L’ultimo bilancio ufficiale della grande giornata di protesta di ieri l’altro a Gaza parla di 10 palestinesi uccisi e di altri 1.534 feriti. Il secondo venerdì della “Marcia del Ritorno” non è dunque andato diversamente dal primo: una grande partecipazione popolare degli abitanti della Striscia, la solita strage sionista con il tiro al bersaglio su chi è chiuso in gabbia, l’assordante silenzio dei governi occidentali su questa ennesima carneficina.
Di seguito l’articolo di Michele Giorgio sul Manifesto di ieri.
Doveva essere la giornata del “kawshù”, la giornata della gomma, ossia dei pneumatici dati alle fiamme che, con il loro fumo nero e denso, avrebbero impedito ai tiratori scelti israeliani di prendere di mira i manifestanti della “Marcia del Ritorno” organizzata a Gaza. Invece è stata una nuova giornata di sangue simile a quella del 30 maggio.
Sotto i colpi sparati dai militari israeliani sono caduti almeno otto palestinesi, tra i quali un 16enne Hussein Madi, e oltre mille feriti, stando ai dati del ministero della sanità palestinese. Negli ultimi otto giorni, lungo le linee di demarcazione tra Gaza e Israele, sono stati uccisi 30 palestinesi. L’esercito israeliano ha di nuovo scaricato ogni responsabilità sui palestinesi, sul movimento islamico Hamas che, a suo dire, sarebbe il regista della “Marcia del Ritorno”.
Il portavoce militare ha riferito di tentativi palestinesi di attaccare la recinzione e infiltrarsi in Israele, di ordigni esplosivi e bottiglie molotov lanciati, attraverso la barriera. “Atti di terrorismo” al quale l’esercito avrebbe risposto con «moderazione» facendo uso di cannoni ad acqua, ventilatori antifumo e di armi da fuoco ma solo nelle situazioni più critiche. Una reazione «contenuta» che non trova riscontro nei tanti morti e feriti palestinesi. Ieri a Ginevra l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha espresso preoccupazione per le nuove violenze, parlando di “dichiarazioni inquietanti” rilasciate dalle autorità israeliane. La portavoce Elizabeth Throssell ha sottolineato che il 30 marzo l’equipaggiamento e le difese delle forze israeliane “non avrebbero dovuto portare ad un uso della forza letale”. Ieri è andata allo stesso modo.
La giornata è stata segnata subito dalla morte in ospedale di Thaer Raba’a, uno dei tanti feriti gravi del primo venerdì della Marcia del Ritorno. Migliaia di persone sono affluite nei cinque accampamenti eretti nei giorni scorsi. I più giovani hanno cominciato ad accatastare in vari punti centinaia di vecchi pneumatici, i kawshù. Qualcuno indossava delle maschere antigas artigianali ricavate da bottiglie e altri oggetti di plastica. Maryam Abu Daqqa, una studentessa di 20 anni, ha spiegato a una televisione locale di essere andata all’accampamento «per onorare le persone uccise». Ha aggiunto di avere paura ma che sarebbe ugualmente avanzata verso le barriere di confine: «Siamo qui per dire all’occupazione che non siamo deboli». Quindi i manifestanti, i volti di alcuni di loro erano coperti di fuliggine, hanno dato fuoco ai pneumatici.
In pochi attimi si sono levate nuvole di fumo nero che spinte dal vento si sono dirette verso le postazioni israeliane. Dall’altra parte hanno cercato di usare i cannoni ad acqua per spegnere i kawshù in fiamme senza grande successo. Poi gruppetti di giovani hanno cominciato a correre verso la recinzione. La reazione dei soldati, nonostante il fumo denso, non si è fatta attendere ed è stata una replica del 30 marzo. In particolare a Khuzaa, un villaggio a Est di Khan Yunis, divenuto tristemente noto durante l’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014 per l’elevato numero di vittime civili e per le distruzioni di case ed edifici.
Il primo a cadere sotto il fuoco dei tiratori scelti è stato Ahmad Nizar Muhareb, 29 anni. Poi sono stati uccisi Sidqi Abu Outewi, un 45enne, Mohammed Saleh, 33 anni, Ibrahim Al-Ourr, 22 anni e altri quattro di cui ieri sera non era stata ancora accertata l’identità. È stato uno stillicidio di vite umane, in buona parte giovani. E la striscia di sangue potrebbe allungarsi perché alcuni dei feriti (oltre mille) sono in condizioni gravi. Gli spari non hanno risparmiato sei giornalisti, colpiti secondo i media locali, nonostante fossero chiaramente identificabili come operatori dell’informazione. A Khuzaa poco dopo è andato in visita il capo di Hamas a Gaza, Yehiyeh Sinwar, che ha ricevuto l’accoglienza di un eroe. Circondato da centinaia di sostenitori che scandivano “Andremo a Gerusalemme”, Sinwar ha annunciato che il mondo presto si troverà di fronte a «una nostra grande mossa, con cui violeremo i confini e pregheremo nella moschea di Al-Aqsa», riferendosi al principale sito religioso islamico a Gerusalemme. Sinwar ha lanciato una sfida dai rischi incalcolabili, e non solo per i palestinesi.
Se questo – oltrepassare le linee di demarcazione con Israele – sia davvero l’obiettivo di Hamas non è chiaro. Invece non ci sono dubbi sul fatto che la Marcia del Ritorno abbia messo nell’angolo il presidente dell’Anp Abu Mazen – piuttosto tiepido sino ad oggi nei confronti dell’iniziativa in corso a Gaza – e rafforzato gli islamisti. Abu Mazen ha dovuto frenare i suoi impulsi e rinunciare ad imporre nuove sanzioni contro Gaza, in risposta all’attentato al premier dell’Anp Hamdallah e al fallimento, almeno sino ad oggi, dell’accordo di riconciliazione con Hamas. E le sue mosse rimarranno congelate ancora a lungo, sino a quando andrà avanti – fino al 15 maggio dicono gli organizzatori – e con grande partecipazione popolare l’iniziativa per rompere il blocco israeliano della Striscia di Gaza.
da il Manifesto