Cento giorni sono un nulla, un soffio nella vita di una nazione. Per i governi, invece, i primi cento giorni sono importanti, il momento in cui mettere in vetrina i simboli della propria politica. Così è nella società dello spettacolo, dove l’apparenza conta più della sostanza. Lo è un po’ meno per lo strano “tripartito” nato il 1° giugno scorso.

L’importanza dell’apparenza è infatti inversamente proporzionale al peso della sostanza. Se un governo è pura continuità rispetto al precedente, si può star certi che metterà subito in bella mostra la propria inutile ma rilucente mercanzia. Pensate a Renzi e capirete di cosa sto parlando.

Se invece un governo porta con sé un vero, per quanto contraddittorio, programma di cambiamento, il discorso cambia. Il peso dell’apparenza si riduce di molto, mentre i riflettori saranno tutti puntati sulla sostanza. E’ giusto e naturale che sia così. In questi casi al tipico gioco delle parti tra maggioranza ed opposizione parlamentare si sostituisce bruscamente lo scontro immediato.

Mai si era vista nell’intera storia d’Italia, cioè dall’ormai lontano 1861, un governo accolto dalla totale opposizione dell’establishment. I grandi poteri economici, la Confindustria, la grande stampa all’unisono, spalleggiati ovviamente dall’intera oligarchia eurista, hanno subito dichiarato guerra alla maggioranza gialloverde, i cui ministri (tranne quelli di stretta nomina mattarelliana) sono stati qualificati come incapaci ed irresponsabili, portatori di visioni irricevibili, antiliberiste (vedi la discussione sulle nazionalizzazioni) piuttosto che nazionaliste.

Del governo Conte la stampa sistemica dice tutto e il contrario di tutto. Che tradirà giocoforza il suo programma, ma che se lo realizzasse sarebbe ancora peggio: un vero disastro per il Paese. Gli stessi organi di informazione riescono ad attaccarlo perché troppo statalista, ma pure troppo liberista per la proposta della flat tax. Insomma, un vero mostro dalle multiformi fattezze, ma mai con un lato buono.

E già quest’assenza di “lati buoni” per lorsignori dovrebbe renderlo interessante per chiunque voglia provare a costruire un’alternativa al regime dell’ultimo quarto di secolo: quello basato sull’ideologia mercatista, su un mix di neo ed ordoliberismo, dove liberalizzazioni ed austerità si sono fuse in quel tutt’uno che ha precipitato la vita di milioni di persone nella precarietà e nella diffusa povertà dell’oggi.

Su tutto ciò la nostra posizione è nota. Pensiamo, fino a prova contraria, che l’attuale governo – aprendo di fatto lo scontro con l’Unione europea – rappresenti un passo avanti verso la strada della liberazione nazionale, premessa di quell’alternativa sociale – per noi il socialismo – di cui in tanti cominciano a riscoprire una nuova attualità. Pensiamo questo nonostante le enormi contraddizioni presenti nella maggioranza M5S-Lega, e nonostante il compromesso di fine maggio (per noi sbagliato) che ha permesso ai poteri sistemici di infiltrare il governo con una vera e propria Quinta Colonna capitanata dal ministro Tria.

E’ quest’ultimo fatto – sempre dimenticato sia dai media mainstream che dall’opposizione di “sinistra” – che ci fa parlare di “tripartito”. E la ragione di tale dimenticanza è semplice. Alle forze sistemiche serve a dire che M5S e Lega non riescono a realizzare il loro programma, senza dire mai che il primo freno all’azione di governo viene proprio da quella Quinta Colonna loro amica. Per la sinistra sinistrata il giochino è simile. Fingendo di non vedere lo scontro interno all’esecutivo essa ama presentare il governo Conte come se fosse in continuità con quelli precedenti. Dato che Tria non è poi tanto diverso da Padoan, essi concludono che Di Maio e Salvini sono come Renzi e Gentiloni.

Un errore, a nostro modesto avviso, semplicemente catastrofico.

Sarà in larga misura la prossima Legge di Bilancio a fare chiarezza sulle prospettive politiche, ma certo non è inutile dedicarsi intanto ad un primo bilancio dell’azione del governo. Torniamo così ai primi cento giorni da cui siamo partiti, tentando di vedere luci ed ombre, limiti e potenzialità di una situazione politica che ognuno può qualificare come vuole, ma di cui nessuno può negare l’assoluta novità nel panorama europeo.

Per comodità espositiva dividerò questo bilancio in cinque categorie: la politica economica, la politica sociale, la politica estera, l’immigrazione, la democrazia. In ultimo, solo in ultimo, il tema che appassiona torme di intellettuali per alcuni decenni lievemente dormienti davanti al disastro che si stava compiendo: il presunto quanto inesistente fascismo che si starebbe aprendo la strada grazie ad un’altrettanto inesistente ondata di razzismo.

1. La politica economica

E’ questo, in tutta evidenza, il principale terreno di scontro dentro e fuori dal governo. E, senza nulla togliere al resto, devono essere le misure economiche e sociali il primo metro di giudizio per valutare il governo.

Tre, a mio parere, le questioni da segnalare. In primo luogo la riapertura del tema delle nazionalizzazioni, e scusate se è poco. In secondo luogo, l’aggiustamento delle posizioni sulla flat tax. In terzo luogo le misure annunciate in materia di rinazionalizzazione del debito.

Le nazionalizzazioni – Su questo punto c’è poco da dire. Si tratta obiettivamente di un’enormità. Una decisa inversione di tendenza non solo a livello italiano, ma nell’intero continente. Per decenni la parola d’ordine – a sinistra come a destra – è stata “privatizzare”. Oggi si comincia ad andare in direzione contraria. Certo, per ora siamo alle parole, ma in politica le parole pesano.

La prima nazionalizzazione sarà probabilmente quella di Alitalia. Tralasciamo qui, per ragioni di spazio, il pur importante dibattito sulle diverse possibili modalità di questa operazione. Quel che conta è che siamo passati dalla linea della svendita della vecchia compagnia di bandiera, al suo possibile rilancio attraverso la nazionalizzazione.

La seconda questione in ballo è quella della gestione delle autostrade. Lo scandalo delle concessioni oltremodo vantaggiose, varate dal governo Prodi a favore di speculatori come i Benetton, ha aperto la discussione. Certo, i settori più conservatori della Lega hanno per ora frenato la scelta della nazionalizzazione, ma intanto Conte ha ribadito il ritiro della vecchia concessione ad Autostrade per l’Italia, lasciando così del tutto aperta questa partita.

C’è stato un terzo tema che avrebbe potuto imprimere una svolta più decisa all’intervento dello Stato in economia. Si tratta, ovviamente, della vicenda dell’Ilva, dove ad una positiva conclusione sul piano sindacale – l’occupazione è stata difesa, come pure i salari ed i diritti dei lavoratori – si è accompagnata in negativo la rinuncia alla nazionalizzazione della più grande acciaieria d’Europa (quella di Taranto) finita così nelle mani della prima multinazionale del settore, Arcelor Mittal. Decisamente un’occasione mancata, un fatto che dobbiamo segnalare in negativo, ma senza dimenticarci che non si è trattato di un passaggio dal pubblico al privato, dato che quello era già avvenuto negli anni ’90 ad opera dei governi Dini e Prodi, quando l’Ilva venne svenduta ad Emilio Riva, in seguito gran finanziatore dei piddini. Certo, non un buon motivo per lasciarla in mani private adesso, ci mancherebbe, ma almeno i vecchi (e mai troppo pentiti) alleati del Mortadella dovrebbero tacere.

La flat tax – Abbiamo da sempre segnalato come sia questo il punto più negativo del cosiddetto “contratto” tra Lega e Cinque Stelle. Siamo per la progressività del sistema fiscale, che anzi dovrebbe estendersi dall’Irpef ad altre forme di tassazione.

Proprio per questo vediamo con favore il progressivo svuotamento della stessa idea della flat tax, del tutto inaccettabile nella sua versione originaria di tassa piatta al 15%. Già nel programma di governo si è chiamata impropriamente flat tax un ipotetico sistema a due aliquote (15 e 20%), anch’esso iniquo e insostenibile socialmente prima ancora che finanziariamente.

Oggi, mentre dovrebbe andare in porto un forte abbattimento della tassazione delle partite IVA a basso reddito, pare che il progetto flat tax sia sostanzialmente su un binario morto. Adesso l’ipotesi sembra quella di arrivare a tre aliquote, ma a partire dal 2020. Dunque se ne riparlerà probabilmente solo nel 2019. Ogni giudizio va perciò rimandato, anche perché nel fisco più che in ogni altra materia, il diavolo sta nei dettagli, visto soprattutto l’incredibile numero di detrazioni e deduzioni che complicano a dismisura l’attuale sistema fiscale e la sua effettiva progressività.

Nel frattempo forte dovrà rimanere il contrasto allo schema originario della tassa piatta, la spinta per favorire un ripensamento complessivo. Il fatto che si stia ragionando su ipotesi molto meno estreme, anche se tuttora non condivisibili, è la dimostrazione di come il governo – e nel caso specifico la Lega – sia di fatto permeabile alle critiche che provengono dalla società, in primo luogo dal blocco sociale che ha spinto così in alto il consenso alle forze populiste.

La rinazionalizzazione del debito – E’ questo un punto meno discusso, ma non meno importante degli altri. Abbiamo visto nelle scorse settimane come l’arma decisiva dell’opposizione del blocco eurista sia il famigerato spread. E’ chiaro come quest’arma potrà essere annientata solo con la piena riconquista della sovranità monetaria. Tuttavia, alcune cose possono essere fatte da subito.

Per tagliare le unghie agli avvoltoi della finanza internazionale, una prima mossa da fare è quella della rinazionalizzazione del debito, oggi in mani estere nella misura del 28% (713 miliardi di euro). Sul perché di questa esigenza abbiamo già scritto di recente, proponendo quelli che lì abbiamo chiamato “Btp famiglia”.

La novità è che, stando a diverse indiscrezioni di stampa, il governo avrebbe ormai pronto un disegno di legge per varare qualcosa di simile ai “Btp famiglia”. Si tratterebbe dei Cir (Conti individuali di risparmio), un nuovo strumento finanziario, con appositi meccanismi di incentivazione fiscale, pensato per indirizzare stabilmente gli investimenti delle famiglie verso i titoli di stato italiani. Indubbiamente un fatto molto positivo, anche se per questa via i tempi della necessaria rinazionalizzazione non potranno essere brevissimi. Ma, come abbiamo già detto, si tratta di un’arma comunque utile per combattere i “signori dello spread”, all’interno di una battaglia più generale che potrà essere vinta solo uscendo dalla gabbia dell’euro.


2. La politica sociale (e ambientale)

Qui per il blocco dominante la pietra dello scandalo è stato il Decreto Dignità. Ma come vi permettete – si son detti lorsignori – di mettere dei limiti a quel meraviglioso processo di precarizzazione crescente che da un quarto di secolo allieta il nostro paesaggio sociale, siete proprio degli irresponsabili!

Ora, le misure concrete del Decreto Dignità sono davvero modeste. Diciamo che se il grado di precarizzazione del lavoro era arrivato a 100, con la nuova legge gialloverde esso è sceso solo a 90. In termini assoluti decisamente poco, ma l’inversione di tendenza è stata chiara. E la rabbia di Confindustria sincera. Anche perché se si dimostra che la strada della precarizzazione non è irreversibile, si comincia a smontare l’idea di TINA (There is no alternative), aprendo oggettivamente lo spazio all’iniziativa dal basso, forse ad una nuova stagione di lotte.

Mentre per il Reddito di Cittadinanza lo scontro è pesante, soprattutto tra M5S ed il ministro Tria che è sempre più ligio ai vincoli europei, sulle pensioni sembra ormai certo che si arriverà già dal 2019 a “quota 100”, con un minimo d’età a 62 anni. Questo significherà, nel tempo per milioni di lavoratori, un anticipo della pensione da 1 a 5 anni. Un chiaro segnale di stop a quell’austerità che ha avuto nella Legge Fornero il suo simbolo indiscusso.

Un altro provvedimento molto positivo, che dovrebbe vedere la luce in questi giorni, è il ripristino della cassa integrazione a zero ore, uno strumento – cancellato dal Jobs Act renziano – a tutela dei lavoratori delle aziende che cessano l’attività, ad esempio perché delocalizzano la produzione in altri paesi, come nel recentissimo caso della multinazionale belga Bekaert, che ha chiuso il proprio stabilimento in Toscana per spostarlo in Romania.

E che sul piano sociale si stiano aprendo nuove prospettive è dimostrato anche dall’iniziativa di Di Maio contro il lavoro domenicale nei negozi, specie nei centri commerciali, la cui apertura venne totalmente liberalizzata nel 2012 dal governo Monti. Non sappiamo adesso quale sarà esattamente il contenuto del provvedimento legislativo annunciato, ma francamente erano decenni che non sentivamo un uomo di governo a livello apicale mettere il diritto al riposo dei lavoratori davanti alle esigenze onnivore del capitalismo globale, quello che pretende lavoro, affari, sfruttamento h24. Quello non a caso osannato dall’attuale opposizione.

Su questa, come su altre questioni che rimandano ad una più generale visione della società, le differenze tra Lega e Cinque Stelle sono del tutto evidenti. Del resto è questa la caratterista dell’attuale governo, frutto di un’alleanza tra un populismo di destra ed un populismo di sinistra, talvolta con connotazioni e diversificazioni interne che sfuggono anche a questa classificazione.

Tra le questioni dove le differenze emergono con più nettezza c’è senza dubbio quella ambientale, anche questo un fronte sul quale il governo andrà giudicato dai fatti concreti. Per ora possiamo dire che sul risanamento dell’Ilva gli impegni ci sono, ma che andranno verificati, e che non sarà facile fare i conti con una multinazionale come Arcelor Mittal.

Laddove le divergenze interne alla maggioranza sono più forti è sul tema delle cosiddette “grandi opere”. Se ancora non sappiamo dove porterà il riesame al progetto TAV imposto dal ministro Toninelli, l’incertezza è forte anche sul destino del gasdotto TAP, decisamente avversato dalle comunità pugliesi toccate dall’opera. Se la TAV è fortemente sponsorizzata dall’UE, il TAP è voluto in primo luogo dagli USA per le ben note ragioni geopolitiche. La partita è dunque complessa, e rimanda a scelte politiche che vanno ben oltre le preoccupazioni ambientali per le quali si battono giustamente le comunità locali.

3. La politica estera

Su questo versante non possiamo dire che siano avvenute grandi cose. Al Ministero degli Esteri Mattarella ha imposto un suo uomo, Moavero Milanesi, mentre M5S e Lega sembrano in tutt’altre faccende affaccendati.

Se sulla Libia domina la prudenza, sui pericolosi sviluppi della situazione siriana vige il più assoluto silenzio, dopo che ad aprile Salvini era stato il più netto nel condannare l’escalation americana.

Due sono invece le cose positive da segnalare: il no al Ceta, sul quale Cinque Stelle e Lega sono assolutamente compatti; il pronunciamento contro le sanzioni alla Russia, che al momento non ha però prodotto alcun atto concreto.

La posizione sulla Russia rappresenta di certo una novità nel quadro europeo, dove l’UE – sempre pronta ad imbracciare l’arma del “politicamente corretto” e dei “diritti civili” quando gli fa comodo – non ha trovato una parola di condanna del governo ucraino, neanche di fronte alle recenti dichiarazioni del presidente del parlamento di Kiev inneggianti ad Hitler.

Di fatto il governo Conte si è dissociato dalla russofobia alimentata dall’Unione europea, e questo non è poco. Questa posizione non è stata però sostenuta con la forza necessaria, ed alle dichiarazioni non si è fatto seguire un veto in sede europea, laddove il no di Roma avrebbe posto fine a sanzioni assurde, ingiustificate e del tutto contrarie agli stessi interessi nazionali.

Il no al Ceta pare invece una scelta più netta e convinta. Importante dal punto di vista pratico, ma ancor più da quello simbolico, essendo il primo no ad uno di quella serie di trattati che hanno imposto ed accompagnato la globalizzazione capitalistica come una specie di intramontabile “sol dell’avvenir” di quest’epoca sciagurata. Decisamente una scelta importante e da sostenere.

4. L’immigrazione

L’immigrazione non è certo il primo problema della società italiana, ma sbaglieremmo a non vederne gli effetti, specie quelli sul mercato del lavoro e sui salari. Chi li nega è semplicemente fuori dalla realtà. Che lo sia per cecità o disonestà intellettuale dipende dai casi, ma il risultato non cambia: una capacità di comprensione della situazione sociale pari a zero che lascia alla destra una grande prateria di consensi.

Come detto, parleremo solo in fondo della questione “razzismo”, limitandoci qui a mettere a fuoco le azioni di Salvini (quale ministro dell’Interno) ed il loro effetto politico.

La prima cosa da dire è che il flusso migratorio dall’Africa – per certi aspetti un vero e proprio traffico di schiavi – si è quasi del tutto azzerato. E così, per fortuna, le morti nel Mediterraneo. Intendiamoci, quel flusso era già crollato sotto l’azione (a suon di mazzette alle tribù libiche) del precedente ministro, il piddino Marco Minniti. Ma, appunto, perché se l’azione di Salvini ha di fatto proseguito quella del Minniti solo adesso si grida al razzismo?

In ogni caso le mosse di Salvini hanno consentito diversi risultati. In primo luogo si è messo fine al ruolo delle Ong, smascherandone la loro funzione di traghettatori di un ignobile traffico di esseri umani gestito da criminali della peggior specie. In secondo luogo si è smascherata l’ipocrisia di alcuni paesi, in primis la Francia, ma anche la Spagna, i cui governanti son sempre pronti a far la predica, molto meno ad accogliere migranti. In terzo luogo si è rivelata la vera natura dell’Unione europea, incapace di qualsiasi decisione che possa dispiacere all’asse Carolingio, ed incapace perfino a dar seguito alle promesse di una minima solidarietà con l’Italia che non si è mai vista.

La stampa, non solo quella italiana, si è occupata a lungo del caso della nave “Diciotti”, trattenuta per alcuni giorni nel porto di Catania proprio per mettere alla prova quella “solidarietà”. Certo, i migranti a bordo hanno avuto i loro disagi, ma davvero si può parlare di “sequestro di persona” come nell’indagine avviata dalla magistratura nei confronti del ministro dell’Interno?

Suvvia! Cosa avrebbe dovuto fare allora la magistratura nel 1997 nei confronti del quasi santo Giorgio Napolitano, allora ministro dell’Interno del governo Prodi, della cui maggioranza faceva parte pure Rifondazione Comunista?

Cosa avvenne lo abbiamo rammentato a giugno, parlando della vicenda della nave Aquarius:
«Come non ricordare il blocco navale del 1997 contro i barconi albanesi deciso dal governo Prodi? Quel blocco non fu senza tragiche conseguenze. Nella notte del 28 marzo 1997, un Venerdì Santo, la motovedetta albanese Kater I Rades venne speronata da una nave della Marina militare italiana. Morirono 81 persone, trentuno di loro avevano meno di 16 anni. Ma Prodi è “buono” per definizione, ed in Europa nessuno oserebbe attaccarlo. Salvini invece…».

Le cose sono così chiare che possiamo fermarci qui.

5. La democrazia

La democrazia è fatta di tante cose. Intanto sia Cinque Stelle che Lega hanno combattuto entrambi, nel 2016, la battaglia per affossare la controriforma della Costituzione voluta da Renzi. Ma naturalmente questo non è sufficiente a descrivere un’idea di democrazia più precisa, tantomeno univoca, delle forze dell’attuale maggioranza. Tuttavia, due fatti vanno segnalati.

Il primo riguarda l’informazione, in un quadro dove i principali media sono uniti in una sorta di patto di sangue contro il governo gialloverde. Al momento né Di Maio né Salvini hanno mostrato di cercare un accomodamento con i signori del “quarto potere”. Hanno invece provato ad introdurre un forte elemento di cambiamento e di discontinuità in quel verminaio che si chiama Rai. La candidatura di Marcello Foa alla presidenza della Tv pubblica, per ora non approvata dalla Vigilanza, ma che verrà riproposta a breve, mostra una vera volontà di cambiamento.

E non è certo un caso che le forze sistemiche si siano subito violentemente schierate contro un giornalista non asservito al potere, un personaggio fuori dal coro, un critico tenace della globalizzazione e dell’Unione europea.

Il secondo punto riguarda l’uscita di Salvini ad agosto sulla possibile reintroduzione, in altre forme, dell’esercito di leva. Proposta al momento accantonata, ma pur sempre interessante, anche se certi “pacifisti” ci prenderanno di certo per militaristi. La verità è che l’esercito professionale, che ha preso il posto di quello di leva, si è dimostrato – come ampiamente previsto – come il miglior strumento per partecipare alle imprese imperialiste, ad avventure militari di ogni tipo, sempre decise a Washington o nel vertice Nato in spregio allo stesso art. 11 della Costituzione.

Basterebbe, per cambiare strada, il semplice ritorno all’esercito di leva? Ovviamente no, non siamo così ingenui, ma che il tema della leva richiami una visione democratica dello Stato ci pare una cosa assai difficile da negare. E che si sia tornati a parlarne è già qualcosa.

E ora…”fascismo”, “razzismo” e chi più ne ha più ne metta…

Ci siamo dedicati finora ad una ricostruzione dei primi cento giorni del governo gialloverde. Una ricostruzione dove mi è parso giusto considerare le cose fatte, quelle in dirittura d’arrivo, le prese di posizione più importanti, i temi riportati nel dibattito politico, insieme agli evidenti problemi che percorrono la maggioranza uscita dal voto del 4 marzo.

Ma siccome non viviamo sulla luna, è doveroso soffermarci, prima di chiudere, sulle accuse di “fascismo” e di “razzismo” indirizzate da tanti intellettuali e militanti della sinistra – italiana ed europea – contro l’attuale governo. Lo faremo però in maniera sintetica, anche perché tante cose le abbiamo già dette in questi mesi di intensa polemica politica.

Fascismo? – Abbiamo scritto tante volte che non si dà fascismo se non come reazione della classe dominante ad un pericolo rivoluzionario. Qui, purtroppo, il “pericolo” rivoluzionario in senso classico proprio non si vede, ma si vede invece lo schierarsi compatto delle classi dominanti contro il governo che si vorrebbe “fascista”. Abbiamo cioè l’esatto contrario di quel che il fascismo storicamente è stato. Può essere questo un banale dettaglio? Suvvia, siamo seri.

Ma il fascismo è stato anche, e preminentemente, un fenomeno di sopraffazione violenta, di annientamento fisico delle organizzazioni del movimento operaio e delle classi subalterne in genere. Abbiamo adesso qualcosa del genere? Vi sono forse squadracce che girano per il Paese con manganelli, olio di ricino, o con qualcosa oggi equivalente a quegli strumenti di un secolo fa? Ovviamente no. Di nuovo, siamo seri.

Il fascismo è stato dittatura, accentramento del potere, censura e controllo totale dei media. Certo, alla dittatura si arrivò per gradi, ma che forse possiamo parlare di accentramento del potere, quando semmai il vero problema è che i grandi poteri oligarchici sono tutti (sottolineo, tutti) contro un governo uscito da un voto democratico? In quanto ai media abbiamo già detto. Altro che controllo! Qui il controllo c’è, ma da parte delle forze d’opposizione! Per essere più precisi – dato che i partiti d’opposizione sono in preda ad un’autentica crisi esistenziale – da parte dei centri di potere che dirigono di fatto l’opposizione stessa.

Cos’è dunque questo fascismo immaginario che unisce la narrazione dei dominanti a quella della sinistra sinistrata? A me pare, semplicemente, una comoda fuga dalla realtà, una reazione psicologica all’imprevisto, un modo furbesco quanto sterile di ritrovare una propria efficacia non con la forza delle proprie idee, ove ve ne fossero, quanto piuttosto con la costruzione di un nemico irreale quanto mostruoso. Auguri!

Razzismo? – Se non esiste il fascismo inteso come fenomeno politico, il che non esclude ovviamente l’esistenza di singole soggettività fasciste, cosa possiamo dire del razzismo?

La stampa si è data molto da fare, nei mesi estivi, per descrivere un’Italia in preda di un’ondata razzista alimentata da un certo armamentario linguistico salviniano. Sicuramente certi toni di Salvini, assolutamente inaccettabili, hanno favorito questa narrazione su un razzismo montante e senza freni.

Ma è questa la realtà? Direi proprio di no. Episodi razzistici sono sempre avvenuti, e le statistiche ufficiali non mostrano l’impennata di cui i media hanno tentato di convincerci. Clamoroso il caso di Moncalieri, dove si è cercato di far passare per razzismo fascioleghista la bravata (un lancio di uova verso donne sia bianche che nere) di un gruppo di balordi che agivano a bordo della macchina di un consigliere comunale del Pd, padre di uno di loro. Certe volte il ridicolo colpisce più di tanti discorsi!

Non che non esista il problema razzismo in generale. Esiste, anche se sarebbe più corretto parlare di xenofobia, dato che il razzismo in senso stretto presume una concezione suprematista largamente estranea alla cultura italiana. Quel che non esiste proprio è invece l'”ondata razzista”. Ci sono episodi, talvolta gravi e comunque da combattere, ma non c’è nessuna “ondata” legata all’arrivo a Palazzo Chigi dei populisti. Questo sarebbe l’ora che venisse riconosciuto da ogni persona onesta.

Certo, il tema è facilmente riconducibile a quello delle migrazioni. E qui c’è un problema, perché il binomio leghista “blocco dei flussi + espulsione dei clandestini” non regge alla prova dei fatti. Esso nasce come reazione al caos globalista delle migrazioni (cioè, fondamentalmente, dell’importazione di schiavi senza diritti) come bene a prescindere. Ma la formula del futuro non potrà essere questa, bensì quella del governo dei flussi + l’integrazione dei migranti presenti. Uno stato sovrano e democratico dovrà controllare il fenomeno, combattere i trafficanti di esseri umani, dare cittadinanza, dunque diritti politici e sociali, a chiunque viva, studi e lavori in Italia da un certo periodo di tempo.

E adesso?

Ci siamo soffermati sulle parole chiave di “fascismo” e di “razzismo” per l’uso smaccatamente strumentale che se ne è fatto in questi mesi. La campagna delle forze sistemiche è però clamorosamente fallita. M5S e Lega avevano il 4 marzo il 50% dei voti, oggi i sondaggi le stimano un po’ sopra al 60%. La gente non è poi così gonza come pensano lorsignori.

I problemi sono adesso ben altri. In primo luogo quelli legati al varo della Legge di Bilancio, con l’inevitabile scontro con la Quinta Colonna infiltrata da Mattarella nell’esecutivo, a partire dall’ineffabile ministro Tria.

Non si dà l’avvio di un vero cambiamento senza la battaglia contro le forze che vogliono impedirlo a tutti i costi. Oggi queste forze – quelle del blocco eurista – hanno trovato il loro campione proprio in Tria. Tutto ciò a dimostrazione di quanto siano strumentali gli altri argomenti di cui abbiamo parlato poc’anzi. A lorsignori interessa solo una cosa: che non si rompa seriamente con il dogma eurista e le sue sacre regole.

A me non pare che il duo Di Maio-Salvini, il vero asse su cui si regge il governo, abbia intenzione di capitolare. Vorrebbe evitare lo scontro adesso, questo è sicuro, ma non è detto che questa tattica venga assecondata dagli avversari. Anch’essi però sono deboli e debbono stare attenti. Non hanno alternative politiche in parlamento, né il consenso necessario per tornare alle urne. Si annuncia dunque un lungo tiro alla fune. La mobilitazione popolare è necessaria e la sinistra patriottica sa da che parte stare.