Cresce in Europa l’interesse per le vicende italiane dopo le elezioni europee. Cosa accadrà adesso? Ci saranno elezioni anticipate? Quali sono le vere intenzioni del governo giallo-verde riguardo all’Unione europea? Davvero saranno lanciati i MiniBoT? Reggerà l’alleanza M5s Lega? Di che natura è il populismo di Salvini?
A queste ed altre domande poste dal sito in lingua tedesca EUREXIT risponde Leonardo Mazzei del Comitato centrale di P101. L’intervista è di Wilhelm Langthaler.

Le elezioni europee hanno rovesciato i rapporti di forza nel governo populista. Perché è avvenuto?

I rapporti di forza interni si sono invertiti, ma la maggioranza giallo-verde ha perfino guadagnato consensi. Alle elezioni politiche del 2018 aveva il 50,03% dei voti, alle europee ha ottenuto il 51,40%. Considerato che per il governo non è certo stato un anno facile, si tratta di una differenza minima ma significativa.
Credo che il rovesciamento dei consensi sia da attribuirsi a tre fattori. In primo luogo la Lega ha potuto incassare molti consensi grazie allo stop all’immigrazione clandestina nel Mediterraneo. In secondo luogo, mentre il Reddito di cittadinanza ha prodotto una forte delusione nell’elettorato M5S, l’intervento sulle pensioni – “Quota 100” – voluto in primo luogo dalla Lega, ha spinto molti lavoratori a votare per la prima volta questo partito. In terzo luogo, non bisogna dimenticarsi del ruolo dei media, che per un anno intero hanno fatto ricorso ad ogni argomento per attaccare i Cinque Stelle ancor più che il governo nel suo insieme.
Come se non bastasse, Di Maio ha sbagliato tutto nell’ultima parte della campagna elettorale quando, per dimostrare la propria autonomia da Salvini, ha operato una sorta di “svolta a sinistra”. Purtroppo questa sterzata includeva anche un profilo assai più europeista di quello tradizionale del movimento. Una mossa pagata nelle urne.

Dopo questi risultati, possiamo parlare di una svolta a destra come fanno i media europei?

Ci andrei molto cauto. Se guardiamo nel lungo periodo una svolta a destra certamente c’è stata, ma non è un fatto dell’ultimo anno. La verità è che con la fine sostanziale dei partiti, abbiamo ormai un voto non ideologico. Un voto dato, di volta in volta, a chi in quel momento sembra più adatto a risolvere i problemi. E per l’Italia il problema è la crisi, una lunga stagnazione (con due intense fasi recessive) che dura da dodici anni. Basti pensare che il Pil pro-capite italiano è ancora 7 punti al disotto di quello del 2007.
Buona parte dei votanti della Lega nel 2019, nel 2014 avevano votato Renzi (che prometteva sfracelli in Europa), poi i Cinque Stelle un anno fa. Come voteranno tra un anno o tra tre nessuno può dirlo adesso. Diciamo che le persone cercano una via d’uscita alla situazione attuale. Una svolta che vorrebbero la più indolore possibile, e proprio per questo si affidano al voto. Al tempo stesso, però, questo moderatismo non è stupido ed ha un suo preciso orientamento, tendendo a premiare chi in quel momento appare più credibile ed incisivo.
Ma per capire come sia improprio parlare di “svolta a destra” possiamo anche considerare i diversi risultati elettorali degli ultimi 11 anni. Nel 2008 la coalizione di destra vinse le elezioni politiche con il 46,81%, ma se consideriamo anche le altre liste non coalizzate la destra arrivò complessivamente al 55,43%. Nel 2013 ci fu invece il tracollo: 29,18% alla coalizione, 31,84% nel complesso. Nel 2018 la coalizione risalì al 37,00% (39,01% con i non coalizzati). Quest’anno le forze della tradizionale coalizione di destra (Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia) hanno raggiunto il 49,58%, mentre le due formazioni apertamente neofasciste – CasaPound e Forza Nuova – hanno ottenuto rispettivamente lo 0,33% e lo 0,15%, Un risultato, quest’ultimo, che dimostra alla grande quanto sia strumentale l’allarme antifascista suonato dalle èlite.
Mentre questi dati ci mostrano la grande mobilità elettorale degli ultimi anni, essi mettono in luce come i consensi attuali della destra siano perfino inferiori a quelli del 2008, quando nessuno se ne allarmava perché tutto si svolgeva comunque nel recinto di un bipolarismo che molti immaginavano allora come eterno.  

Quali conseguenze politiche avrà il voto del 26 maggio? Si è sentito parlare di elezioni anticipate.

Al momento le elezioni anticipate sono possibili, ma non certe. Dopo il voto i due partiti di governo si sono infatti ricompattati. Adesso lo scontro non è tra Lega ed M5S, quanto invece tra questi due partiti e la componente imposta da Mattarella, quella che definiamo da sempre come “Quinta Colonna” interna al governo. Il ministro degli Esteri Moavero e, soprattutto, il ministro dell’Economia Tria, operano fin dall’inizio come due infiltrati del blocco eurista dentro all’esecutivo. Nelle ultime settimane, con il riaccendersi dello scontro con la Commissione europea, anche il primo ministro Conte si è posto sempre più chiaramente sulla linea di Tria.
Qualora questa componente, sostanzialmente teleguidata dal presidente della repubblica, dovesse prevalere, sarebbe la vittoria di Bruxelles e la fine politica del governo giallo-verde. E’ difficile però che le cose vadano in questo modo. Decisiva sarà la sorte di Tria. Se sarà costretto alle dimissioni il governo potrà andare avanti, dunque niente elezioni anticipate. Ma Tria, proprio per il gioco sporco che svolge, farà di tutto per restare al suo posto operando come guastatore interno al governo.
Se Salvini e Di Maio non riusciranno a venire a capo di questa situazione è probabile che a settembre si vada alle elezioni anticipate. E’ questa una prospettiva vista con favore da Mattarella. Il presidente della repubblica ha infatti come primo obiettivo la caduta del governo giallo-verde, puntando poi a fare i conti con Salvini grazie alla parte più docile della Lega, aiutata magari da qualche azione della magistratura. Una componente, quest’ultima, sempre presente nei momenti decisivi della vita nazionale.

La commissione europea sta attaccando l’Italia per “l’infrazione dei trattati”. Come reagiranno il governo e le sue componenti interne? Sembra che Conte cerchi un compromesso, ma su quale base?

Come ho già detto Conte è adesso allineato con Tria. La loro tesi è che la “procedura d’infrazione” sarebbe per l’Italia il peggiore dei mali, dunque l’accordo con l’UE va secondo loro trovato a tutti i costi. Una posizione non condivisa da Lega e M5S.
Il problema non è la manovra aggiuntiva richiesta, bensì la futura Legge di Bilancio, che come noto andrà presentata entro il 15 ottobre. Per l’Italia è impensabile tornare all’austerità. Sono impensabili nuove tasse (in gioco c’è soprattutto l’IVA), come nuovi tagli. Veri spazi di compromesso in realtà non se ne vedono. Un accordo come quello trovato nel dicembre scorso non sembra oggi riproponibile. E’ la stessa situazione economica italiana, con la crescita zero dell’ultimo anno, che impone delle scelte espansive. Ma questo l’UE non può accettarlo. Lo scontro sembra dunque certo. Più che ad un compromesso la linea di Tria e Conte porterebbe ad una capitolazione. Probabilmente sanno anch’essi che questa è improbabile, dato che Salvini e Di Maio non la potranno accettare, ma il loro gioco è a questo punto chiaramente disfattista.

I due grandi progetti del governo erano il reddito di cittadinanza (Cinque stelle) e “Quota 100” sulle pensioni  (Lega). Poi c’è la flat tax, un altro progetto del partito di Salvini. Cosa hanno fatto e cosa faranno nel prossimo futuro su questi temi?

Reddito di cittadinanza e “Quota 100” sono stati realizzati con la Legge di Bilancio del 2018. Ma entrambe queste misure sono state ridimensionate a causa dell’accordo con l’UE che abbiamo già ricordato.
Mentre “Quota 100” consentirà comunque di anticipare la pensione ad almeno trecentomila lavoratori, il Reddito di cittadinanza – pur restando in ogni caso la prima vera misura di contrasto alla povertà – ha subito tagli e limitazioni che ne hanno ridotto sia l’efficacia che il numero dei beneficiari.
Ora in ballo ci sono il salario minimo, voluto da M5S e contrastato dalle aziende, e la flat tax proposta dalla Lega. In termini macroeconomici, dunque nel confronto-scontro con l’UE, il tema fiscale sarà con ogni probabilità quello centrale.
Sulla flat tax vanno dette due cose. La prima è che, a dispetto del nome, essa non sarà comunque flat. Il progetto originario della Lega (aliquota unica sui redditi familiari al 15%) è stato ormai accantonato. Un abbandono dovuto tanto alla sua insostenibilità economica, quanto alla sua improponibilità dal punto di vista sociale. Tra l’altro l’articolo 53 della Costituzione dispone il carattere progressivo dell’imposizione fiscale. La seconda cosa è che il progetto non è stato ancora presentato. Si parla ora di una tassa piatta al 15% solo per i redditi familiari inferiori ai 50mila euro lordi (26mila per i single), ma trattandosi per adesso solo di discorsi è impossibile al momento una valutazione più precisa.

Il parlamento ha autorizzato l’emissione dei Mini-Bot, che la Commissione ha subito respinto. È veramente un passo verso una nuova moneta? O è solamente una minaccia alla commissione? Anche Tsipras & Varoufakis provarono un bluff, ma il risultato fu catastrofico. Sarà diverso in Italia?

Se fosse solo un bluff sarebbe il più stupido dei bluff, anche perché a Bruxelles non ci metterebbero molto a scoprirlo. In realtà l’emissione dei Mini-Bot sarà – in un senso o nell’altro – la vera prova della volontà politica del governo.
Formalmente non si tratterebbe di una nuova moneta, bensì di titoli del debito un po’ particolari, dato che non prevederebbero né interessi né scadenze. Essi servirebbero ad accelerare i tempi di pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione. Uno strumento che darebbe due vantaggi allo Stato: quello di non pagare interessi e di immettere – di fatto – nuova liquidità.
E’ chiaro che se i Mini-Bot funzionassero – ed io penso che funzionerebbero – col tempo potrebbero diventare una sorta di moneta parallela, utilizzabile non solo a compensazione dei crediti/debiti tra Stato ed aziende, ma nelle normali transazioni commerciali. Proprio per questo la questione è cruciale. Se il governo andrà avanti, lo scontro con l’Ue sarà inevitabile.

I Cinque Stelle sono considerati come l’ala sinistra del governo populista. Come leggono la loro sconfitta? Come pensano di rispondere?

Obiettivamente i Cinque Stelle sono l’ala sinistra del governo, ma il loro modo di essere e di presentarsi è troppo confuso. Sono permeabili alle questioni sociali, pur essendo nella sostanza subalterni alla narrazione neoliberista. Esprimono una visione democratica e costituzionale, contraddetta però dai pazzeschi meccanismi del loro funzionamento interno. A differenza della Lega, hanno spesso posizioni corrette sulle questioni internazionali, ma non mancano mai di riaffermare il loro atlantismo. E si potrebbe continuare… D’accordo che una certa dose di ambiguità è tipica di ogni populismo, ma questi troppe volte esagerano…
Proprio per l’assenza di una vera identità i Cinque Stelle faticano a leggere la loro sconfitta. Personalmente non sono tra coloro che pensano che M5S sia destinato a scomparire nei prossimi anni dalla scena politica italiana, ma alcune scelte (dall’organizzazione, alla democrazia interna) non paiono più rinviabili. Purtroppo, però, una vera risposta politica alla sconfitta elettorale ancora non si vede. Speriamo che sia solo una questione di tempo.

La Lega sembra il grande vincitore. Ma ha sostanza? Il suo blocco sociale nordista include anche la borghesia industriale, com’è pensabile che resista alla Commissione fino alla rottura?

Questo è forse l’interrogativo più grande. La Lega è passata in pochi anni dall’essere una forza del Nord, oscillante tra l’autonomismo ed il secessionismo, ad essere un partito che in quanto nazionalista non può che puntare ad essere innanzitutto “nazionale”. Ovviamente questa trasformazione non è ancora un fatto del tutto compiuto, anzi.
Per certi aspetti è come se nella Lega convivessero oggi due partiti in uno. Da una parte la Lega salviniana (nazionalista) si fa forte dell’incredibile ascesa elettorale di questi anni; dall’altra la Lega nordista dispone ancora di tanta parte dei militanti e dei dirigenti ed ha dalla sua il peso della tradizione e quello dei soldi. Rivelatrice della forza di questa componente è la questione del “regionalismo differenziato”, il progetto di trasferire risorse economiche dalle regioni più povere del sud a quelle più ricche del nord del Paese. Un progetto al momento bloccato dall’opposizione di M5S, ma al quale la Lega non intende rinunciare, avvalendosi peraltro delle norme inserite nella Costituzione nel 2001 dall’allora maggioranza di centrosinistra.
E’ evidente come nel blocco della Lega nordista, che include anche pezzi della borghesia industriale ma non i grandi centri del potere economico, sia tuttora forte una sorta di “europeismo di fatto” dovuto in primo luogo allo stretto legame delle industrie del nord con la filiera produttiva tedesca.
Come si risolverà questo conflitto tra le “due Leghe” non lo sappiamo. Quel che è certo è che se la Lega salviniana tornasse ad essere la Lega Nord di un tempo i suoi consensi si sgonfierebbero assai presto.

E’ immaginabile davvero un’uscita da destra dall’euro?

Questo ce lo diranno i fatti, ma è un’ipotesi che non abbiamo mai escluso. Già nel 2014 il vecchio Coordinamento della sinistra no-euro, nato chiaramente per lavorare ad un’uscita da sinistra dalla moneta unica (e per contrastare su quel terreno l’egemonia della Lega), affermava con chiarezza che anche un’uscita da destra sarebbe stata meglio della permanenza in quella gabbia.
Naturalmente è questa un’ipotesi che pone diversi problemi, ma quell’orientamento resta perché senza liberazione nazionale, senza riconquista della sovranità democratica, ogni altra lotta sociale sarebbe persa in partenza. Figuriamoci quella per il rilancio di un’alternativa socialista…

Non si vede il fattore “gilets jaunes” alla italiana.

Non si vede perché non c’è. E non c’è perché i settori sociali che potrebbero dar vita ad un movimento del genere al momento affidano ancora le loro speranze alle forze di governo.
Prima nel 2012 in Sicilia, poi alla fine del 2013 sul piano nazionale, il movimento dei “Forconi” fu – sia pure su una scala più ridotta – un’anticipazione di quanto avvenuto cinque anni dopo in Francia. Stessa la composizione sociale ed il maggior radicamento nelle aree periferiche. Stesse le modalità di mobilitazione e gli elementi identificativi.
Se ci sarà un ritorno alle politiche di austerità è molto probabile che un movimento con quelle caratteristiche riemerga assai presto, specie nel Sud del Paese.  

E la sinistra, quella tradizionale globalista e quella vostra patriottica?

La sinistra globalista è ormai alla frutta. Alle europee, la lista “la Sinistra” ha ottenuto un misero 1,7%, mentre cinque anni prima “l’Altra Europa con Tsipras” aveva superato il 4%. Ancor più che in passato questa lista è apparsa senza idee, salvo quella di dover comunque difendere l’Unione Europea dall’assalto del nazionalismo di destra. Aver partecipato ad un allarme antifascista, del tutto estraneo al sentimento delle masse, ha fatto il gioco del Partito democratico, che ha così incassato il cosiddetto “voto utile” di chi a quell’allarme ha creduto.
La sinistra patriottica ha grandi idee, ma forze ancora troppo divise. Superare queste divisioni è la condizione indispensabile per operare il salto di qualità verso un soggetto politico credibile. Un soggetto che sappia legare la lotta all’euro-dittatura con una nuova prospettiva socialista. Operazione che nella concreta situazione italiana dell’oggi – questa è la posizione di Programma 101 – può essere condotta solo con un chiaro posizionamento nel campo populista.

15 giugno 2019