Ci sarà o meno l’accordo con l’Ue per fermare la “procedura d’infrazione”? La questione è fondamentale, ma c’è un altro bivio decisivo che ci indicherà la direzione della politica italiana: si andrà oppure no alle elezioni anticipate a settembre?
Dalla risposta a questa seconda domanda dipende infatti anche il futuro del confronto-scontro con l’UE. Solo compattandosi il governo potrà andare avanti, e solo in quel caso possiamo ragionevolmente prevedere una certa capacità di resistenza all’attacco di Bruxelles e Francoforte. Se invece il governo cadrà, aprendo la strada alle elezioni anticipate, le èlite euriste avranno segnato un primo punto (quanto decisivo lo diranno solo i fatti) a loro favore.
Alle elezioni europee abbiamo motivato il nostro voto alle liste M5S solo ed esclusivamente sulla base di un ragionamento, ed un obiettivo, semplice semplice: quello di impedire che un successo troppo ampio della Lega spingesse quel partito al ritorno alle vecchie alleanze, quindi alla caduta del governo gialloverde, dunque alla fine dell’esperienza populista sostituita da una riemersione per quanto debole e contraddittoria del bipolarismo.
Vista da chi è ossessionato dalla modesta figura di Matteo Salvini, questa differenza tra populismo e bipolarismo può sembrare una cosa del tutto secondaria. Tanto, pensano costoro, a guidare questo od il futuro governo sarebbe sempre il fidanzato della figlia di Verdini. Dunque, perché preoccuparsene?
In realtà, come abbiamo spiegato tante volte, la dissoluzione dell’attuale maggioranza di governo è il primo decisivo obiettivo del piano di rivincita delle oligarchie sconfitte nelle urne del 4 marzo 2018.
Mettiamoci nei panni del nemico
Qual è questo piano? Proviamo a capirlo mettendoci nei panni del nemico, che è sempre un buon metodo. I dominanti – giova ricordarlo – non sono invincibili, ma sono in genere piuttosto realisti. Per loro i populisti sono comunque un problema; un veicolo, per quanto scalcinato, attraverso il quale alcune spinte popolari arrivano a superare il tradizionale sbarramento che deve separare di fatto, e senza darlo troppo a vedere, il popolo dai centri, dalle istituzioni, dai meccanismi del vero potere.
Dunque, i populisti o vengono normalizzati o debbono essere cacciati dal governo. C’è tuttavia un problema. Nella concreta situazione italiana questa cacciata non è semplice. Mentre non si vede per quale ragione Salvini e Di Maio (od almeno uno dei due) dovrebbero accettare un ritorno del “governo dei tecnici”, questa soluzione è altamente sconsigliabile anche per le oligarchie, dato che esalterebbe proprio la contraddizione tra popolo ed èlite, che è esattamente quel problemino che lorsignori son costretti a maneggiare con cura.
Che fare allora? Ecco che entra qui in scena il realismo. Se un nuovo Monti non è proponibile, se una rivincita del Pd è di là da venire, il piano ha da essere un altro, necessariamente più complesso. Quale? L’unico realisticamente possibile nella fase attuale. Se ci mettiamo in quest’ottica non è difficile vedere un progetto diviso in tre tappe: 1) rottura dell’alleanza gialloverde, 2) disintegrazione di M5S, 3) governo della destra con la normalizzazione di Salvini.
Il primo obiettivo è quello di spaccare definitivamente l’attuale maggioranza di governo, provocando la crisi e l’impossibilità di un ricompattamento. E’ a questo che si lavora fin dalla nascita del governo Conte. Un lavoro, specie mediatico, teso ad esaltare le contraddizioni reali tra Lega ed M5S, a scavare in quelle interne ai due partiti, cercando di favorire in ognuno le posizioni e le forze tendenti alla divaricazione: il blocco nordista capeggiato da Giorgetti nella Lega, il brontolio “politicamente corretto” dei “fichiani” nei Cinque Stelle.
Caduto il governo, indette le elezioni anticipate, il secondo obiettivo sarebbe quello del totale scompaginamento di M5S. Se sbaragliare le due forze populiste in un colpo solo è impossibile, che intanto se ne faccia fuori una, cercando poi di condizionare l’altra. L’anello debole sono i Cinque Stelle, ed è lì che si andrà a colpire anche per favorire la ripresa del Pd. Del resto – lo abbiamo segnalato tante volte – è in quella direzione, più che verso il governo nel suo insieme, che si è concentrato l’attacco sistemico nell’ultimo anno.
Se così dovessero andare le cose – chi scrive si augura evidentemente il contrario, ma qui è l’ipotesi elettorale che stiamo considerando – dalle elezioni uscirebbe quasi certamente un governo di destra. Ma quale destra? Ecco allora il terzo obiettivo dei dominanti: quello di una destra con un Salvini normalizzato. Apparentemente, questo terzo obiettivo sembrerebbe quello più difficile da realizzarsi. Ma è davvero così? Ecco un punto che, proprio perché meno scontato, ha bisogno di un maggiore approfondimento.
Un Salvini normalizzato?
Non siamo tra quelli che la fanno facile. Quelli che “Salvini farà come Tsipras”. Del resto il salvinismo è davvero un fenomeno complesso, l’incontro (non sappiamo se solo momentaneo) di spinte diverse, che se così non fosse mal si spiegherebbe l’attuale esplosione dei consensi.
Bisogna tuttavia stare ai fatti. Ed essi si condensano talvolta in qualche evento emblematico. Quale miglior simbolo di una certa tendenza, se non il signor Giancarlo Giorgetti da Cazzano Brabbia, cugino del banchiere Ponzellini e chiaro terminale romano della Lega Nordista? Ebbene, è stato proprio costui a bruciare sulla pubblica piazza la proposta dei MiniBot. Non solo, non contento del sostegno dato in questo modo ai vari Tria, Mattarella, Visco e Draghi, egli è passato a sfottere a più riprese il collega di partito Borghi Aquilini. Ora, che di “Leghe” ne esistessero almeno due, questo ci era noto da tempo. Ma il fatto è che il Giorgetti ha parlato come colui che davvero comanda.
Sapremo presto se così stanno le cose, ma diversi fatti vanno in questa direzione. In primo luogo il ricompattamento del governo, avviato dopo il 26 maggio, è di nuovo in crisi. E la ragione principale è nell’insistenza leghista sul “regionalismo differenziato”. I governatori del nord vogliono incassare alla svelta, favoriti in questo dalla sostanziale acquiescenza del Pd. Ma dividere il Paese, proprio nel momento in cui si dice di voler tenere testa all’UE, mette in luce che c’è qualcosa che non va nella narrazione leghista.
Se andremo alle elezioni a settembre, questo sarà il segno della vittoria della linea di Giorgetti nella Lega. Una vittoria che farebbe piacere al Quirinale ed al Pd, per non parlare della tecnocrazia eurista. Il diavolo, tuttavia, fa le pentole ma non i coperchi. E neppure Giorgetti potrebbe spodestare Salvini, che guida tra l’altro un partito che si chiama proprio “Lega – Salvini premier”. Tutto questo è chiaro, ma…
Ma… c’è sempre un “ma” che conviene esaminare
Apparentemente la leadership di Salvini è fuori discussione. E siccome non pensiamo che il tipo sia “tutto fumo e niente arrosto”, stanti così le cose anche lo scontro con l’UE apparentemente è inevitabile. Ci sono tuttavia tre fattori di cui dobbiamo tenere conto.
Il primo è che l’opzione elettorale determinerebbe di fatto una tregua, per quanto breve, con la Commissione europea. Il secondo è che la destra vincente avrebbe a quel punto, almeno in teoria, un’intera legislatura davanti; un quadro in cui sarebbe più facile tentare un compromesso con Bruxelles. Il terzo fattore, vero punto di forza della Lega Nordista, è che l’UE sarebbe ben felice di favorire le due misure bandiera del “regionalismo differenziato” e della flat tax, a patto – nel caso della seconda – che essa venga compensata con un mix di nuove tasse e/o nuovi tagli. A quelle condizioni l’Italia potrebbe forse avere, per un po’ di tempo, un più favorevole trattamento alla “spagnola”.
Tuttavia Salvini non è Rajoy, e (come avevamo previsto) il matrimonio europeo tra il PPE ed il populismo di destra, che molti ipotizzavano nei mesi scorsi, non è avvenuto. Ma l’Italia non è l’Europa, ed a Roma qualcuno dovrà pure governare. Posto che la coalizione di destra ha di gran lunga le maggiori possibilità di affermarsi, chi verrà chiamato a Palazzo Chigi?
Abbiamo già scritto diverse volte, ricordando il ruolo della magistratura nei passaggi topici della vita nazionale, che la normalizzazione di Salvini potrebbe avvenire per vie non convenzionali. Quali non ci è dato sapere, ma il leader della Lega sembra temere qualche agguato di questo tipo. Non necessariamente un attacco che lo faccia fuori del tutto, ma che ne ridimensioni quantomeno le ambizioni personali e politiche.
Fantapolitica? Chissà. Ma nel caso, come non vedere che sarebbe proprio Giorgetti l’uomo della normalizzazione, dell’accordo con l’oligarchia nazionale, del compromesso con Bruxelles? Ovvio che, ove fosse quella la linea, Giorgetti arriverebbe in carrozza a Palazzo Chigi.
Pur se questa non sarebbe certo la fine della spinta populista, questo epilogo ne segnerebbe una pesante per quanto momentanea sconfitta. Momentanea perché, ne siamo certi, quella sconfitta alla fine colpirebbe anche la Lega, destabilizzando così nuovamente un equilibrio comunque precario. Si fa presto infatti a conquistare consensi, ma di questi tempi ancor meno ci si mette a perderli.
Basterebbe forse ricordarsi di quest’ultimo dettaglio per evitare la scelta che oggi appare come la più facile ai capibastone leghisti. Chi vivrà vedrà, ma non si facciano illusioni.