Il 30 maggio 2014, cinque giorni dopo il suo grande successo alle europee, scrissi un articolo all’epoca controcorrente: «La resistibile ascesa di Matteo Renzi». Pare passata un’era geologica, ed invece non sono neppure cinque anni… Al tempo i più gli pronosticavano un ventennio al potere, oggi sappiamo tutti com’è andata.

Adesso c’è un altro Matteo. Non ha ancora i voti, ma solo sondaggi. Eppure son quasi tutti convinti che abbia anche lui un ventennio davanti. Non s’offendano costoro, ma chi scrive queste righe non lo crede neanche un po’.

Grandi le differenze tra il primo e il secondo Matteo. Il primo amato dalle èlite, il secondo no; il primo alla guida di un partito eurista, il secondo alla testa di una forza passata (pur contraddittoriamente) dal localismo al nazionalismo. Capo di un governo quasi monocolore il primo, ministro dell’Interno di un governo di coalizione il secondo. E potremmo continuare.

Assai diverso anche il contesto. Nel 2014 la riscossa delle èlite sembrava ancora possibile, ma solo con qualche invenzione simil-populista. Da qui il passaggio dal grigio pisano Letta al pirotecnico fiorentino Renzi. Oggi la partita si è spostata nel campo populista, nel quale il progressivo prevalere della sua ala destra sembra ai più inarrestabile. Ma è davvero così?

Non lo penso affatto. La crisi italiana è tutt’altro che risolta, ed il Salvini non ha proprio la stoffa del leader – dello “statista” neanche a parlarne – necessaria ad affrontare le prossime tempeste. Ha la forza ed il consenso dell’uomo odiato dalle èlite, ma non pare avere un briciolo di strategia che vada oltre il prossimo appuntamento elettorale.

In tanti considerano la sua ascesa inarrestabile perché credono – auto-razzisticamente – che gli “italiani vogliono l’uomo forte”, quasi lo richiedesse il Dna della penisola. Io penso, invece, esattamente il contrario. Che tanto più il Salvini si fa onnipresente sui media, ossessivo nei suoi messaggi, irritante nella sua rozzezza, venerato dai suoi fedeli; tanto prima inizierà la sua parabola discendente.

A dispetto di quel che si crede gli italiani, proprio perché memori del vero ventennio, non amano affatto l’uomo solo al comando. Ho ricordato all’inizio la parabola renziana proprio per questo. Non scordiamoci mai la ragione profonda della sconfitta del Bomba nel referendum costituzionale del 2016. A mio parere, fu proprio il rifiuto di massa dell’accentramento del potere nelle mani di un uomo, divenuto nel frattempo insopportabile ai più proprio per la sua invasività di ogni spazio pubblico, il fattore davvero decisivo di quel risultato.

Lo so, è questo un giudizio che rischia di scivolare nel campo della psicologia. Ma anche la psicologia, in questo caso di massa, può divenire in alcune circostanze un potente fattore politico di cui tener conto.

Certo, con la Seconda Repubblica si è fatto di tutto per uccidere i partiti, in quanto soggetti non sempre totalmente controllabili a priori dalle oligarchie, esaltando invece i leader, da vendersi come più “liberi” al popolo, ma in realtà più facili da controllare per le èlite. Il fatto è che questa operazione ha funzionato solo a metà. La distruzione della credibilità dei partiti è perfettamente riuscita, quella dell’accreditamento della bontà dei leader all’americana no.

Naturalmente, il paragone con Renzi regge solo fino ad un certo punto. Salvini è pur sempre uno dei due capi sui quali si regge un governo che, pur se contraddittoriamente, ha aperto le ostilità con l’Unione Europea. E finché questo scontro resterà aperto, finché l’esecutivo gialloverde rappresenterà un elemento di oggettiva destabilizzazione del quadro europeo, esso manterrà di certo un forte consenso popolare. Ed è giusto e naturale che sia così.

Ma qui non parliamo del governo gialloverde, bensì del “fenomeno Salvini”. Sono due cose diverse, per certi aspetti addirittura opposte. Perché, mentre la forza dell’attuale maggioranza sta proprio nella “strana” alleanza di due forze populiste, una chiaramente connotata a destra, l’altra largamente rappresentativa di un elettorato storicamente di sinistra; l’ipotesi di un Salvini pigliatutto si fonda proprio sulla rottura di questa alleanza.

Rottura che, giurano quasi tutti, avverrà dopo le elezioni europee del 26 maggio. La premessa di questa previsione si fonda sul fatto che Salvini potrebbe tornare ad un tradizionale governo di destra, con Forza Italia e Fdi, essendone divenuto nel frattempo l’incontestabile leader. In questo quadro l’attuale ruolo dei Cinque Stelle sarebbe semplicemente quello degli “utili idioti”. Il tutto benedetto da un avvicinamento, a livello europeo, tra le forze populiste di destra ed un PPE spostato in quella direzione.

Questo scenario piacerebbe a quasi tutti. A Berlusconi ed alla Meloni, che tornerebbero così al governo. A piddinia e dintorni, dove (causa declino M5S) ci si illuderebbe sulla ricostruzione del bipolarismo. Alla Confindustria, desiderosa di celebrare nuovi fasti del mercato. All’Unione Europea che potrebbe così chiudere, almeno temporaneamente, il conflitto con un’Italia ricondotta all’ovile.

A quel punto, ritengono i più, Salvini – per quanto normalizzato – avrebbe davanti a sé se non un ventennio, di certo un’intera legislatura. Andrà davvero così? Nessuno può avere la sfera di cristallo, ma tanti sono i motivi per dubitarne. Vediamoli.

In primo luogo i voti per diventare il dominus della politica italiana Salvini ancora non li ha. Ha i sondaggi, ma i voti sono un’altra cosa. Nessun dubbio su una forte avanzata rispetto alle elezioni politiche. Ma di quanto? Di venti punti, come azzardano alcuni istituti demoscopici, di quindici, oppure di dieci come non mi sentirei di escludere? E poi, quanti di questi voti si riveleranno un semplice travaso dai tre alleati della coalizione di destra che si presentò il 4 marzo 2018?

Vedremo, ma se anche i sondaggi avessero ragione, resta il fatto che i consensi attuali la Lega li ha in alleanza con M5S. Siamo certi che rompendo questa alleanza, per tornare con Berlusconi e soci, quei consensi resterebbero? Certo, chi è convinto di un grande spostamento a destra del Paese non avrà dubbi. Ed in fondo il 46% che oggi viene attribuito alla coalizione di destra resterebbe pur sempre inferiore al botto dell’alleanza Pdl-Lega del 2008. Per cui impossibile non è.

Ma ci sono diversi problemi. Il primo è che dopo maggio viene giugno. Ed abbiamo visto lo scorso anno come la resistenza ad elezioni in estate sia pressoché invincibile: nel bene come nel male chist’è ‘o paese d’ ‘o sole. Ma dopo l’estate c’è l’autunno, dunque la nuova Legge di bilancio. Di elezioni neanche a parlarne, e siamo così all’inizio del 2020. Un anno intero ha da passare, un anno particolarmente lungo, con l’elevata probabilità di una nuova recessione, o quantomeno il pantano di una persistente stagnazione. Sai quanto ci mettono i consensi a logorarsi!

Salvini potrebbe sfuggire a questa tempistica solo in un modo. Rompendo prima delle europee, andando all’incasso nel momento per lui più favorevole. Ma questo comporterebbe troppi rischi, ed una rottura con Mattarella che i pezzi da Novanta della Lega Nordista non vogliono di certo.

E qui fa capolino l’altro gigantesco problema. Perché, o si pensa che i Cinque Stelle siano del tutto fessi, oppure essi hanno l’arma atomica per calmare il loro ingombrante alleato. Quest’arma si chiama “regionalismo differenziato”, più precisamente stop al regionalismo differenziato. In concreto, si tratterebbe di bloccare nelle prossime settimane l’accordo tra lo Stato (di fatto il governo) e le tre regioni che si sono messe su questa strada: Veneto, Lombardia, Emilia Romagna.

Fare questa mossa non significherebbe affossare il governo. Eventualmente quella scelta andrebbe lasciata a Salvini. Il quale andrebbe messo davanti a questo dilemma: “prima gli italiani”, come dici ogni dì, o “prima i veneti e i lombardi” come vogliono i tuoi capibastone del nord? Delle due l’una, perché le due cose assieme non stanno. Se sei per difendere l’unità nazionale, ti dovrai scontrare con un bel pezzo della Lega Nordista; se invece a veneti e lombardi non potrai dir di no, addio ai sogni  di espansione al sud. In un caso come nell’altro un bel prezzo da pagare. Per i pentastellati un’occasione d’oro per riequilibrare i pesi interni alla coalizione.

Dice: ma così Salvini avrebbe il casus belli per far cadere il governo e tornare col Berluska. Giusto, ma gli converrebbe davvero presentarsi come l’uomo del nord, da milanese nuovamente accasato ad Arcore? L’uomo è scaltro, lo Stivale è lungo, e credo che certi conti li sappia fare. Se invece, come pensano i più, quel tragitto è già deciso – per scelta o per debolezza che sia -, meglio per i Cinque Stelle scegliere tempi e temi per staccare la spina.

Concludendo, ci sono dunque serie ragioni, sia soggettive che oggettive, per dubitare assai dell’irresistibile ascesa di Matteo Salvini.

La verità è che la crisi macina eventi, partiti (pensate al Pd) e personaggi (pensate a Monti) con una velocità impressionante. E pure i consensi elettorali si muovono con una rapidità ben diversa da quella dei periodi di morta gora. Salvini non ha ancora incassato quel che sondaggisti ed opinionisti gli danno, che già se ne intravvede il possibile declino.

Il fatto è che non si esce dalla crisi italiana facendo credere che il problema siano gli immigrati e la “legittima difesa”, rinunciando così a spiegare qual è la posta in gioco nel confronto con l’UE, ondeggiando al primo picco dello spread e – quel che è peggio – restando ostaggio dei capibastone del nord.

A differenza del grosso di quella che ancora si autodefinisce “sinistra”, noi non ci auguriamo però la fine del governo gialloverde. Quella la desiderano le èlite euriste per i motivi che sappiamo. Ma tanti, troppi, atteggiamenti salviniani vanno proprio in quella direzione.

Bene, quel che sarà, sarà. Ma la mia personale opinione è che per Salvini la rottura sarebbe rischiosa assai, non un agevole percorso sul tappeto rosso che oggi immaginano interessati opinionisti. Perché il disegno delle oligarchie è semplice: prima dividere Lega ed M5S agendo su ogni possibile contraddizione politica, poi sistemare la “pratica Salvini” come si conviene nei passaggi critici della politica nazionale. Alla fine della fiera la porta di Palazzo Chigi rischierebbe di aprirsi sì, ma non per lui, bensì per qualcun altro ben più digeribile per i despoti di Bruxelles, magari per un signore in rientro da Francoforte.