È cambiata la Turchia sotto Erdogan? La domanda può apparire assurda solo per l’abitudine di considerare la Turchia, prima che Erdogan salisse al potere, un Paese laico e occidentalizzato.

Tuttavia, quest’immagine consolidata si rivela falsa. Il cambiamento c’è stato, ma non nella sostanza: a cambiare è stata l’esteriorità. Infatti, pur col periodico ricorso alle elezioni, il Paese è sempre stato governato in modo autoritario, e oggi questa caratteristica è soltanto più evidente e maggiore è la sua qualità.

Mustafa Kemal e i suoi successori hanno compiuto sforzi immensi per occidentalizzare la Turchia in tempi brevi – troppo brevi – e apparentemente avevano avuto successo. La laicità kemalista non ha mai fatto proprio, per esempio, il modello francese, ma si è limitata a mettere sotto controllo politico e statale il mondo religioso turco e vietare le sue manifestazioni pubbliche.

Alla fine una plurisecolare storia nazionale, che con troppa fretta era stata destinata al museo delle cose passate, è riemersa con forza culturale, spirituale e politica. D’altronde tutta la storia dei Turchi, dalla loro uscita dalle steppe dell’Asia centrale, si era sviluppata sotto il segno dell’Islam, e la rivoluzione kemalista – imposta anche sanguinosamente – aveva per vari aspetti violentato l’identità di quella che potremmo chiamare “anima turca”.

Se vogliamo lo stesso Atatürk, senza baffi e vestito all’occidentale, dava una certa sensazione di artificiosità. Questo non significa che non esista più un settore occidentalizzato e laico nella società turca, ma solo che esso ha perduto l’egemonia politica e culturale, rivelandosi per giunta minoritario.

Nel 2002 l’islamico Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp) vinse le elezioni e in pochi anni riuscì a penetrare nelle roccaforti laiche dell’amministrazione pubblica e della giustizia che in precedenza sembravano impossibili da conquistare. Il loro potere fu neutralizzato e la stessa sorte toccò alle Forze armate, anch’esse in teoria solido pilastro e guardiane della svolta kemalista.

In definitiva, Erdogan e l’Akp hanno liberato il sentimento profondo della Turchia popolare e islamica, il cui islamismo – prima confinato nella sfera privata – è diventato libero e di rilevanza pubblica. Il successo risulta tale che il ritratto di Atatürk, ancora appeso alle pareti degli uffici pubblici, ormai non fa più danni e può restare dove si trova – in fondo rappresenta un momento di vittoria nazionale per i Turchi.

La vittoria dell’Akp non ha portato a un nuovo corso di democrazia, si è semplicemente affermato un nuovo culto della personalità: quella di Erdogan invece di quella di Mustafa Kemal. Qualcuno afferma che in definitiva la svolta islamica non è stata fine a se stessa, bensì lo strumento per l’affermazione dell’erdoganismo.

Ormai eletto direttamente dal popolo, Erdogan si comporta come se fosse l’incarnazione della volonté générale della nazione turca. Il suo potere è pienamente consolidato: l’Akp ha la maggioranza in Parlamento, le Forze armate sono state domate, la magistratura e la Corte costituzionale sono obbedienti, i mass media sono per lo più controllati e infine (e non da ultimo) i nuovi padroni del Paese possono distribuire in tutta tranquillità gli appalti pubblici – piccoli e grandi – fra i loro clienti.

Uno strumento in particolare ha manifestato una singolare efficacia: l’ampio uso di una retorica che fonde vittimismo, arroganza neo-ottomana, sindrome da complotto interno-esterno e caccia ai traditori. Si tratta di uno strumento efficace, perché corrisponde a un atteggiamento diffuso soprattutto fra gli strati più popolari, specialmente anatolici, e considerato da molti osservatori esterni un residuo psicologico della travagliata storia del declino imperiale ottomano.

Ormai il tradimento è percepito come presente in chiunque e in qualsiasi settore non conforme all’Akp. Si tratta di un bacino molto eterogeneo: sinistra turca, kemalisti, liberali, Curdi e filo-curdi, minoranze religiose come gli Aleviti, i pochi Sciiti esistenti, qualche superstite Armeno e/o Greco ortodosso.

Fra i traditori sono state incluse personalità che un tempo furono autorevoli esponenti dell’Akp, poi incorse nell’imperdonabile colpa della dissidenza politica – seppur minima: Abdullah Gül, tra i fondatori dell’Akp ed ex presidente della Repubblica; Bülent Arinç, anch’egli cofondatore ed ex speaker del Parlamento; e infine Ahmet Davutoglu, ex ministro degli Esteri e presidente del Consiglio.

Fethullah Gülen è un nemico arcinoto, ma non è inutile ricordare che senza il suo appoggio (per la vasta rete di collegamenti di cui disponeva) Erdogan forse non sarebbe riuscito a vincere la burocrazia laica e le Forze armate nel cruciale periodo 2011-12. In aggiunta c’è la crescente nostalgia per il periodo ottomano – cioè imperiale islamico – fonte di ispirazione della variabile e contraddittoria politica estera di Erdogan, grazie alla quale la Turchia resta nella Nato, ma compie disinvolti “giri di valzer” con la Russia. Infine vi sono le velleità d’espansione, oggi rivolte alla Siria prendendo a pretesto l’ossessione curda di Erdogan.

OSCILLANDO FRA MOSCA E WASHINGTON

Sul problema curdo le iniziali “aperture” del Presidente turco sono durate poco, ed egli è tornato al più ottuso nazionalismo turco e alla sua menzogna di base: i Curdi non esistono, sono semplicemente “Turchi di montagna”.

Adesso, grazie anche alle precedenti complicità di Erdo?an con i jihadisti in Siria, si è creata una situazione per cui i Curdi siriani – collegati col Pkk di Turchia – non sono visti come nemici né dal Cremlino né da Washington; di qui l’altalena di Erdo?an fra Russia e Stati Uniti, accolta dai suoi interlocutori in modo opportunista quando conveniente, ma sempre con diffidenza.

Per inciso, il problema curdo-siriano non è l’unico ad inquinare le relazioni tra Ankara e Washington: sembra che gli investigatori del Fbi stiano lavorando a un dossier su Erdo?an, la sua famiglia e i membri del relativo entourage per una truffa che coinvolge la Banca di Stato turca in materia di commercio con l’Iran, suscettibile dell’accusa di violare le sanzioni e le leggi bancarie degli Usa.

Il problema diventerà concreto se vi saranno incriminazioni contro gli indagati, col rischio di sanzioni statunitensi alla Turchia. In tal caso la questione potrebbe anche riflettersi – teoricamente – sull’appartenenza turca alla Nato. Se questo avvenisse, un ulteriore avvicinamento turco alla Russia non dovrebbe stupire, ferma restando l’incognita della disponibilità (e possibilità) russa ad accogliere le pretese turche sui Curdi di Siria.

LA QUESTIONE AFRIN

Intanto ad Afrin le cose non vanno benissimo per le truppe di Ankara, alle prese con una resistenza accanita e difficoltà tecniche nella protezione dei propri mezzi corazzati, che difatti hanno subito perdite ingenti. Se si arrivasse alla battaglia finale, i Turchi con tutta probabilità la vincerebbero, ma a prezzo di fortissime perdite non solo in termini di mezzi materiali, ma anche di proprie vite umane.

Sulla possibilità o meno di accoglimento russo delle pretese turche in Siria bisogna fare una riflessione. In Siria, Mosca ha stipulato accordi col governo di Damasco per i propri interessi geostrategici. La presenza militare della Russia richiede che il Paese sia stabilizzato e rimanga amico; a questo fine non ci sono alternative serie ad Assad, il cui governo deve essere definitivamente rafforzato e recuperare il controllo dell’intero territorio siriano. Cosa non facile, ma nemmeno impossibile.

Alla luce di ciò, la Russia non ha alcun interesse ad appoggiare le pretese turche, poiché andrebbe ad urtare col governo damasceno per disporre unicamente di un’eventualità piuttosto aleatoria: vale a dire che Ankara, spingendosi all’estremo, finisca col rompere con la Nato. Allo stato delle cose, uno stratega accorto può soltanto attendere che il frutto, in caso di maturazione, cada da sé nella metaforica cesta.

È chiaro che l’operazione Afrin ha una duplice funzione: annientare i Curdi nelle zone di frontiera e realizzare una zona di controllo turco nella Siria settentrionale, da usare come base per i jihadisti anti-Assad sostenuti da Ankara – magari dando alla Turchia l’egemonia su quel che resta del jihadismo in Siria.

Ciò significherebbe prolungare il conflitto siriano e vanificare le vittorie governative appoggiate dai Russi. Ne consegue che l’operazione Afrin va contro gli interessi della Russia: è quanto basta per smentire certe dicerie riguardo un preventivo accordo fra Erdogan e Putin.

Sembra che il regime di Assad abbia facilitato il trasferimento di combattenti curdi nella zona di Afrin, e la logica di tale iniziativa è palese: al momento le velleità curde non minacciano Damasco, mentre lo stesso non può dirsi per il caso di una vittoria turca.

Nel frattempo pare che i Curdi abbiano ceduto al controllo dei governativi alcuni territori nell’area di Aleppo. E se, come sostiene l’agenzia al-Masdar, i Curdi prossimamente consegneranno ai governativi la città di Manbij – un chiaro obiettivo turco – allora vorrebbe dire che per proseguire la Turchia dovrebbe mettersi contro anche la Russia.

IL DILEMMA DELLA RUSSIA

Qui le cose si fanno complicate per la politica russa, che si trova a muoversi su una specie di filo del rasoio. Da un lato, senza cooperazione turca la stabilità della Siria resta a rischio, dall’altro, le iniziative di Ankara sono in contrasto con tale cooperazione.

In più, Mosca dovrà evitare lo scontro diretto fra truppe siriane e turche, e non solo perché i Siriani avrebbero la peggio: oltre al grave deterioramento dei rapporti fra Russia e Turchia (con tanti saluti alla stabilizzazione siriana), Mosca riceverebbe da Damasco e Teheran non resistibili pressioni per un suo intervento, con possibili e pericolose contromosse statunitensi.

Ma anche la Turchia ha interesse a non deteriorare i suoi rapporti con la Russia. Sembra esservi una situazione di stallo, tuttavia Mosca disporrebbe di almeno una possibilità di trattativa – soprattutto se la resistenza curda causasse ai Turchi perdite molto pesanti. Si tratterebbe di far leva su due fattori: il fatto che Ankara avrebbe comunque conseguito l’obiettivo di mettere in sicurezza il confine siriano bloccando i rifornimenti fra Curdi di Siria e Pkk, nonché i costi – e i pericoli – che lo spingersi oltre implicherebbe.

Parallelamente, Mosca potrebbe agire sui Curdi di Siria sottolineando la convenienza ad abbandonare le iniziative azzardate sollecitate dagli Stati Uniti – che poi con disinvoltura li abbandonerebbero al loro destino – e convincendoli, inoltre, ad ammorbidire l’atteggiamento verso il governo di Damasco, poiché un accordo con esso potrebbe avere effetti tranquillizzanti sulla Turchia.

Come corollario ci sarebbe da persuadere Damasco ad accettare al momento (e sotto protezione russa) sia una presenza turca nel nord che la concessione ai Curdi di una qualche autonomia che non risulti pericolosa per gli interessi di Ankara.

Le incognite dell’equazione riguardano gli interlocutori: Erdo?an e i Curdi. C’è da convincere il primo per poi fidarsene, ma a vantaggio di Putin figura la situazione attuale dell’economia turca, che dà segnali di crisi e il cui grado di dipendenza da quella russa è notevolmente aumentato in questi ultimi anni – con reciproca convenienza – quantomeno dal 2010.

In quell’anno fu costituito il Consiglio russo-turco per la cooperazione di alto livello, un organismo ben strutturato che comprende un gruppo di pianificazione strategica per controllare la collaborazione economica e una commissione intergovernativa per il commercio e lo sviluppo.

A partire da allora, la Russia ha iniziato la costruzione della centrale nucleare turca di Akkuyu – a controllo misto – da completare nel 2023; Russia e Turchia sono partner nel progetto del gasdotto TurkStream (che sostituisce il fallito South Stream); e va pure preso in considerazione l’acquisto turco del nuovissimo sistema russo di difesa antiaerea S-400 Triumf. Al di là di ciò, come già detto, vi sono gli evidenti rischi politico-militari e gli oneri economici che deriverebbero dallo spingersi troppo oltre.

Per quanto riguarda i Curdi, è ormai del tutto evidente che – a prescindere dalle vanterie – non costituiscono una forza invincibile: è loro convenienza trarne le debite conseguenze quando ancora possibile. Non resta altro che attendere.

da Utopia Rossa