Si erano appena chiuse le urne e registrato il terremoto elettorale che questo blog ha ospitato quelli che ci sono sembrati i commenti più sensati. Ci sembra che l’essenziale sia stato detto da Leonardo Mazzei: nelle urne si è riversata una vera e propria rivolta sociale e politica; la casta eurista è stata travolta; la maggioranza degli italiani chiede una svolta e per questo ha premiato i cosiddetti “populisti”. Discutiamo adesso del dopo-elezioni e del che fare. La parola a Moreno Pasquinelli, che si chiede….

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Nel nuovo Parlamento i vituperati (dai poteri forti) “populisti” hanno la maggioranza dei seggi. Potrebbero decidere di allearsi per formare il nuovo esecutivo. Invece che abbiamo? Abbiamo la commedia per cui sia Di Maio che Salvini, terrorizzati all’idea di governare assieme, invocano il salvagente del Pd. Perché lo fanno? Lo fanno perché sanno che i poteri forti, euro-oligarchie in primis, si metterebbero di traverso. Come ha affermato il Consiglio nazionale di P101:

«Le élite, nel tentativo di conservare ben salde nelle loro mani le decisive leve del potere, dovranno evitare che l’instabilità italiana diventi benzina sul fuoco della crisi europea, tenteranno quindi in ogni modo di addomesticare questi populismi, sterilizzando le spinte antieuriste che li hanno portati alla vittoria. Condividere coi populismi (quantomeno uno dei due) la stanza dei bottoni è un prezzo che le élite sono disposte a pagare non solo per evitare pericolosi scossoni, ma perché sanno che questa è la terapia per corromperli e quindi neutralizzarli».

Il disegno di chi comanda davvero è chiaro: essi vogliono sterilizzare M5S e/o Lega, usarli come salvagente del sistema, quindi farli entrare in un governo in cui il pallino resti nelle mani del PD —che per loro è la garanzia che non si uscirà dal seminato (ordoliberista).

Domanda: ci conviene che si realizzi il disegno dei poteri?
Risposta: NO!

Dalla prima domanda ne discende una seconda che so potrà suonare provocatoria o addirittura pazzesca: NON SAREBBE MEGLIO CHE M5S E LEGA FORMINO IL GOVERNO?
Risposta: SÌ, sarebbe meglio.

Questo augurio non viene dall’emozione di un momento ma è frutto di ragionamenti più profondi che andiamo facendo da tempo. Per dimostrarlo ritengo doveroso pubblicare quanto scrissi nell’ottobre 2016, alle porte del decisivo referendum del 4 dicembre, di cui il terremoto elettorale è figlio legittimo.

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I POPULISMI

L’indegna capitolazione delle sinistre ai poteri oligarchici (ultimo caso quello di SYRIZA in Grecia), la debolezza senza precedenti dei movimenti socialisti, non significa affatto che non crescano tra le larghe masse il disprezzo per le élite dominanti e l’opposizione ai regimi oligarchici. Entrambi vanno anzi crescendo in maniera esponenziale in numerosi paesi, tra cui il nostro. Un’opposizione che assume tuttavia forme minimaliste inadeguate, insipienti, spesso inquietanti. Poteva essere diverso dopo che quasi due generazioni sono state cresciute a pane, valori neoliberisti, edonismo consumistico, allucinazioni mediatiche e incantesimi tecno-scientifici? No che non poteva essere diverso.

Le élite intellettuali al servizio dei regimi oligarchici, nel tentativo di azzoppare questa nuove opposizioni, hanno lanciato contro l’anatema, le hanno bollate con quello che per Lorisgnori è un marchio d’infamia: “populismo”, “antipolitica”. Non ci facciamo intruppare nella compagnia del “politicamente corretto”, non commetteremo l’errore in cui ci vuole spingere l’élite dominante, di fare di tutt’erba un fascio. Dovremo anzi ben distinguere il grano dal loglio. Questi populismi hanno infatti forme e nature le più diverse. Alcuni di essi, i neofascisti camuffati, i partiti che mescolano xenofobia e neoliberismo, sono nostri nemici. Altri hanno un segno democratico, raccolgono, seppure in modo distorto e incompiuto, l’eredità anticapitalista e libertaria della sinistra che fu. Per loro natura instabili essi non solo sono destinati a crescere, fino a salire al potere in diversi paesi, attivano forze e soggetti sociali dalla cui fermentazione e maturazione potrebbero venire le energie necessarie per realizzare i cambiamenti che ci auspichiamo.

Occorre fare i conti coi populismi, imparare la lezione che da essi ci viene. Il loro dilagare è la conseguenza della crisi sistemica, della pauperizzazione generale, della compiuta degenerazione oligarchica del sistema, della disperazione che viene dalla sensazione che andrà peggio. I populismi sono la manifestazione del divorzio oramai consumato tra la maggioranza dei cittadini e le élite politiche neoliberiste nelle due varianti conservatrice e progressista —di qui il tramonto dei sistemi politici bipolari. Ciò che spiega il tratto caratteristico di tutti i populismi: il considerarsi oltre la dicotomia destra-sinistra. Un paradigma politico che oltre ad essere il risultato di un intero periodo di peana post-ideologici è anche, ove non sia un’abile stratagemma demagogico, segno inconfondibile della base sociale interclassista di suddetti populismi. Sarebbe vano fare gli esorcismi a questo interclassismo, prodotto delle profonde trasformazioni sociali causate dal lungo ciclo neoliberista (la metafora della “società liquida” post-fordista), esso è il precipitato dell’implosione del movimento operaio, la classe operaia essendo anzi diventata simbolo di un mondo morente. In questo interclassismo populista, connesso com’è al richiamo alle identità nazionali e comunitarie, alla richiesta di Stato come tutore e garante di diritti e sicurezza sociale, v’è un lato che dobbiamo saper apprezzare: esso è fattore di resistenza alla globalizzazione, una reazione ai suoi effetti paralizzanti di spaesamento, di rigetto, per quanto imperfetto della narrazione neoliberista.

Defunto il dogma della missione salvifica e teleologica della classe operaia, richiamandoci alle riflessioni gramsciane sulla egemonia e cultura nazionale popolare, noi vogliamo riappropriarci del concetto di popolo per risignificarlo non solo in quanto oggetto della nostra azione ma come soggetto delle grandi trasformazioni sociali di cui la società abbisogna e di cui è gravida. Essendo la via d’accesso a queste trasformazioni sbarrata dai poteri oligarchici, che infatti procedono rafforzando la spessa corazza difensiva che li protegge, i popoli si vedranno obbligati ad aprire una breccia, a sfondare le linee nemiche. La collisione tra chi sta sotto e chi sta sopra è inevitabile. Nei prossimi anni si decide chi, nel campo di chi sta sotto, sarà alla testa della riscossa sociale, se quindi lo sbocco sarà una rivoluzione democratica o, all’opposto, reazionario.

LA STRATEGIA, LA TATTICA, L’ORGANIZZAZIONE

Noi che vogliamo tenere alta la fiaccola del socialismo, di un sistema che funzioni non nell’interesse di pochi ma per il bene comune e assicuri l’eguaglianza sociale nello stato di diritto, abbiamo responsabilità storiche. Non lasceremo cadere questa bandiera a causa degli enormi ostacoli sulla nostra strada. Non c’è altra possibilità che la lotta, che per produrre effetti deve essere fondata su una strategia adeguata che punti all’egemonia, alla conquista della maggioranza. Per questo, a maggior ragione perché questa battaglia è impari, dobbiamo organizzarci, dotarci degli strumenti adeguati per convincere i cittadini, la gioventù anzitutto, ad attivarsi, a venire dalla nostra parte.

Possiamo oramai prendere atto, di contro alle illusioni movimentiste e operaiste, che la crisi sistemica ha agito come una forbice: più venivano alla luce le crepe ed i limiti congeniti del capitalismo, più erano potenti i fattori che inibivano i conflitti sociali. Davanti ad una crisi sistemica grandi masse non si gettano nella mischia se non vedono un’alternativa (la sindrome di T.I.N.A.), tantomeno i lavoratori possono credere, con ai cancelli milioni di disoccupati che premono, nell’efficacia dei tradizionali metodi di lotta sindacali.

Amiamo la ribellione sociale ma non siamo ribellisti. Accendere scintille è legittimo, ma l’incendio della prateria dipende dal venire a maturazione di condizioni oggettive, Proprio ora queste condizioni vanno maturando: chi sta sopra non può più governare come prima, mentre la moltitudine che sta sotto non vuole più vivere come prima. In quanto minoranza creativa è nostro compito ridare lustro e credibilità alla visione socialista del mondo, ma esso può essere perseguito solo se, stando coi piedi ben piantati nel campo popolare, sapremo diventare il lievito di un’opposizione sociale più matura e avanzata. Bisogna tenere assieme ed in maniere innovative teoria e prassi, con i gesti e l’esempio dimostrare che abbiamo grandi ideali ma non siamo utopisti. Entriamo in tempi duri che premieranno la coerenza morale e la saldezza di principi, che daranno forza a chi saprà scovare l’ordine nel disordine, che chiederanno coraggio e disciplina nell’azione. Tempi che chiedono già oggi flessibilità tattica e fermezza strategica. La consapevolezza che occorre aggiornare metodi, linguaggi e lessico della battaglia politica non fa venir meno che la funzione peculiare di un movimento politico resta quella di dare forma compiuta ad un blocco sociale, ad un fronte popolare in grado di vincere e prendere in mano le redini del Paese.

Per quanto numerose siano le condizioni per conformare un blocco sociale antioligarchico egemonico, quattro sono e restano quelle assolutamente necessarie: (1) che esista nella società una maggioranza disposta al cambiamento nella giustizia sociale; (2) che questa maggioranza sociale, per quanto in forma incompiuta, sia rappresentata politicamente in movimenti antioligarchici; (3) che i movimenti politici che rappresentano questa maggioranza siano disposti a fare blocco per salire al governo per portare fuori il Paese dal marasma; (4) che essi, o anche solo quello dominante, abbiano una visione chiara dei compiti, ovvero un programma di governo che indichi le misure principali per guidare il Paese nel difficile passaggio, in quello che sarà a tutti gli effetti uno “Stato d’eccezione”.

Di queste tre condizioni la prima è presente, la seconda avanzante, la terza latente, la quarta assente.

Se uniamo le nostre forze è per costruire un soggetto politico che acceleri la formazione di questo blocco sociale embrionale e ne diventi il lievito, affinché possa avere la potenza necessaria e la forma adeguata. Se uniamo le nostre forze è infine perché noi sentiamo di poter svolgere una funzione importante affinché questo blocco prenda possesso della condizione oggi mancante, quella programmatica.

Portiamo in dote e mettiamo a disposizione del blocco popolare, la nostra esperienza, i nostri saperi, le nostre idee, le nostre proposte. Abbiamo l’ambizione, unendoci, di allestire un luogo che riesca ad indirizzare centinaia e migliaia di attivisti, che possa fungere da officina ove educarli e se necessario rialfabetizzarli.

VERSO UN GOVERNO POPOLARE D’EMERGENZA PER SALVARE IL PAESE

Che non si esce dal marasma senza una svolta radicale e profonda inizia a diventare senso comune. Cresce la consapevolezza che occorre andare alla radice della crisi del sistema, attuando nel nostro paese grandi trasformazioni economiche, sociali, politiche e istituzionali. Si diffonde la coscienza che queste trasformazioni saranno possibili solo con una svolta radicale, che la sovranità nazionale è il primo dei beni comuni, uscendo dalla gabbia dall’Unione europea. Vi è ancora chi considera l’uscita dall’Unione europea e l’abbandono dell’euro come idee velleitarie ed estremistiche. E’ vero esattamente il contrario. Il disfacimento dell’Unione europea e la fine dell’euro sono processi oggettivi, oramai irreversibili. Velleitari sono coloro che s’illudono di fermare queste tendenze facendo gli esorcismi, mettendo toppe che sono peggiori del buco. Estremisti sono gli oligarchi di Francoforte e Bruxelles ed i loro sodali nostrali, disposti a dissanguare i popoli pur di tenere in vita una moneta moribonda e ingrassare la nuova aristocrazia finanziaria. Il problema non è se abbandonare l’euro o meno, il problema è quando e chi guiderà questo ritorno alle sovranità nazionali. Se al potere resteranno i servi politici del capitalismo finanziario, o se ci saliranno movimenti reazionari, ne faranno pagare le salate conseguenze al popolo lavoratore. Se sarà un governo popolare a pilotare l’uscita, i sacrifici, certo inevitabili, saranno anzitutto in carico ai dominanti, e i frutti di questi sacrifici saranno utilizzati per il bene comune e la rinascita del paese. Come si riconosce un governo popolare? Se i provvedimenti che attua vanno a vantaggio del popolo lavoratore, e non dei dominanti, di qualche corporazione o della casta.

Abbiamo detto che nella società italiana esiste già una maggioranza disposta al cambiamento, ma questa maggioranza, o non si esprime politicamente, o si riconosce in movimenti populisti. Questi movimenti sono, rebus sic stantibus, la sola possibilità di formare un governo antioligarchico, per aprire una fase nuova per il nostro Paese. Il fatto che come ogni strada nuova porti con sé dei rischi non può giustificare, ai nostri occhi, alcun indifferentismo, che si risolverebbe in un aiuto alle classi dominanti.

La crisi combinata, dell’area euro, del traballante sistema finanziario-bancario e del regime politico italiano, potrebbe precipitare, determinando le condizioni per estromettere i partiti dell’oligarchia dal governo, ciò che sarebbe per loro una sconfitta bruciante che darebbe, di converso, forza ai movimenti popolari. Un governo antioligarchico che non abbia idee chiare, che non applichi e in modo deciso provvedimenti d’urgenza, che non sia in grado di vincere le resistenze dei dominanti, getterebbe il Paese in un caos gravido di conseguenze disastrose. Sarebbe fatale da parte nostra una posizione attendista o, peggio, d’indifferenza davanti a questo scontro. Saremo invece a fianco del popolo che vuole giustizia sociale e certezze sul futuro, incalzando il governo che esso ha fatto salire al potere, agendo affinché non indietreggi e colpisca gli interessi e i fortilizi dell’oligarchia, contribuendo a suscitare la più ampia mobilitazione dal basso senza la quale non si neutralizzerà il sabotaggio dei potenti. In una situazione di estrema polarizzazione sociale e politica, in cui si giocano le sorti dell’Italia, noi dovremo farci largo, con l’obbiettivo di dare una testa, se necessario nuova, al blocco popolare, indicando un progetto strategico che mentre in sicurezza il Paese, faccia perno sulla difesa ed il miglioramento delle condizioni materiali e spirituali delle classi popolari, ovvero della grande maggioranza dei cittadini».

da sollevAzione