Siria, con l’illusione di creare una loro zona nel Rojava, hanno suscitato acritiche solidarietà in una parte dell’opinione pubblica occidentale, soprattutto quella di sinistra, a prescindere dai loro problematici e conflittuali rapporti con la locale popolazione araba e turcomanna; a questo si aggiunga (per quello che conta in sé, ma per una certa sinistra conterebbe) il giudizio negativo su di essi da parte dei ribelli siriani, che imputano loro di essersi di fatto alleati col governo di Damasco in cambio (?) dell’autonomia del Rojava. L’interrogativo è d’obbligo perché il Rojava – cioè i cantoni di Afrin, Jazira e Kobane – copre il 25% del territorio siriano. Nella loro azione iniziata nel 2016 le milizie curde hanno liberato dai jihadisti anche città a maggioranza araba, senza però consegnarle né al governo di Damasco né ai ribelli anti-Assad, bensì inserendole sotto il loro governo del Rojava. Poi i Curdi hanno chiuso la Castello Road, vale a dire la principale strada di accesso ad Aleppo, contribuendo in modo importante alla totale riconquista della città da parte dell’esercito governativo siriano. Per esigenze propagandistiche nella guerra all’Isis, àuspici gli Stati Uniti, le milizie curde sono diventate – integrando un pugno di combattenti arabi – le Syrian Defense Forces (Sdf), senza tuttavia che ciò ne alterasse il carattere essenzialmente curdo.

L’acriticità occidentale sui Curdi in genere – oltre a tacerne l’entusiastico e non rinnegato ruolo svolto nel genocidio armeno («cose vecchie», direbbe qualcuno) – non considera la loro prolungata e ininterrotta tradizione di feroce e sanguinosa conflittualità interna, né riporta l’alto grado di brutale autoritarismo, corruzione e inefficienza del governo del Kurdistan iracheno, ad opera di entrambi i clan dominanti dei Barzani e dei Talabani. Non è infrequente che si esalti il carattere rivoluzionario delle milizie curde dalla Turchia alla Siria e fino all’Iraq, sottacendo però che i Curdi che le costituiscono si limitano (come tutti gli altri, del resto) a chiedere diritti per se stessi, infischiandosene alla grande di quelli degli altri.

L’attuale affidamento dei Curdi di Siria all’abbraccio mortifero degli Stati Uniti è stato tale da far loro rifiutare l’appoggio russo-siriano offerto all’approssimarsi della crisi di frontiera; appoggio riconducibile all’intenzione russa di coinvolgere i Curdi nei colloqui di Astana e all’apertura di Assad – forse obtorto collo – verso una contrattata autonomia del Rojava. L’appoggio di Damasco avrebbe potuto consistere nello schierare proprie truppe nella zona in questione come deterrente, cioè mettendo Ankara di fronte all’alternativa: non agire militarmente oppure farlo, ma attaccando un alleato della Russia, cosa al momento irrealistica.

A questo punto è entrato in scena il tragicomico: il segretario generale della Nato (di cui tutto può dirsi, tranne che non sia una marionetta degli Stati Uniti), pontificando sul diritto di difesa della Turchia, ha tuttavia chiesto il rispetto per la misura, cosa che alcuni hanno interpretato come un «bombardate sì, ma con moderazione!». Dal canto loro, i Curdi ci hanno ripensato di nuovo, invitando Damasco nientemeno che alla difesa della propria sovranità territoriale contro la mini-invasione turca. Troppo tardi; a questo punto infatti, con i Turchi entrati in azione, la reazione armata siriana avrebbe avuto il senso dell’attacco alla Turchia, con conseguenze devastanti per Assad, il cui esercito non sarebbe in grado di farvi fronte.

IRAN, SIRIA E RUSSIA

Al di là delle prese di posizione ufficiali – e delle proteste di prammatica – al momento né Damasco né i suoi alleati si sono agitati più di tanto. Cominciamo con l’Iran. Non vi è dubbio sulla condivisione delle preoccupazioni turche da parte di Teheran, e non solo in ragione della presenza di una zona curda all’interno dei suoi confini. Infatti la strumentalizzazione dei Curdi ad opera di Washington si inserisce nella nota strategia contro l’Iran: di conseguenza il deteriorarsi delle relazioni fra Ankara e Washington è utilissimo per il suo contenimento, e se poi il deterioramento sfociasse in crisi vera e propria sarebbe ancora meglio. Oltretutto, se i Turchi riuscissero a cacciare i Curdi oltre l’Eufrate, la stessa presenza degli Stati Uniti in Siria, in prospettiva, potrebbe soffrirne.

Riguardo alla Siria, molto è cambiato rispetto al periodo in cui Damasco era collaborativa con i Curdi, come quando il leader del Pkk, Abdullah Öcalan, fu ospitato nel Paese per ben quindici anni. Ora infatti ad Assad è chiaro (al pari che all’Iran) che se prima del conflitto siriano conveniva appoggiare il Pkk, ora le cose stanno diversamente, col rischio che il braccio siriano di quell’organizzazione vi crei un proprio territorio autonomo o semi-indipendente. Resta aperto il rischio che la Turchia – al di là delle rassicurazioni ufficiali – abbia mire territoriali sulla Siria. Per cui al momento Damasco non fa il tifo per nessuno e, tutto sommato, nemmeno per i Curdi. Si deve tener presente una questione importante: dove si sono installati, i Curdi la fanno da padroni. Le richieste di Assad affinché il controllo della sicurezza e l’amministrazione finanziaria fossero consegnati a propri funzionari, in modo da evitare l’attacco, sono state disattese: i cittadini siriani entrano nel territorio sotto controllo dietro permesso delle cosiddette Unità di Protezione Popolare (Ypg) curde; l’amministrazione curda riscuote tasse, trattiene i proventi delle vendite petrolifere e acquista terreni da arabi siriani. Quand’anche senza particolare piacere, per Damasco è chiaro che l’attacco turco ha un effetto duplice e non disprezzabile: contro i Curdi e contro gli Stati Uniti. E, cosa importante, il prolungarsi dell’operazione «Ramo d’ulivo» aumenterà il tempo a disposizione dell’esercito di Assad nell’attacco a Idlib, città su cui Ankara potrebbe avere delle mire.

Per la Russia, il problema curdo-siriano è qualcosa di parzialmente utilizzabile: ma se qualcuno lo eliminasse? Ancora meglio. Infatti l’operazione militare di Ankara è avvenuta senza l’opposizione russa, e questo conferma altresì che Mosca ha finito col ritenere questa novità nella crisi siriana utile contro i progetti statunitensi nel nord della Siria.

Se non è l’attacco turco ad essere sorprendente, per taluni lo sono invece le difficoltà da esso incontrate sul terreno, con la conseguente lentezza nel suo svolgimento. Ma ancora una volta le apparenze possono ingannare. È innegabile – nella fase attuale dei rapporti Ankara-Washington, deteriorati dal dilettantesco e fallito golpe militare palesemente filoatlantico – negli Stati Uniti in parecchi godrebbero di un’umiliazione di Erdogan, ma non è detto che l’auspicio si avveri: è vero che le cose non vanno benissimo, ma al momento i Turchi stanno utilizzando come forza d’urto solo miliziani al loro servizio (ceceni, uiguri e turkestani), e senza che manchino jihadisti di varia tendenza. Anche così, per quanto potrà reggere la resistenza curda? Non si esclude che prima o poi entreranno in campo anche le Forze armate turche; ma ad ogni modo più si prolunga quest’operazione militare, più i Curdi e i Turchi perdono mezzi, uomini e soldi.

Da non trascurare il fatto che le parti in causa si giocano anche la reputazione: per la Turchia fallire vorrebbe dire perdere prestigio militare e influenza in tutta l’area vicino-orientale, oltre che nella Nato. I Turchi e i loro miliziani sono entrati in un territorio ignoto e ostile che i Curdi invece conoscono alla perfezione: sono ben armati dagli Stati Uniti e tutto sommato operano in difesa. Se però non costringono i Turchi alla ritirata, la loro sconfitta sarà totale, assieme alla totale irrilevanza nell’area.

Automaticamente si pone il problema della definitività o meno del distanziarsi turco dagli Usa. Per ora – risaputa l’inaffidabilità, per chiunque, della Turchia attuale – va detto che molto potrà dipendere dall’evolversi dello scontro in atto all’interno delle Forze armate statunitensi fra pro- e anti-Turchia: se finisse col prevalere la prima tendenza, non ci sarebbe da stupirsi se Ankara tornasse disinvoltamente all’intesa con Washington. D’altro canto, prima o poi gli Stati Uniti dovranno fare una scelta di base, poiché la creazione di un’entità-fantoccio curda in Siria esclude i buoni rapporti con Ankara, e viceversa.

da Utopia Rossa