Dunque il governo gialloverde ha visto la luce. Frutto di un voto e di una spinta popolare, le èlite non hanno certo rinunciato a condizionarlo. Di più: il Quirinale ha tentato perfino di impedirne la nascita, fino a cacciarsi in un vicolo cieco che ha poi imposto il successivo compromesso. Che bilancio trarre dalle vicende degli ultimi tre mesi? Cosa aspettarsi adesso? Quale iniziativa per le forze della sinistra patriottica?
Onde non disperdersi troppo nei meandri di una crisi politico-istituzionale senza precedenti, procediamo per punti.
1. Dal voto del 4 marzo al giuramento del 1° giugno – Può piacere, oppure no, ma bisogna prendere atto che la spinta popolare espressasi nel voto del 4 marzo una via per consolidarsi, per farsi governo, alla fine l’ha trovata. Ha avuto dunque ragione P101 nello scommettere su questa ipotesi già a metà marzo. Certo, si è trattato di un percorso accidentato e controverso, con una conclusione pasticciata assai, ma l’esito è questo a dispetto del parere di tanti. Chi si aspettava una qualche riedizione delle “larghe intese”, cioè di un governo imperniato sulle forze sistemiche battute nelle urne (Pd e Forza Italia) allargato ad una pattuglia di “responsabili” (cioè di quei parlamentari voltagabbana che hanno caratterizzato le ultime legislature) è rimasto deluso. Idem chi vedeva all’orizzonte un governo “tecnico” al servizio dei desideri di Bruxelles, Berlino e Francoforte. E sbaglia ora chi ritiene che il governo Conte non si discosterà dalla politica di quelli precedenti, che esso sia già stato normalizzato dal sistema. Che se così fosse non si capirebbe la violenta campagna anti-governativa dell’intero sistema mediatico in corso in questi giorni.
2. Un governo con tanti punti deboli – Quanto appena detto non significa non vedere i punti deboli dell’esecutivo Conte. Debole è la stessa struttura del governo, condizionata in almeno due caselle chiave – i ministeri dell’Economia e degli Esteri – dalla potente pressione esercitata dalle forze sistemiche, incarnate in primo luogo da Mattarella. Deboli sono le due forze politiche di maggioranza. Mentre la Lega salviniana ha impiegato due mesi per liberarsi dalla zavorra berlusconiana, M5S ha mostrato tante oscillazioni ed incertezze. Nulla di sorprendente, però. Sappiamo infatti che si tratta di due forze molto contraddittorie, diverse tra di loro – semplificando un populismo di destra ed uno di sinistra – e soprattutto divise al loro interno, con la presenza in entrambe di componenti variamente euriste, potenzialmente addomesticabili al fine di renderle tali a tutti gli effetti. Dalla consistenza di queste componenti dipenderà in larga misura la tenuta del governo Conte.
3. Il programma: un mix di liberismo, keynesismo e misure sociali – Se il securitarismo, di prevalente matrice leghista, è assolutamente inaccettabile, contraddittorio è il programma economico contenuto nel cosiddetto “contratto”. Senza dubbio la visione della Lega e di M5S resta largamente interna all’orizzonte liberista (basti pensare all’ipotesi di flat tax), ma è tutto da vedere dove porterà il tentativo – apparentemente sincero – di uscire dalla morsa dell’austerità. Quel che è certo è che si tratta di un programma totalmente irricevibile dal blocco dominante, semplicemente inammissibile per i vertici dell’Unione europea. Ed è questo il nodo, perché non si vede come si possa realizzare la riforma della Fornero e l’introduzione di reddito e pensione di cittadinanza senza disobbedire al “vincolo esterno”. Ma nel programma c’è qualcosa di più. C’è l’assunzione di diverse battaglie di questi anni, dall’acqua pubblica al rifiuto di Ttip e Ceta, dal principio della sovranità alimentare al no alla “Buona scuola” di Renzi. C’è infine la proposta di inserire nella Costituzione il principio della sua prevalenza sui trattati europei. E’ poco? Non direi, visto che basta e avanza per aprire finalmente la battaglia per l’indipendenza e la sovranità nazionale del Paese. Indipendenza e sovranità che non potranno fare a meno di un potente intervento dello Stato nell’economia. Su questo il programma dice e non dice, ma se da lì non si passa non si vede proprio dove il governo gialloverde possa arrivare.
4. Il nodo europeo – Dopo una campagna elettorale insulsa come poche, i tre mesi trascorsi dalle elezioni hanno mostrato a tutti la centralità del nodo europeo. Se le prime bozze dell’accordo M5S-Lega ruotavano attorno alla questione (regole per l’uscita dall’euro, ipotesi di sterilizzazione del debito italiano posseduto dalla Bce, eccetera), ci ha pensato Mattarella a chiarire l’effettiva posta in palio. La contestuale drammatizzazione mediatica ha sì forzato i termini della discussione – ad esempio, chiedere norme per l’abbandono volontario della moneta unica non vuol dire lavorare da subito per l’uscita, come invece si è voluto far credere – ma ha contribuito ancor di più ad esplicitare i termini dello scontro. Alla fine della fiera tutto è risultato più chiaro a milioni di persone, che adesso sanno qual è il bivio che abbiamo di fronte: o un’Italia che inizia a riconquistare crescenti quote di sovranità, od un Paese destinato alla stagnazione ed al declino, dominato da una casta privilegiata asservita alla Germania pur di stare nella gabbia dell’euro.
5. Il golpismo del Quirinale – Adesso sembra passato tanto tempo, ma solo dieci giorni fa, il 27 maggio scorso, l’azione di Mattarella ha completamente debordato dalla sua funzione istituzionale. A dispetto dei tanti difensori, del coro unanime dei giornaloni, dell’arrampicarsi sugli specchi di certi costituzionalisti, la sua azione si è posta completamente al di fuori della Costituzione, visto che la pretesa di dettare la linea politica del governo contrasta alla radice con i principi di una democrazia parlamentare. Quello della sera del 27 maggio è stato, a tutti gli effetti, un discorso da capo-partito (altro che super partes!), con il quale Mattarella – facendo del Quirinale un avamposto dell’occupazione euro-germanica del Paese – ha preso il posto, dandogli la linea, delle sfiatate forze dell’opposizione (Pd e Forza Italia in primo luogo) battute alle elezioni, ma oggi ancor più deboli nella società. Sulla gravità di questi eventi non mi dilungo, rimandando a quanto scritto a caldo da Programma 101 e da quanto abbiamo ricordato sulle analogie con il caso Cossiga del 1991. Certo è che, al di là del successivo e pasticciato compromesso, la forzatura mattarelliana un risultato l’ha comunque raggiunto: quello di aver affermato de facto uno strabordante potere presidenziale, per di più di un presidente non eletto dai cittadini.
6. Il compromesso – L’azione quirinalizia è però riuscita soltanto a metà. La buffonata dell’incarico a Cottarelli, seguito al veto nei confronti di Paolo Savona, non è stato un semplice fallimento, bensì un totale buco nell’acqua. Mai si era visto un presidente incaricato con zero voti parlamentari! Da lì la repentina retromarcia del Mattarella, che ha portato con sé altri due dietrofront: quello di M5S sulla più che giustificata richiesta di impeachment, quello di Salvini sul nome di Savona. Al di là di possibili retroscena che non conosciamo, capire le ragioni di questo compromesso è essenziale al fine di inquadrare correttamente l’attuale situazione. A mio parere si è trattato del più classico degli stalli, un pareggio dovuto al fatto che né il fronte sistemico, né la maggioranza gialloverde, avevano (ed hanno) la forza per imporsi davvero sull’avversario. La vicenda dello spread è stata in questo senso emblematica. Scatenata dalla drammatizzazione del Mattarella, la speculazione sui titoli del debito italiano non si è certo fermata con l’incarico a Cottarelli, mentre i sondaggi d’opinione evidenziavano i crescenti consensi dell’asse M5S-Lega, perfino a dispetto dell’insipienza mostrata nell’occasione. Una prova assai interessante di come la paura – l’arma fondamentale delle élite – non può sempre vincere ogni battaglia.
7. Il banco di prova della Legge di Bilancio – Adesso che il compromesso si è realizzato, con tutte le sue inevitabili ambiguità, a partire dall’apparente insignificanza del ministro dell’Economia prescelto, è evidente quale sia il prossimo snodo di una partita tutta da giocare. La Legge di Bilancio, per la portata dei suoi contenuti, come pure per il suo significato simbolico, ci dirà molto sugli effettivi rapporti di forza, sulla determinazione delle forze di governo, sul tipo di confronto-scontro che andrà ad aprirsi con l’Unione Europea. Conterrà questa legge la riforma della Fornero ed il reddito di cittadinanza? Se la risposta sarà un sì, come ci auguriamo, inevitabile l’apertura di un duro scontro con Bruxelles. Scontro sostenibile con una forte mobilitazione popolare, che su due temi come questi potrebbe anche rivelarsi possente. Insostenibile invece – al di là della nostra netta opposizione politica e di principio – uno scontro che si fondasse sulla flat tax, dato che se l’austerità deve finire, questa fine non potrà che iniziare dal sostegno dei redditi delle fasce medio-basse, non di quelle che stanno in alto. Notizie di ieri fanno intravvedere un primo parziale ripensamento sul punto. Meglio così. In ogni caso ben poco si potrà fare, anche in termini di alleggerimento fiscale, senza rivedere la curva del rapporto deficit/pil prevista dal precedente governo d’intesa con l’UE. Secondo il DEF del duo Gentiloni/Padoan, il deficit dovrebbe passare dal 2,3% del 2017 all’1,6% nell’anno in corso, per poi scendere addirittura allo 0,8% nel 2019. Un trend chiaramente recessivo che il governo dovrà rovesciare, riportandosi almeno nelle vicinanze del 3%. Il recupero di due punti percentuali equivarrebbe infatti a circa 35 miliardi, una cifra con la quale si potrebbero fare molte cose, facendo ripartire la crescita e l’occupazione, stabilizzando al tempo stesso il debito in rapporto al pil.
8. O la ribellione alle regole europee o la morte prematura del governo Conte – Che questa sia la vera alternativa non ci sono dubbi. Certo, nelle forze dell’attuale maggioranza tante sono le incertezze, per tacere delle ambiguità. Ma il punto non può sfuggire a nessuno. Ecco perché noi pensiamo che lo scontro ci sarà. Che poi si presenti in termini più o meno duri dipende da tanti fattori, anche dalla tattica che verrà scelta dalle oligarchie euriste. Tattica che teoricamente potrebbe andare da una linea di lento logoramento ad un’altra di delegittimazione immediata del governo gialloverde, con in mezzo diverse possibilità intermedie. Chi scrive propende nettamente per l’ipotesi di uno scontro assai rapido, sostanzialmente – mutatis mutandis – sul modello greco del 2015. E’ questo lo scenario di gran lunga più probabile, figlio del desiderio di rivincita delle èlite, della volontà di colpire il governo bi-populista prima di un suo possibile consolidamento. E’ questo dunque lo scenario a cui prepararsi in vista dell’autunno.
9. Un governo inadeguato allo scontro, ma ci sono alternative? – Eccoci così giunti al cuore del problema. Lo scontro ci sarà ed il governo in carica non è certo il più adatto per reggerlo. Ma è inutile dire come nell’immediato non siano in campo altre alternative. Che fare allora? Chi è consapevole della posta in gioco non può avere dubbi, non potrà restare neutrale. Se è ovvio che si debbano non solo criticare, ma contrastare fortemente gli aspetti negativi dell’azione di governo, ancor più ovvia è la collocazione delle forze della sinistra patriottica nel fronte nazionale che si oppone al dominio euro-tedesco. Se poi, disgraziatamente, le forze principali di questo fronte – quelle oggi al governo – dovessero venir meno alla loro funzione nazionale, non resterebbe allora che denunciarne le gravi responsabilità, il loro tradimento. Ma noi non siamo tra quelli che si augurano un esito simile.
10. Facile (e sbagliato) dire “fascismo” – Sappiamo bene come questo nostro ragionamento sia del tutto opposto a quello dominante dalle parti della sinistra sinistrata, dove ormai si è del tutto incapaci di ragionare in termini di classe, di vedere quali sono gli interessi del popolo lavoratore, quale la natura del blocco sociale che sostiene il tentativo di cambiamento del governo gialloverde. Non è questa la sede per approfondire le bestialità teoriche e politiche che abbiamo avuto la ventura di sentire in questi giorni, ma qualcosa va pur detto anche qui. In certi ambienti la parola “fascismo” ha un suono davvero tranquillizzante. Ed anziché esaminare – per svolgere al meglio la propria azione di contrasto – cosa è oggi la destra, che cos’è e perché è radicata la xenofobia, da cosa nascono e come si possono affrontare le tendenze securitarie, ecco che si vorrebbe tutto risolvere con il rauco grido di “fascismo” rivolto a tutto e tutti – nel caso specifico non solo alla Lega ma pure ad M5S – in maniera confusa ed incomprensibile a 9 persone su 10. Avendo perso ogni rapporto con il fascismo realmente esistito, i termini “fascismo” e “antifascismo” vorrebbero ormai designare una sorta di opposizione etico-morale tra “buoni” e “cattivi”. Avendo nei fatti sposato il cosmopolitismo delle èlite, ed avendo così lasciato principalmente alla destra il tema dell’interesse nazionale (che è oggi in primo luogo interesse del popolo lavoratore) la sinistra sinistrata è ben felice di marciare accanto a Renzi, Mattarella, Macron, Merkel e Soros. Non avendo più una sua autonoma visione della società futura, avendo ormai sostituito la prospettiva del socialismo con quella multicolore dei “diritti civili”, la sinistra sinistrata è del tutto spaesata nell’attuale scenario. Uno spaesamento che del resto fa coppia non casuale con il sostanziale azzeramento del consenso (non solo quello elettorale). Ecco allora la straordinaria utilità del “fascismo”, la cui semplice evocazione vorrebbe ridare una qualche ragione all’esistenza in vita di formazioni ormai morte nell’anima. Si tratta in tutta evidenza di un’utilità psicologica, non certo politica. Ma per costoro è sempre meglio di niente.