Tim: il governo italiano deciso a rinazionalizzare la rete telefonica?

Le privatizzazioni, non solo quelle italiane, sono state un disastro. Idem per le liberalizzazioni, le loro sorelle gemelle che dovevano garantire “il mercato”, “le regole”, “l’efficienza”, “la concorrenza” e financo “i diritti dei consumatori”. Ci sarebbe da ridere se non fosse che c’è già abbastanza per piangere.

Questo in generale, ma il caso della telefonia non fa eccezione. Era il lontano 1997 (governo Prodi, con l’appoggio esterno del Prc), quando Telecom Italia (dal 2016 Tim) viene privatizzata. Era l’epoca delle grandi svendite di Stato, utili per entrare nell’euro – sai che guadagno! -, per consentire lucrosi affari ai soliti noti, per quello spruzzo di “modernità” che rendeva tanto lieta la “sinistra” di allora.

In vent’anni, buona parte del capitalismo italiano è transitata nelle stanze del potere di Telecom. Tra questi Colaninno, Gnutti, i Benetton, Pirelli, Banca Intesa, solo per dare un’idea. Ma gli italiani non bastavano. Dopo la spagnola Telefonica, arriverà nel 2014 la francese Vivendi del finanziere Vincent Bolloré. Solo allora ci si accorgerà di dove hanno portato la privatizzazione e la liberalizzazione della telefonia. Prima si “scoprirà” che Telecom Italia era diventata francese, poi si prenderà atto degli evidenti problemi per la stessa sicurezza nazionale. Difatti, essendo rimasta proprietaria della rete, la privatizzazione di Telecom mise in mani private l’intera trasmissione dati nazionale. Ma solo quando queste mani diventarono quelle francesi di Vivendi il problema venne a galla nella sua gravità.

Adesso il governo gialloverde si pone finalmente l’obiettivo di rinazionalizzare, in qualche forma, la rete di telefonia fissa, internet e trasmissione dati. Per farlo non può che scorporare la rete da Tim, trasferendola ad una società in cui far confluire Open Fiber, la nuova società controllata dallo Stato (50% Enel e 50% Cassa Depositi e Prestiti) che sta posando la fibra ottica in molte zone del Paese. In questo modo lo Stato riassumerebbe il controllo della rete, garantendo inoltre Internet veloce anche nelle aree svantaggiate, quelle cosiddette “a fallimento di mercato”, dove ai privati mai converrebbe investire.

Andrà il governo Conte fino in fondo? Le ambiguità come al solito non mancano, e la parola “nazionalizzazione” resta un tabu sia per Salvini che per Di Maio. Sta di fatto che non avrebbe alcun senso creare una nuova società dedicata alla rete per lasciarla poi ai privati. Le dichiarazioni dei due vicepremier non sciolgono però tutti i nodi.

«La nostra ambizione è creare un player unico che consenta di fare arrivare la connessione a tutti gli italiani», ma se a maggioranza pubblica o privata «lo vedremo nei prossimi giorni», ha detto Di Maio riportato dall’Ansa. Più esplicito Salvini che ha indicato l’obiettivo di «non cedere più infrastrutture strategiche per l’Italia a potenze o compratori stranieri», aggiungendo di «preferire che ci sia controllo pubblico dove passano dati sensibili degli italiani».

Come si vede il quadro non è ancora chiaro. Tuttavia, queste semplici intenzioni di buon senso sono bastate a mandare in bestia i guardiani dell’ideologia liberista. Costoro sentono che il vento è ormai cambiato. L’attuale governo non è certo di ispirazione socialista, ma non può fare a meno di fare i conti con la realtà. Quella stessa realtà che gli ha portato consensi, ma che potrebbe pure toglierglieli qualora si rivelasse assai simile ai suoi predecessori. Ecco allora il dossier Autostrade, per ora congelato dai pruriti liberisti della Lega, ma tutt’altro che chiuso. Ecco la vicenda Alitalia, anch’essa oscura nei suoi esiti finali, comunque prevedibilmente assai diversi da quelli prefigurati dalla linea Calenda. Ed ecco, infine, la partita di Tim, che rimette parzialmente in discussione le conseguenze di una delle più grandi privatizzazioni italiane.

Certo, da un governo che mentre deve far fronte al decisivo scontro con l’UE, va a incarognirsi sulla linea sicuritaria del “Decreto sicurezza”, ad impelagarsi sull’assurdità del congelamento della prescrizione, a dividersi sugli inceneritori come sui preservativi, non bisogna pretendere troppo. Di sicuro non possiamo aspettarci una vera uscita dai dogmi del neoliberismo. Nondimeno qualcosa sta accadendo, qualcosa che apre comunque a nuove prospettive, nuovi varchi nei quali una forza socialista potrà forse in futuro inserirsi.

Torniamo allora ai già ricordati guardiani dell’ideologia liberista. Che su Tim essi siano in forte agitazione ce lo dimostra il Corriere della sera del 19 novembre. Alle due paginate che il giornale dedica alla vicenda, si aggiungono le prime tre dell’inserto economico del lunedì. Due delle quali affidate alla penna del solito Ferruccio de Bortoli, tutto teso a dimostrare che nulla si può fare, che i tempi sarebbero comunque troppo lunghi, che alla fine pagherà l’utenza, eccetera, eccetera. La terza compilata invece da quella specie di “Cottarelli del diritto” che corrisponde al nome di Sabino Cassese.

Costui, che pure è stato membro della Corte Costituzionale, ci dice in sostanza che applicare l’art. 43 della Costituzione è semplicemente impossibile. E questo perché? Semplice, perché «per Tim il disegno del governo è un esproprio o un regalo». Sprezzante del senso del ridicolo egli ci dice che il governo violerà in ogni caso la Carta del ’48, o espropriando senza indennizzo, o – all’opposto – sopravvalutando quest’ultimo per fare un regalo agli azionisti di Tim.

Ma che logica stringente! Se il Cassese ritiene di sapere quale sia la malefica intenzione del governo, ci dica almeno quale delle due dobbiamo temere. Ma il professore non s’abbassa a tali rivelazioni, s’abbassa invece al metodo dell’insinuazione. E siccome, egli rileva, Giorgetti ha dichiarato che il governo non intende fare espropri, ecco che si tratterà sicuramente di un regalo.

Facile sparare bischerate quando si dispone di tanti metri quadri al dì sulla stampa di lorsignori! Ora, noi non giuriamo affatto sulla bontà delle intenzioni governative, tantomeno su quelle del Giorgetti, che pure al Cassese piacerà certo assai più del “duo barbarico” Di Maio-Salvini. Ma qui la disonestà intellettuale è davvero strabordante.

Cassese ha l’età giusta per ricordarsi le vergognose regalie del primo centrosinistra ai signori dell’energia elettrica ai tempi della nazionalizzazione del 1962, eppure in pochi oggi metterebbero in discussione la bontà di quella nazionalizzazione ai fini dello sviluppo del Paese. Ma Cassese, che è stato ministro negli anni in cui si impostavano le massicce privatizzazioni degli anni ’90, dovrebbe ricordarsi anche che regalie ben più corpose avvennero proprio con quel processo di svendita del patrimonio pubblico che tanto piacque ai liberisti di ieri come a quelli di adesso.

Ma la malafede del Cassese è ben testimoniata da questa affermazione: «Il governo, infine, dall’operazione (sulla rete telefonica, ndr) avrebbe il consueto vantaggio. Avendo le mani in pasta, avrà la possibilità di nominare amministratori e di godere di posti di sottogoverno per propri clienti». Certo che ce l’avrà, questa possibilità. Ma, a parte l’inaccettabilità di un processo alle intenzioni dal pulpito non proprio illibato delle pagine del Corsera, che forse sarebbe meglio avere amministratori nominati da privati unicamente interessati ai loro profitti?

Per Cassese è evidentemente così. Questa la sua illuminante conclusione:
«Il governo, invece di cercare di combinare matrimoni, con il pericolo di rimanere invischiato nelle lotte di mercato, per il controllo di Tim, farebbe bene a dettare poche regole e ad astenersi dall’intervenire, facendo rispettare i tempi di costruzione della rete agli affidatari, che hanno ottenuto i finanziamenti pubblici, secondo le direttive dell’Unione europea». Amen!

Lasciar fare al mercato, astenersi dall’intervenire, limitarsi alle regole, affidarsi alle direttive di Bruxelles: altro non si può fare, ci mancherebbe! E ci mancherebbe che qualcuno avesse a ricordarsi del già citato art. 43! Che proprio per questo vogliamo rammentare al costituzionalista Cassese:
«Art. 43. A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale».

Nazionalizzare si può, dice la Costituzione repubblicana. Nazionalizzare si deve, aggiungiamo noi nel nostro piccolo. E nel caso della rete telefonica, Cassese o non Cassese, proprio non dovrebbe esserci dubbio alcuno.