La seconda puntata del nostro viaggio intorno alla questione dei “cambiamenti climatici” ha suscitato un discreto interesse, dunque il lavoro dedicato ad affrontare questo tema non è tempo perso. Dopo aver visto che i critici alla teoria ufficiale del “Riscaldamento Globale Antropogenico” (AGW) non sono esattamente quattro scalzacani, passiamo ora ai due piatti forti dei sostenitori di questa teoria: l’innalzamento delle temperature e quello del livello dei mari. Lo faremo utilizzando prevalentemente i dati ufficiali, pur se di fatto in mano ad un ente non proprio imparziale: la NASA.

L’analisi di questi dati è importante, perché ci consente di iniziare a quantificare il fenomeno, di valutarne la compatibilità o meno con altre variazioni storiche interne alla fase interglaciale che stiamo vivendo, di confrontarne la portata con gli annunci mediatici di una catastrofe imminente.


Di quanto sono aumentate le temperature?

Secondo la Nasa, ma questo è il dato ufficiale comunemente accettato, dal 1880 ad oggi la temperatura media globale è salita di 0,8 °C (vedi figura 1).

Figura 1 – Variazioni temperatura globale 1880-2018

Questo grafico pone in realtà almeno due problemi, dato che vi si osservano nella sostanza quattro fasi: la prima, dal 1880 al 1920, di stagnazione con lieve tendenza alla diminuzione delle temperature; la seconda, dal 1920 al 1945, di aumento dei valori termici, con una vera impennata tra il 1934 ed il 1942; la terza, dal 1945 al 1980, nuovamente di stagnazione, ma con un calo fino al 1976; la quarta, dal 1980 ad oggi, di aumento più sensibile delle temperature.

Il primo problema, relativamente alla sua compatibilità con la teoria dell’AGW, è appunto la sua non linearità. Un dato che attesta, senza ombra di dubbio, la compresenza di innumerevoli fattori extra-antropici, tra i quali spicca probabilmente il ruolo dell’attività del Sole, che notoriamente è tutt’altro che stabile.

Il secondo problema riguarda il rapporto tra l’andamento delle temperature e quello della CO2. La teoria dell’AGW si basa infatti su due punti fermi: 1. l’effetto serra come elemento determinante del fenomeno; 2. l’incremento della CO2 come fattore decisivo di un accresciuto effetto serra. La figura 2, qui sotto, ci racconta però un’altra storia. Mentre l’aumento della CO2 (in rosso), che è in effetti l’unico dato certo, è costante nel tempo, anche se più accelerato dal 1960 in avanti; quello della temperatura, schematizzato con la linea grigia, mostra l’andamento oscillante di cui abbiamo parlato prima.

Figura 2 – Non corrispondenza tra l’andamento della temperatura e quello della CO2

Particolarmente significativo è il caso del periodo 1945-1975. Questo trentennio è stato quello del boom economico, del trionfo del petrolio, della forte espansione delle centrali termoelettriche, dell’aumento delle emissioni in atmosfera. Eppure, a dispetto di un accresciuto aumento della CO2, la temperatura media globale è calata in quel lasso di tempo di 0,1 °C.

Certo, nessuno può negare – e noi non lo neghiamo affatto – che la tendenza attuale sia quella all’aumento della temperatura, ma nessuno avrebbe potuto negarlo neppure nel 1940, poco prima che la tendenza all’aumento si arrestasse per alcuni decenni.


Due cose di cui tenere conto

Ci sono però altre due cose da tenere a mente.

La prima è che la serie storica delle misurazioni della temperatura media globale presenta diversi problemi. Queste misurazioni sono iniziate con una certa sistematicità nel 1856. Nel tempo i sistemi di misura sono profondamente cambiati, così pure la precisione dei dati rilevati. Ma, soprattutto, è cambiato il pianeta, nel senso che il processo di urbanizzazione ha prodotto forti incrementi locali di temperatura dovuti all’effetto “isola di calore” che si verifica nei pressi delle città, proprio laddove molte temperature vengono registrate. Al tempo stesso, il sistema di rilevazione dei dati nella superficie marina – che rappresenta il 70% della superficie terrestre – è ancor più insoddisfacente. Dunque, un po’ di cautela sembrerebbe d’obbligo.

Ma c’è una seconda questione, ancor più rilevante. Ed è che l’aumento della temperatura di cui abbiamo trattato sin qui è riferito alle rilevazioni al suolo. Dal 1958 abbiamo però un sistema di rilevazione con radiosonde e, dal 1979, tramite satelliti. Queste misurazioni nella bassa atmosfera che, a differenza di quelle al suolo, non risentono evidentemente di elementi perturbativi come quello prodotto dalle “isole di calore”, ci forniscono dati assai diversi e assai meno allarmanti (vedi figura 3).

Figura 3 – Andamento della temperatura nella troposfera

Come si vede, nella troposfera l’aumento globale dal 1979 al 2015 è attorno a 0,3 °C. E, ancor più interessante, i valori appaiono sostanzialmente stabili dopo il dato record del 1998, attribuito a El Niño, fenomeno dalla genesi ancora incerta. E’ a questa stabilità (con diminuzione rispetto al 1998) che si riferiva Carlo Rubbia nel noto intervento al Senato che circola in rete e che tanto scandalo ha destato.

Tornando adesso alle misurazioni al suolo, c’è un altro grafico da considerare, quello presentato da Ivar Giaever nel 2015 a Lindau (vedi figura 4).

Figura 4  – Andamento della temperatura 1996-2014 a terra (oceani esclusi)

Come mai questo grafico non coincide con quelli ufficiali? Come mai le temperature medie degli ultimi 18 anni esaminati appaiono stabili? Semplice, dice il Nobel per la Fisica, perché questo grafico non tiene conto dei dati rilevati sugli oceani. Perbacco, direte voi, ma perché non considerare le superfici marine che coprono più dei due terzi del totale? Giusta osservazione, ma il fatto è che per oltre un secolo (i satelliti sono attivi solo da 40 anni) la media globale è stata calcolata senza gli oceani. Ecco un altro elemento da considerare, che contribuisce a sdrammatizzare ulteriormente il dato complessivo del riscaldamento del pianeta.


Non sottovalutare la questione

Detto questo non possiamo però sottovalutare il problema. Il riscaldamento, anche se probabilmente inferiore agli 0,8 °C dai tempi della rivoluzione industriale ad oggi, è comunque un fatto accertato. Alcuni effetti sono innegabili, come la riduzione dei ghiacci dell’Artico. Altri effetti, come l’aumento del livello dei mari, sono decisamente esagerati (lo vedremo tra poco). Altri ancora – l’aumento dei cosiddetti “eventi estremi” – sembrano invece bufale allo stato puro.

La questione è però un’altra. I cambiamenti climatici ci sono sempre stati. Il problema è semmai quello di accertare se stavolta si è davvero di fronte ad un’accelerazione senza freni, dunque potenzialmente catastrofica. E se essa, ove fosse confermata, sia da attribuirsi prevalentemente a fattori antropici. In questo caso sarebbe infatti possibile agire. Se, viceversa, la causa si rivelasse invece di tipo naturale – ad esempio legata alla variazione dell’attività solare – non resterebbe che adottare misure difensive, senza però poter incidere in alcun modo sulla fonte del problema.

Ma passiamo ora alla questione del livello dei mari, che è poi quella che suscita le maggiori fantasie dei catastrofisti.

Di quanto stanno salendo i mari?

Qui il buffo è che ai più la questione appare scontata. Salgono le temperature, i ghiacci si sciolgono, dunque i mari salgono, salgono, salgono… In realtà la questione è ben più complessa. Da un lato i mari salgono anche solo per l’aumento della loro temperatura (dilatazione termica), dall’altro la temperatura più alta produce anche maggiore evaporazione delle acque.

Sta di fatto che anche in questo caso, in base ai dati della solita NASA, l’aumento c’è. Ma qual è la sua entità? Prima di andarla a vedere sul sito dell’Agenzia Spaziale Americana, voglio farvi una domanda: vi ricordate delle previsioni dei catastrofisti di trent’anni fa? Il mare sarebbe salito di metri, forse decine di metri. Questo non solo secondo il sensazionalismo mediatico un tanto al chilo, non solo per la cinematografia della catastrofe (vedi ad esempio A.I. – Intelligenza artificiale di Steven Spielberg), ma pure per i fenomeni di Greenpeace. I quali, ancora nel 2002, parlavano di un aumento dei mari dell’ordine di 5-7 metri, che avrebbe sommerso molte città costiere inclusa New York.

Adesso i metri (per non parlare delle decine) sono diventati centimetri. In realtà centimetri tutti da verificare, ma così va il mondo. Secondo un’elaborazione della NASA (figura 5), nel periodo 1880-2015, il livello dei mari sarebbe cresciuto di 23 centimetri, equivalente ad una media di 1,7 millimetri all’anno.

Figura 5 – Variazione in mm del livello dei mari (1880-2015)

Si tratta in realtà di stime assai difficili. Fino all’avvento dei satelliti le misure erano affidate ad una rete di mareografi assai limitata. Secondo quel che scrive Donato Barone, in Italia questa rete è costituita da sole 36 stazioni su 8mila km di costa. Il problema è che, oltre ai fenomeni di subsidenza, i fattori in gioco – dai venti alle correnti marine – sono tanti.

Figura 6 – Variazioni annue in mm del livello del mare per aree geografiche

Sta di fatto che, secondo uno studio di Sarah Purkey ed altri, citato dallo stesso Barone: «Il tasso di variazione del livello medio del mare ha una grande variabilità regionale (vedi figura 6) nel senso che in alcuni punti del globo il livello del mare aumenta con velocità maggiori (+ 4,7+/-2,6 mm per anno nel settore Atlantico-Indiano dell’Oceano Meridionale), in altri tende addirittura a diminuire (- 0,8+/-1,2 mm per anno nel Pacifico Sud-occidentale)». Particolarmente significativo poi il caso dell’Atlantico settentrionale, dove il livello registra una diminuzione nonostante l’apporto dello scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia. E’ evidente, dicono gli autori, la presenza di altre cause: venti, correnti marine, rotazione terrestre, anomalie gravitazionali locali.

Tutto questo ci ricorda quanto la valutazione dell’aumento del livello dei mari sia complessa. In ogni caso andiamo a vedere quel che ci dice la NASA, attraverso i dati più recenti acquisiti da satellite. Questa rilevazione, iniziata nel 1993, indica un aumento di 9 centimetri in 25 anni, per una media annua di 3,3 millimetri. Si tratta di un aumento più che triplo rispetto a quanto registrato nello stesso periodo dalle stazioni a terra, che ci danno una media di 1 millimetro all’anno. Ma non sono pochi gli studiosi che considerano queste ultime come più attendibili dei dati da satellite.

La NASA, indicando le tre principali ragioni dell’innalzamento, fornisce questi dati sul contributo al fenomeno di ognuna di esse: l’aumento della massa oceanica (dovuto alla dilatazione termica) 1,8 millimetri annui; lo scioglimento dei ghiacci della Groenlandia (pari a 286 gigatonnellate) 0,8 millimetri annui; quello dell’Antartide (pari a 127 gigatonnellate) 0,3 millimetri annui.  

Al pari di quelli delle temperature, anche questi dati non vanno sottovalutati. Essi ci indicano tuttavia un aumento tutto sommato modesto, che finora non ha provocato effetti negativi sulle coste, neppure sugli atolli del Pacifico (come Tuvalu) che qualcuno voleva già sommersi e che invece godono ottima salute.

Del resto, per quel che valgono, le stesse previsioni ufficiali al 2100 sono state assai ridimensionate. Adesso si stima un innalzamento mediano fino a 52 centimetri se l’aumento della temperatura arriverà a 1,5 °C, di 63 centimetri per un aumento della temperatura di 2 °C. Da notare che il valore “mediano” prevede un minimo di 25 ed un massimo di 87 centimetri nel primo caso; un minimo di 27 ed un massimo di 112 centimetri nel secondo. Accipicchia che precisione! Chiaramente non si riesce a far di meglio, ma è un po’ come quando i sondaggisti forniscono le famose “forchette” delle loro proiezioni: numeri buoni per fare quattro chiacchiere in tv, ma che poco ci dicono sull’esito del voto. Ma ha davvero senso fornire previsioni in questo modo? Molti scienziati ritengono, infatti, che un senso proprio non ci sia. Ma forse sbagliano, il senso c’è, ed è quello di alimentare in continuo la narrazione catastrofista, dato che poi ci penserà la stampa a presentare come certo lo scenario peggiore tra quelli previsti.

Da notare, infine, un ultimo dato piuttosto interessante. Mentre si fa un gran parlare dell’enorme differenza tra l’ipotetico aumento di 1,5 °C e quello ancor più lontano di 2 °C (è su questo scarto di 0.5 °C che è incentrato il famoso Accordo di Parigi del 2015), l’IPCC ci dice che la differenza dei due scenari sul livello dei mari si limiterebbe ad 11 centimetri, con uno scarto sui minimi di soli due centimetri.

Ci mancherebbe, meglio che la temperatura non cresca oltre. Se crescerà ancora, meglio che si fermi ad un +1,5 piuttosto che ad un +2. Ma, come si vede, nessuna catastrofe è all’orizzonte.

Com’è cambiato il clima negli ultimi millenni?

A questo punto, dopo aver visto i dati essenziali relativi alle temperature ed al livello dei mari, arriviamo alla domanda decisiva. Queste variazioni, sono compatibili, oppure no, con quello che è stato l’andamento di altri cicli climatici all’interno dell’attuale fase interglaciale?

Non stiamo dunque ipotizzando assurdi raffronti con altre ere geologiche. Stiamo invece parlando delle variazioni note degli ultimi due millenni. Un periodo di cui vi sono sufficienti notizie storiche per abbozzare almeno un ragionamento. Sappiamo infatti che nei periodi interglaciali – quantomeno in quello che stiamo vivendo – la temperatura non va linearmente prima verso l’alto, per poi ripiegare inesorabilmente verso il basso. Queste sono le tendenze di fondo, ma il loro svolgimento non è lineare, proprio perché il clima risente di molteplici fattori, la mutevole attività solare in primo luogo.

Diverse cose sono note. Senza dubbio in epoca romana faceva più caldo di oggi, e si parla non a caso di “Roman Warming” per indicare il periodo tra il 250 a.C. ed il 400 d.C. Tante cose lo attestato, dall’abbigliamento alle memorie storiche, non ultimo il passaggio di Annibale sulle Alpi con 37 elefanti al seguito, che si dice sia avvenuto nell’ultima decade di ottobre del 218 a.C. Non si sa se le truppe di Annibale passarono dal Monginevro, dal Moncenisio o dal colle delle Traversette, ma di certo oggi quel passaggio sarebbe problematico assai.  

Quel che è sicuro è che quando i romani arrivarono in Britannia (55 a.C.), produssero vino per quattro secoli. Qui la vite scomparve per i cinque secoli successivi, periodo notoriamente più freddo. Essa riapparirà invece nel periodo 950-1300, durante il quale le temperature saliranno a valori presumibilmente superiori a quelli odierni (eppure la CO2 di origine antropica non c’era). Stiamo parlando del cosiddetto “Optimum climatico medioevale“, periodo nel quale Erik il Rosso, sbarcato nel 985 sulle coste meridionali di un’enorme isola disabitata, e fino allora sconosciuta, la chiamò Groenlandia, cioè Terra Verde. Di certo non l’avrebbe chiamata così se vi fosse sbarcato ai nostri giorni…

Ma anche quel periodo ebbe fine, e la vite in Britannia scomparve di nuovo. Si entrò infatti nella Piccola Era Glaciale (1350-1850), fenomeno sì globale, che molti ritengono sia stato però più marcato in Europa, ma probabilmente anche nel Nord America, visto che nel 1780 il porto di New York ghiacciò.

Dunque, attenzione, anzi doppia attenzione! Attenzione ad affermare con certezza che l’attuale fase di riscaldamento sia qualitativamente diversa dalle precedenti. Attenzione al fatto che la risalita in corso viene dopo la profonda diminuzione della Piccola Era Glaciale. Essa appare dunque più potente proprio a causa di quel raffronto, mentre se invece guardiamo più indietro vediamo subito come non ci sia in realtà nulla di eccezionale.

La figura 7 descrive l’andamento termico degli ultimi 1.100 anni, mettendo in luce il periodo caldo fino al 1300 (Optimum climatico medioevale), la successiva Piccola Era Glaciale, ed infine il riscaldamento in atto da circa 150 anni.

Figura 7 – Variazione della temperatura negli ultimi 11 secoli

Sulla materia esistono in ogni caso decine e decine di grafici che potete reperire in rete. Il loro esame – qui impossibile per ragioni di spazio – è estremamente interessante. Essi danno infatti risultati parzialmente diversi a seconda dei ricercatori e della zona geografica a cui si riferiscono, ma tutti convergono nel delineare con sufficiente nettezza l’andamento di massima schematizzato in figura 7.

Molti ricercatori sono andati però più indietro nel tempo. Nella figura 8 si descrive l’andamento delle temperature nell’intero Olocene, cioè l’epoca geologica in cui ci troviamo, ed iniziata convenzionalmente 11.700 anni fa, alla fine della Glaciazione Würm. Dopo l’ovvia risalita delle temperature del primo periodo si possono notare diversi alti e bassi, con due notevoli picchi verso l’alto attorno a 6mila e 4mila anni fa. Questa ricostruzione – s’intende, sempre da prendersi con le molle – coincide con parecchi reperti che attestano la presenza umana sulle Alpi in quel periodo, ad altitudini ove oggi non sarebbe neppure immaginabile.

 

 

 

 

 

 

 

Figura 8 – Le temperature dall’ultima glaciazione ad oggi

E’ lavorando su curve di questo tipo che si è arrivati ad individuare, nell’alternanza di fasi fredde e  fasi calde, una generale tendenza al raffreddamento – cioè verso una probabile nuova glaciazione. Questa tendenza è indicata dalla freccia nera della figura 9, che penso dia però una rappresentazione troppo accentuata del fenomeno e dunque in un certo senso ingannevole. Ho inserito questo grafico solo perché offre un’esposizione dettagliata delle varie fasi climatiche degli ultimi 4.500 anni. Per descrivere invece la tendenza di fondo mi pare più utile la successiva figura 10, relativa agli ultimi due millenni, ripresa da uno studio del professor Esper, pubblicato e commentata sul sito astronomia.com.

Figura 9 – Cosa è successo negli ultimi 4.500 anni

Figura 10 – La tendenza dall’anno zero ad oggi

Mi sono dilungato sul clima degli ultimi millenni perché, pur con tutte le prudenze del caso, quel che sappiamo è più che sufficiente per affermare con ragionevole certezza che il riscaldamento attuale non ha – almeno al momento – il carattere eccezionale che si vorrebbe far credere.

Ma cosa dice il maggioritario fronte catastrofista di fronte a tutto ciò? Una risposta ci viene da una ricerca pubblicata da Science, nel marzo 2013. La ricerca, basata su dati paleoclimatici di 73 siti sparsi in tutto il mondo, veniva così presentata dall’edizione italiana della rivista: «Il pianeta è uscito dall’ultima era glaciale circa 11.300 anni fa: da allora la temperatura globale ha avuto numerose oscillazioni, ma per il 75 per cento di questo lungo arco di tempo è rimasta in media più bassa di quella che si registra attualmente. E se si confermeranno le previsioni climatiche formulate di recente, con la fine del secolo verrà raggiunto il picco di caldo assoluto».

Bene, a parte le solite drammatiche previsioni sul futuro, la cui attendibilità è smentita dai fatti degli ultimi decenni, ed è messa radicalmente in discussione da un gran numero di climatologi, questa ricerca ci dice una cosa: che dalla fine della Glaciazione Würm la temperatura globale è stata per tre quarti del tempo più bassa dell’attuale, per un quarto più alta. Benissimo, un quarto non è poco, e ad occhio e croce la stima di un 25% coincide con quanto si può ricavare dalla figura 8. Ma se quel grafico è valido, risulta chiaro come la media di tutto il periodo sia fortemente condizionata dai primi duemila anni immediatamente successivi alla fine della glaciazione; anni ancora particolarmente freddi. Escludendo quei primi due millenni, e limitandoci dunque agli ultimi nove, otterremmo un risultato ben diverso rispetto alla ricerca di Science: diciamo, all’ingrosso, un risultato fifty-fifty tra i periodi con temperature più alte e quelli con valori più bassi rispetto a quelli attuali.

Dunque, nulla di catastrofico è in atto. Il riscaldamento in corso può comportare certamente dei problemi (come li comporterebbe di certo anche un raffreddamento), ma non siamo di fronte a qualcosa di qualitativamente diverso da quanto accaduto negli ultimi millenni.

E i mari?

I mari ci dicono la stessa cosa, ma le notizie storiche sono assai più scarse, probabilmente perché le modeste variazioni di livello – presumibilmente non dissimili a quelle attuali – non hanno mai destato vere preoccupazioni. Quel che sappiamo – altro che centimetri! – è che dalla Glaciazione Würm il loro livello è salito di circa 150 metri. Se 11mila anni fa fossero esistite le città costiere avremmo avuto un’autentica ecatombe, senza alcun bisogno del contributo della CO2 di origine antropica.

Certamente le modifiche che intervengono di continuo sulle coste risentono di tanti fattori, come l’erosione, la subsidenza, i fenomeni tettonici e – in alcune zone – quelli vulcanici (basti pensare a quanto accaduto il 22 dicembre scorso con l’eruzione del “Piccolo Krakatoa” in Indonesia). Tra di essi, particolarmente importante nel favorire l’avanzamento della linea di costa, è certamente l’effetto dovuto al trasporto ed all’accumulo di materiali fluviali.

Vi sono dunque fattori che spingono verso l’espansione della superficie marina, altri in senso opposto. Tutto questo – al pari dei cambiamenti termici – ci ricorda che il Pianeta Terra è vivo, le sue dinamiche e le sue forme geografiche in continua evoluzione.

Quel che è certo è che mentre non risulta, in nessun luogo del mondo, che porti, stabilimenti balneari e tantomeno città costiere abbiano dovuto chiudere i battenti a causa di un incremento del livello del mare, i vecchi porti di Pisa e di Ostia antica si trovano oggi ben distanti dalla costa.

Chiudiamo sul punto, segnalando un fatto assai significativo. Parlando del livello dei mari, abbiamo già visto le ricostruzioni sulle variazioni degli ultimi 140 anni e, soprattutto, i dati degli ultimi 25 anni ottenuti dalla NASA via satellite. Abbiamo anche visto però le difficoltà ed i punti deboli di queste rilevazioni. In Italia, i dati a terra del CNR calcolano un aumento annuo di 1,4 millimetri a Genova e Trieste, che è come dire, ove la tendenza continuasse, che il mare impiegherebbe 714 anni per salire di un metro.

Fa eccezione Venezia, sulla quale, con il solito titolo allarmistico, ci informa il Giornale di Vicenza di ieri l’altro, dicendoci che il mare è salito di 2,5 millimetri annui nel periodo 1872-2016, cioè al ritmo di 25 centimetri al secolo. Perché questa “crescita” doppia rispetto a Genova e Trieste? La risposta è semplice e si chiama subsidenza. Il livello sul mare può cambiare infatti sia perché salgono le acque, sia perché sprofonda il terreno. E nel caso di Venezia questo secondo fattore conta almeno quanto il primo, come ci dice uno studio del CNR riportato da le Scienze, in cui si legge che «la subsidenza media è di 1,2 mm/anno, con alcune zone localizzate in cui sono stati misurati valori di 2-4 mm/anno».

Attenzione dunque ai titoli terroristici che alimentano diuturnamente la narrazione catastrofista di cui ci stiamo occupando. Venezia ha dei seri problemi, ma essi ci sarebbero anche con un livello del mare perfettamente stabilizzato nel tempo.

Conclusioni

A questo punto, un argomento tira l’altro, bisognerebbe introdurre il tema dell’effetto serra e di quanto sia alterato dalle attività umane, in particolare a causa dell’aumento della CO2. Ma sono già stato troppo lungo e non intendo abusare oltre della pazienza dei lettori. Del resto la questione è seria e merita una trattazione adeguata. Ne parleremo perciò in una prossima puntata.

Per adesso mi limito ad una conclusione sul tema di questo articolo. I dati ufficiali ci mostrano un indiscutibile aumento della temperatura media globale negli ultimi decenni, un modesto aumento del livello dei mari, uno scioglimento dei ghiacci più marcato nell’Artico ed in Groenlandia, meno rilevante in Antartide.

La discussione sull’apporto delle attività umane è, a mio avviso, del tutto aperta. In generale, mi pare difficile pensare che le emissioni in atmosfera iniziate con la rivoluzione industriale non abbiano contribuito a modificare l’effetto serra. Il problema è però la quantificazione di questo apporto, dato che la CO2 è solo uno dei gas serra e di certo non il più importante.

In sintesi, tornando alle temperature ed al livello dei mari, quel che emerge dai dati che abbiamo esaminato è che un aumento esiste, ha una certa rilevanza, ma non c’è nulla che assomigli davvero ad una catastrofe.

La comparazione con i dati storici – sempre da prendersi con prudenza, ma sono tante le cose che richiederebbero cautela! – ci dice che gli incrementi in corso dei due valori considerati non sono incompatibili con le variazioni stimate, e comunemente accettate, della fase interglaciale in cui viviamo.

Questo non significa che il clima non possa essere un problema. Ma in un certo senso lo è sempre stato, solo che in passato mancavano gli strumenti per apprezzare le millimetriche variazioni che oggi siamo invece in grado di rilevare. Ad ogni modo è bene che il fenomeno venga seguito e studiato a fondo. Ed è bene che l’utilizzo dei combustibili fossili venga ridotto il più drasticamente possibile, visto che ne va comunque dei nostri polmoni e della conservazione di materie prime probabilmente utili anche per il futuro.

Quel che è male, invece, è il catastrofismo. L’uso del tema climatico per altri ed indicibili scopi. E che oggi sia in voga un catastrofismo assurdo, costruito su narrazioni false ed insostenibili, lo vedremo ancor meglio nella prossima puntata, che sarà dedicata a dimostrare l’infondatezza della teoria dell’aumento dei cosiddetti “eventi estremi”.

3 (continua)

Articoli precedenti:

Clima 1 – E se fosse la lobby nucleare? (18 marzo 2019)

Clima 2 – Quelli che non se la bevono (25 marzo 2019)