Quest’anno è caduto il centenario dell’entrata in vigore dell’armistizio di Villa Giusti (4 novembre 1918), ovvero della resa dell’Impero austro-ungarico e della fine della prima guerra mondiale.
La celebrazione del 4 novembre ha assunto un significato del tutto peculiare.

Come per ogni celebrazione pubblica essa è simbolica e attraverso essa lo Stato esibisce la sua propria identità storica e spirituale. Ma qual è questa identità? Quali i suoi tratti distintivi?  Cosa esattamente è stato quindi celebrato l’altro ieri? Una festa pacifista per la fine della guerra? Oppure una militaristica santificazione della sanguinosa vittoria sul nemico?

Nessuno meglio del  Presidente della Repubblica Mattarella, grande sacerdote del rito patriottardo, poteva aiutarci a risolvere l’enigma. Con le sue dichiarazioni egli ha mostrato quella che possiamo definire “doppia personalità” o ambivalenza identitaria italiana, l’oscillazione tra due poli opposti: da una parte l’anima fascista e dall’altra quella globalista ed europeista. Fossimo psicanalisti, e non lo siamo, dovremmo dire che ci sono tutti i sintomi del DDI, del disturbo dissociativo dell’identità.

Un breve excursus storico è necessario.
La celebrazione del 4 novembre venne istituita nel 1919 come Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate per celebrare la vittoria sull’Austria-Ungheria. Mussolini nel 1922 cambiò nome alla festa che divenne “Anniversario della vittoria”, militaristica celebrazione della potenza italiana. Nel 1949, la giovane Repubblica tornò all’originale facendo diventare il 4 novembre una minimalistica celebrazione delle forze armate italiane, nonché, addendum, del “completamento dell’Unità d’Italia”. E questo addendum spiega come mai il 4 novembre sia l’unica festa nazionale che abbia attraversato decenni di storia italiana: dall’età liberale, al Fascismo, alla Repubblica. Tre regimi medesima falsa narrazione: celebrazione della vittoria in quanto “quarta guerra d’indipendenza” che quindi avrebbe portato a termine, con la “liberazione” di Trento e Trieste, l’unità d’Italia.

Ed è proprio questa storia che ci spaccia il Presidente Mattarella. Lo fa in lunga intervista concessa al CORRIERE DELLA SERA. Alla domanda “Cosa suscita in lei la data del 4 novembre?”, il nostro risponde:
«Il 4 novembre 1918 è il giorno della piena conquista dell’Unità d’Italia, con Trento e Trieste, al prezzo di centinaia di migliaia di morti, di un milione di feriti e mutilati, di seicentocinquantamila prigionieri di guerra. Di sofferenze immani, di straordinari eroismi, di disciplinato impegno, anche da parte della popolazione civile la cui vita fu, per tutto il conflitto, quasi militarizzata. La guerra fu vinta e questo contribuì a rafforzare lo spirito della Patria, che non era di parte e tantomeno di una parte sola, quella interventista, bensì era il portato di un nuovo senso di cittadinanza. La mobilitazione generale, la divisa, la trincea; la condivisione dei sacrifici e dei dolori nel “fronte interno” avevano aiutato a formare una nuova consapevolezza dell’essere italiani. “L’Italia è compiuta” ebbe a esclamare aprendo i lavori della Camera il suo presidente, il garibaldino Giuseppe Marcora, nella seduta del 20 novembre 1918, aggiungendo: “Nessun piede straniero calpesta più, né più calpesterà, né il Trentino nostro né Trieste”».

Che abbiamo? Abbiamo che egli — di contro alla grande maggioranza del popolo italiano ed alle forze “neutraliste” che osteggiarono come poterono la guerra: il Partito socialista, la Chiesa ed i liberali vicini a Giolitti —, non solo giustifica la sbornia nazionalistica e interventista che travolse il Paese col “radioso maggio” del 1915, ma raccoglie la narrazione fascista della “guerra patriottica e irredentista”, occultando così la vera ragione dell’ingresso nella Grande Guerra: fare dell’Italia la “sesta potenza” colonialista, per partecipare quindi, con quelle vincitrici, alla spartizione imperialistica del bottino mondiale.

Allo scopo di camuffare questa prossimità col discorso fascista e di pulire la coscienza sporca dello sciovinismo nazionalista Mattarella tira in ballo goffamente il “garibaldinismo”. Dietro a questa mossa c’è una vera e propria operazione ideologica, quella, appunto, di dare un’identità storica e spirituale all’Italia trovandola nel cosiddetto “interventismo democratico” dei Gaetano Salvemini, degli Emilio Lussu, dei Bissolati.

Ma che si trattò di “interventismo democratico” è una menzogna.
Vero che poi diversi di quegli interventisti, come esponenti di Giustizia e Libertà, diventarono antifascisti, ma nel periodo decisivo essi furono in prima linea nel fiancheggiare l’ala dura del partito della guerra, ovvero il protofascismo dei Mussolini, dei D’Annunzio, dei Prezzolini e dei Marinetti.

Un fiancheggiamento “attivo ed operante”, anche quando si trattò di assaltare il Parlamento e poi di ricorrere alla violenza per punire il cosiddetto “nemico interno”, ovvero il Partito socialista. L’ingresso in scena come interventisti di eminenti ex-socialisti, democratici ed epigoni di Mazzini e Garibaldi ebbe effetti devastanti: furono essi che, sui giornali, resero credibile l’inganno che si trattava di una guerra patriottica che avrebbe finalmente concluso il Risorgimento. Furono essi che col lasciapassare dello Stato Maggiore andarono peregrinando nelle trincee per sobillare e ringalluzzire le truppe.

Ma dove sta, vi chiederete a questo punto, l’ambivalenza identitaria? La doppia personalità?

Lo attesta sempre Mattarella il giorno dopo la sua intervista, in ciò che ha detto a Trieste. Sentiamo:
«Lo scoppio della guerra nel 1914 sancì in misura fallimentare l’incapacità delle classi dirigenti europee di allora di comporre aspirazioni e interessi in modo pacifico anziché cedere alle lusinghe di un nazionalismo aggressivo. (…) La Costituzione Italiana, nata dalla Resistenza, ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie, privilegia la pace, la collaborazione internazionale, il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. (…) La guerra non produsse, neppure per i vincitori, ricchezza e benessere, ma dolore, miseria e sofferenza nonché la perdita della primaria rilevanza dell’Europa in ambito internazionale. La guerra non risolse le antiche controversie fra gli Stati ma ne creò di nuove e ancor più gravi facendo sprofondare antiche e civili nazioni nella barbarie di totalitarismi e ponendo le basi per un altro ancor più distruttivo, disumano ed esacerbato conflitto».

La schizofrenia è palese. Il giorno prima ha inneggiato alla prima  guerra mondiale come “giorno della piena conquista dell’Unità d’Italia, con Trento e Trieste”, che grazie alla “vittoria” costata fiumi di sangue “rafforzò lo spirito della Patria, ed un nuovo senso di cittadinanza”,  per finire con “L’Italia è compiuta, nessun piede straniero calpesta più, né più calpesterà, né il Trentino nostro né Trieste”. Il giorno dopo veste i panni del pacifista condannando la Grande guerra che fu una immane carneficina e “non produsse, neppure per i vincitori, ricchezza e benessere”.

E qui siamo alla seconda narrazione, la quale ci riporta all’intervista che egli conclude, di contro ai retorici panegirici nazionalistici, con una sfrontata perorazione dell’Unione europea, del libero scambismo, della globalizzazione, quindi con un attacco frontale ai “populismi” e ad ogni “nostalgia” delle defunte sovranità nazionali.

Qual è il vero Mattarella? Tutti e due, e in ciò sta appunto l’ambivalenza identitaria delle classi dominanti italiane. “Patriottiche” fino ad abbracciare il nazionalismo fascista di cui si sentono figlie legittime, feroci nemiche di ogni sovranismo, poiché… ce lo chiede l’Europa, dalla quale non sarebbe più consentito uscire.

Un’ambivalenza che nasconde quella che altrove abbiamo chiamato “crisi d’identità” dell’Italia, l’oscillazione delle sue classi dominanti tra due poli simbolici opposti, fascista e liberale. Una doppia personalità che ove l’Unione europea dovesse presto sfaldarsi, potrebbe presto tornare utile alla grande borghesia.

Oggi essa è ancora caparbiamente europeista e antinazionale, ma domani, pur di restare al comando, pronta a saltare sul carro del nazionalismo ed a portare al potere, mutatis mutandis, un nuovo duce.

Non lo deve dimenticare la sinistra patriottica, proprio ora che deve difendere questo governo dall’aggressione eurocratica. Proprio ora essa deve qualificare il suo patriottismo popolare e democratico come alternativo e antagonistico ad ogni forma di nazionalismo sciovinista, quale che sia la veste in cui si dovesse presentare in futuro.

Un patriottismo, quello nostro, che ha radici storiche profonde che nemmeno la prima guerra mondiale, con la sua sbornia interventista, e poi il fascismo, riuscirono ad estirpare, se è vero, com’è vero, che riemerse, fucile in spalla, nel cuore della seconda.
E’ infatti anche grazie ad esso che noi siamo ancora qui.