Modalità inusuale quella scelta da Conte per scatenare la crisi di governo. Di norma, dato che siamo una Repubblica parlamentare, il Presidente, se ritiene di non avere la fiducia dei partiti che lo sorreggono, convoca il Consiglio dei ministri e quindi si rivolge alle Camere.
Ma siccome va di moda il populismo, egli, intervenendo a gamba tesa, ha imitato i due azionisti di maggioranza, sfidandoli sul loro stesso terreno e si è rivolto direttamente ai cittadini.

Che sia stato Mattarella a fargli recitare questa parte in commedia (francamente poco credibile) nessuno può avere dubbi.

Il primo fatto è dunque questo: la sceneggiata di ieri pomeriggio sancisce l’adesione definitiva di Conte al “partito di Mattarella”, che già contava, come minimo, sul Cavallo di Troia e ministro dell’Economia Tria.

Morale della favola: Salvini e Di Maio, ammesso che vogliano andare avanti, sanno di avere un nuovo infiltrato, addirittura come primo ministro.

Nessuno si lasci ingannare. Che il motivo della mossa di Mattarella sia quello di porre fine ai “litigi” tra Di Maio e Salvini è solo un pretesto formale. Ben altra è la causa, ben altro l’oggetto del contendere.

Quale sia è presto detto: far si che Lega e M5S ubbidiscano al diktat in arrivo da Bruxelles.
C’è infatti un passaggio decisivo del discorso di Conte, quando ha detto: (1) che  le regole eurocratiche su deficit e debito — questione sulla quale abbiamo scritto giorni addietro — vanno rispettate e (2) che la conduzione del “negoziato” — leggi la resa —con la Commissione non spetta né a Di Maio né a Salvini, bensì a lui medesimo e a Tria.
Si tratta di un vero e proprio ultimatum, che apre di fatto la crisi di governo. Ora il cerino acceso — anzi il candelotto di dinamite — è passato nelle mani dei due litiganti, per la precisione anzitutto nelle mani di Salvini.
Come andrà a finire questa partita?
CI SONO TRE VIE D’USCITA

La prima. Salvini e Di Maio, davanti alla minaccia dell’attivazione della “procedura d’infrazione”, si tirano giù le braghe, accettando di rispettare il diktat in arrivo con la letterina di Bruxelles, varando una “manovra bis di aggiustamento dei conti pubblici” e promettendo che la prossima Legge di bilancio sarà scritta da Bruxelles.
La seconda. Salvini prende la palla al balzo, aprendo ufficialmente la crisi di governo per rimandare gli italiani alle urne.
La terza. Salvini e Di Maio, decidono di accettare la sfida della Commissione europea, tenendo fede a quanto entrambi hanno ripetuto in questi giorni: “non torneremo all’austerità e finanzieremo in deficit le misure previste nel Contratto”. Ciò significa arroccarsi e andare avanti col governo, sostituendo Conte come Presidente del Consiglio e, dato che ci siamo, Tria come ministro dell’Economia.
I prossimi giorni sapremo come finirà questa vicenda.

Non c’è dubbio quale delle tre uscite sia quella preferibile: tenere testa alla Commissione, evitare elezioni anticipate, andare avanti sostituendo Conte e Tria.

Che saremmo giunti presto a questo punto, alla definitiva prova di forza tra l’eurocrazia di Bruxelles e il governo giallo-verde, noi  — contrariamente a tanti azzeccagarbugli che avevano già dato per definitiva la resa dei giallo-verdi — lo avevamo detto subito dopo il compromesso pasticciato sulle Legge di bilancio 2019 (Lo scontro decisivo è solo rimandato).

Quale sarà il posto che occuperemo noi nel caso del definitivo braccio di ferro con Bruxelles è presto detto: in piena autonomia staremo dalla parte del governo, ovvero dalla parte della maggioranza popolare che lo sorregge.

E’ vero che il nemico è potente, che per vincere ricorrererà ad ogni mezzo, anche all’arma letale dello spread scatenando l’inferno — come avemmo modo di dire subito dopo le elezioni del 4 marzo 2018. Tuttavia l’eurocrazia è un gigante dai piedi d’argilla: questa Unione non ha vita lunga. E quanto ciò sia vero ce lo conferma il micidiale affondo di Trump (“inglesi, uscite dalla Ue e non pagate”). E se toccherà all’Italia dare il colpo di grazia, che sia!

E comunque tra resa e resistenza non può esserci dubbio alcuno da che parte stare.

Come disse Winston Churchill dopo la Conferenza di Monaco: «Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Hanno scelto il disonore e avranno la guerra».